Le strategie di Universal Robots per dominare il mercato dei Cobot

di Marco de’ Francesco ♦ Più economici, versatili, e più facili da gestire dei loro fratelli maggiori, i robot collaborativi fanno al caso delle Pmi, colmando il divario tra la produzione artigianale e quella automatizzata.Un mercato piccolo, ma in crescita esponenziale, dove la società danese la fa da padrone. Gli esempi di Continental, Bajaj Auto, Paradigm Electronics, Orkla Foods Sverige spiegati dal country manager Alessio Cocchi

Piccoli strumenti studiati per cooperare con l’operatore umano in una cella di lavoro, flessibili, programmabili con un corso online di 87 minuti e configurabili in un’ora, poco costosi, riutilizzabili in contesti diversi, consentono un ritorno dell’investimento in sei mesi, senza considerare l’iperammortamento. Stiamo parlando dei cobot, i robot collaborativi, l’avanguardia della robotica democratica: ovvero il 4.0 a portata di piccola impresa, per lo più manifatturiera. Non solo perchè possono essere applicati ai grandi impianti, com’è ovvio; ma rispetto ai piccoli si può dire che colmino il divario tra la produzione artigianale e quella automatizzata. Si diffondono con una crescita superiore al 50% all’anno.

Guida questa rivoluzione l’azienda danese che i cobot ha inventato e piazzato sul mercato domestico e tedesco già nel 2008: Universal Robots, presieduta da Jürgen von Hollen. Tre modelli di diversa portata sono stati studiati per la pallettizzazione di precisione, le ispezioni per la qualità, lo stampaggio a iniezione, l’assemblaggio industriale, il prelievo e il posizionamento e tanto altro. E per settori diversificati: dall’automotive alla chimica, dall’industria aerospaziale alla lavorazione dei metalli. Ma come sarà il cobot del futuro? Ancora più agile, più facilmente integrabile in azienda, con software ancora più intuitivi. Perché è quello che chiede il mercato, il mercato delle Pmi. Ne abbiamo parlato con Alessio Cocchi, che guida la filiale italiana di Universal Robots.







 

Alessio Cocchi

L’avanzamento della robotica democratica

Per alcuni osservatori, i cobot costituiscono il 4.0 a portata di piccolo imprenditore, per lo più manifatturiero. Il fatto è che per i grandi apparati robotizzati di medie e grandi industrie, con tutti i loro sottosistemi, occorrono risorse e competenze difficilmente reperibili in piccole realtà. Con i cobot invece, come vedremo, c’è la possibilità, per le piccole aziende, di colmare il divario tra la produzione artigianale e quella automatizzata. Mentre i robot industriali sono progettati per operare in modo autonomo e lavorano all’interno di gabbie di sicurezza, i robot collaborativi (cobot), sono strumenti destinati a interagire fisicamente con gli esseri umani in spazi di lavoro condiviso.

 Grazie al controllo delle dinamiche, al sensore di forza/coppia e a eventuali telecamere e sistemi anticollisione sono in grado di coordinare la propria azione con quella degli operatori umani. In genere, si tratta apparecchi piccoli e agili, studiati per manipolare le cose. Spesso dotati di sembianze umane, con tronco e due braccia (ma non quelli di UR, che sono tipicamente antropomorfi a sei assi), richiedono una programmazione meno sofisticata di un robot tradizionale, il che riduce il costo complessivo dell’installazione e aumenta la flessibilità.

 

 

 

Secondo una analisi di “Robotic Business Review”, Universal Robots domina il mercato «con una quota poco inferiore al 50% delle revenue. Nessun altro vendor, peraltro, detiene ad oggi una quota superiore al 10%». Secondo l’azienda, altre statistiche attesterebbero che UR dispone di una quota superiore al 50%; comunque sia, attualmente UR mette in fila – in ordine di vendite – Fanuc, TechMan, Rethink Robotics, Aubo, Abb, Kawasaki, Kuka, Yaskawa, Precise Automation, Siasun, Staubli e altri. È un mercato ancora piccolo, rispetto a quello della robotica industriale: meno di 400 milioni di dollari nel 2017, e 600 milioni l’anno scorso. Ciò che c’è da rilevare è la crescita esplosiva, superiore al 50% in un anno.

«Un incremento assai più marcato di quello della robotica tradizionale – afferma il country manager di UR Cocchi – che si ferma a quota 25% annuo. Dunque i cobot sono destinati ad erodere un po’ la fetta del mercato tradizionale; ma ciò non perché sostituiscano le macchine non collaborative, ma perché offrono nuove e diverse potenzialità in termini di automatizzazione dei processi». Naturalmente, anche la questione dei costi ha un peso nelle scelte dell’azienda-cliente. «In effetti – afferma Cocchi – un cobot costa tra i 20mila e i 40mila euro; ma considerato i minori costi di installazione e di programmazione, alla fine si spende circa il 25% in meno rispetto ai tipici modelli industriali. Il ritorno dell’investimento è a breve, anche solo di qualche mese». Va peraltro sottolineato che quella dei cobot è una delle tecnologie oggetto di iperammortamento. Ma la ragione del successo è un’altra: «Non sono richieste competenze particolari per farlo funzionare, e può essere spostato in azienda per renderlo operativo in altri lavori. Insomma, è uno strumento particolarmente adatto alle Pmi».

La suddivisione dei compiti nella cella di lavoro

Secondo Cocchi, tutte quelle attività «che riguardano la verifica dei processi, e che quindi comportano intelligenza, vanno lasciate agli umani». Vanno invece gestite dal cobot tutte le operazioni ripetitive di basso valore aggiunto – che la macchina svolge prima, meglio e senza sbagliare – nonché quelle pericolose. Va detto che il cobot è adatto anche ad attività che presentano una forte variabilità: proprio perché di dimensioni ridotte, lavora senza barriere, non genera “obblighi” a livello di layout produttivo e ha una grande flessibilità operativa e applicativa. «Si unisce il meglio dei due mondi, quello umano e quello dei cobot. Migliorano la produttività e la qualità del lavoro. È la gestione più razionale della cella, che va fatta partendo dal principio che il cobot è sostanzialmente un terzo braccio a disposizione dell’operatore».

 

Tre modelli di cobot per mercati differenziati

A differenza di altre aziende, la gamma di prodotto di UR si concentra su tre modelli. Si tratta di UR3, che può gestire un carico fino a 3 kg con un raggio di lavoro di 500 mm; di UR5, che con uno sbraccio di 850 mm può maneggiare pesi sino a 5 kg; e infine di UR10, che con uno sbraccio di 1300 mm può sollevare un carico di 10 kg. «Non c’è un modello più venduto degli altri – afferma Cocchi -, ma le aziende in genere preferiscono disporre di cobot con una portata di un kg in più rispetto alle necessità reali. Se l’azienda ha il dubbio che domani le serviranno macchine in grado di maneggiare kg, si orientano su macchine con payload maggiore.

Cosa possono fare questi cobot? Tra le operazioni, la pallettizzazione di precisione, le ispezioni per la qualità, lo stampaggio a iniezione, l’assemblaggio industriale, il prelievo e il posizionamento e tanto altro. E quali sono i mercati verticali? In realtà sono molto diversi tra di loro. Lavorazione di metalli, settore automobilistico, agricoltura e prodotti alimentari, settore chimico e farmaceutico, plastica e polimeri sono tra i principali. Ma anche l’industria aerospaziale, in asservimento di macchine a controllo numerico; e l’arredamento, per sollevare gli operatori dalle mansioni più faticose. «Le prime aziende che si sono rivolte a noi – afferma Cocchi – sono state quelle che dovevano fare l’asservimento delle macchine utensili; ma ora ci occupiamo di imprese provenienti da comparti molto diversi gli uni con gli altri. D’altra parte, se c’è bisogno di una manipolazione leggera e non particolarmente veloce, la soluzione giusta è quella del cobot».

Strategie per le Pmi. L’idea è che i clienti facciano da testimonial

«Non c’è pubblicità migliore del passaparola – afferma Cocchi -; pertanto, per noi è importante realizzare incontri ed eventi con le Pmi, in modo che possano adottare tecnologie e dar vita a casi d’uso. Molto spesso questi ultimi sono postati su You Tube, ed è su canali come questo che le aziende interessate cercano le innovazioni di cui hanno bisogno». Secondo Cocchi, «c’è tanto da fare. Va peraltro sottolineato che il mercato italiano sta rispondendo bene. Abbiamo aperto la filiale italiana a Torino nel 2016, e contribuiamo al fatturato globale dell’azienda, pari, nell’anno fiscale 2017, a circa 170 milioni di dollari. Dato in crescita del 72% rispetto all’anno precedente. Abbiamo una rete con quattro distributori, qui in Italia, e l’attenzione delle Pmi è sempre più rilevante. Ma ci occupiamo anche di aziende medie e grandi».

 

I vantaggi per le Pmi, punto per punto

Al di là dei costi, di cui abbiamo già parlato, ci sono altri elementi di rilievo che portano le piccole aziende a servirsi dei cobot. Quanto alla programmazione semplificata, secondo Universal Robots, una tecnologia brevettata consente agli operatori senza esperienza di programmazione di configurare e gestire rapidamente i cobot grazie a una visualizzazione 3D intuitiva. «È sufficiente spostare il braccio del robot sui waypoint (punti di riferimento nello spazio fisico) desiderati o toccare i tasti freccia sul tablet con touch screen di facile utilizzo». Secondo UR, con questa operazione bastano 87 minuti per trasformare chiunque in un programmatore grazie alla UR Academy, un programma gratuito di formazione online.

Quanto alla rapida configurazione, secondo l’azienda sono stati ridotti i requisiti tipici di riposizionamento delle unità robotiche, la cui misurazione richiede solitamente settimane, «ad un’operazione di poche ore. Il tempo medio di configurazione misurato dai clienti è non più di mezza giornata. L’esperienza “out of the box” per un operatore non addestrato, tra estrazione dall’imballo, montaggio del cobot e programmazione della prima semplice attività solitamente richiede meno di un’ora».

Sempre secondo l’azienda, essendo ridotti ai minimi termini i costi normalmente associati a programmazione e semplificazione, il ritorno nell’investimento è molto veloce: si parla di sei mesi. C’è poi la questione dell’implementazione flessibile. L’azienda ricorda che i cobot sono «leggeri, ad ingombro ridotto e facili da implementare su più applicazioni senza modificare il layout di produzione. Trasferire il cobot a nuovi processi è semplice e veloce, e si può automatizzare praticamente qualsiasi attività manuale, compresi i processi su lotti di piccole dimensioni o i cambi rapidi. Il cobot è in grado di riutilizzare i programmi per le attività ricorrenti».

Quanto invece alla sicurezza, il sistema di controllo dei cobot è approvato e certificato da TÜV (Technischer ÜberwachungsVerein, Associazione di Controllo Tecnico). Il design, infine, è modulare. Ciò riduce al minimo i rischi di cali della produzione. In caso di guasti o malfunzionamenti, è possibile riparare il cobot in modo facile e veloce grazie appunto alla struttura a moduli. L’interfaccia utente è disponibile in 20 lingue.

 

Non solo Pmi, ma anche casi di aziende di peso

Per esempio, la multinazionale Continental, azienda storica tedesca (fondata nel 1871 ad Hannover) uno dei primi produttori mondiali di pneumatici, di sistemi di frenata, di sistemi di controllo di stabilità del veicolo e di altre parti per automobili e autocarro. Fattura circa 45 miliardi di euro e dispone di una forza lavoro di circa 235mila dipendenti. Nel 2016 l’azienda ha deciso di automatizzare la produzione di circuiti stampati per ridurre i tempi di esecuzione. Così Continental Automotive Spagna ha scelto Universal Robots per eseguire le operazioni di gestione e validazione di questi componenti.

«Inizialmente – rende noto UR – ha installato due robot UR10 per caricare e scaricare i circuiti stampati e per il montaggio dei componenti. Attualmente i bracci robotici UR10 installati sono aumentati a sei, con tre ulteriori UR10 in arrivo. UR10 è il robot collaborativo più grande fra quelli prodotti da Universal Robots, ha un payload di 10 kg ed uno sbraccio utile di 1300 mm. Tutto per poco meno di 30 kg di peso. È alimentato dalla normale corrente a 220 V di tensione».

Bajaj Auto, azienda indiana di Pune e secondo costruttore indiano di scooter, 227 miliardi di rupie (2,8 miliardi di euro) di fatturato, ha scelto i cobot di Universal Robots per le proprie catene di montaggio. L’obiettivo dell’azienda era produrre motocicli di prima classe migliorando al contempo la produttività e l’ergonomia all’interno dei propri stabilimenti. Ora numerosi processi, quali la gestione dei materiali e l’asservimento macchine, sono gestiti in maniera collaborativa dai cobot e dai dipendenti della Bajaj. L’azienda indiana ha scelto Universal Robots principalmente per via della natura collaborativa dei suoi robot.

Ancora, Paradigm Electronics, azienda canadese di strumentazione audio, si è rivolta a Universal Robots a seguito del lancio della finitura Midnight Cherry che, applicata ad un modello di altoparlante ad alte prestazioni, ha rappresentato un successo inatteso. La domanda era cresciuta più della capacità dell’azienda di provvedervi. Per la finitura Midnight Cherry è necessario applicare diversi strati di lacca, quindi continuare a levigare e lucidare durante l’applicazione di ciascuno strato. Per effettuare tale operazione, è necessaria una quantità notevole di lavoro manuale. Paradigm ha optato per il cobot UR10.

Cobot e operatori si affiancano ora in un’attività pendolare, in cui possono interagire in modo sicuro, consentendo alle risorse umane di verificare se il robot ha svolto un lavoro soddisfacente prima che la lucidatura finale sia trasferita alla risorsa umana. Secondo John Phillips, responsabile della produzione di Paradigm, «si tratta davvero di un’attività a quattro mani». Grazie a un aumento della produzione del 50%, tale integrazione ha permesso di evadere tutte le richieste in sospeso.

Infine, Orkla Foods Sverige. È un’azienda alimentare svedese con sede a Malmö, nel contesto del gruppo norvegese Orkla. Fattura circa 5,4 miliardi di corone svedesi (526 milioni di euro) con 15.000 dipendenti. Universal Robots rende noto che «tra i vari prodotti, la fabbrica di Kumla produce crema alla vaniglia. Prima che la Orkla Foods Sweden investisse nella robotica collaborativa di Universal Robots, i sacchetti di crema alla vaniglia venivano impacchettati manualmente nei cartoni. L’obiettivo di Orkla Foods era quello di trovare una soluzione automatizzata in grado di lavorare in rete con altri macchinari produttivi, che fosse facile da spostare e programmare e in grado di operare fianco a fianco con gli operatori senza la necessità di installare barriere di protezione». Ora il processo è stato automatizzato grazie al già citato robot UR10. Il robot lavora in modo indipendente, ma è parte di una rete assieme a un macchinario per la costruzione di cartoni e uno per la sigillatura e viene alimentato da una macchina riempitrice. Secondo l’azienda svedese, il robot «ottimizza ed elimina i sollevamenti pesanti e le attività più ripetitive svolte dagli operatori».

Il cobot del futuro

Si è detto che la semplicità d’uso e di programmazione è uno, se non il principale, motivo dell’acquisto dei cobot. «Queste caratteristiche saranno sempre più esaltate dai costruttori – afferma Cocchi -: le piccole imprese sono attratte dai software intuitivi, da modelli di programmazione che comportano la spesa di poco tempo e poche risorse, da app che gestiscono gli accessori; insomma, da robot collaborativi immediatamente integrabili in azienda». La semplificazione della burocrazia potrebbe ulteriormente aiutare la diffusione dei cobot. «Oggi in effetti è un limite – continua Cocchi – perché si parte dall’idea che le parti in movimento costituiscano motivo di pericolo. L’analisi del rischio è fuori discussione, va sempre fatta, ma la procedura va velocizzata e resa meno ingarbugliata».

Un aspetto su cui si è tanto discusso è la presunta “lentezza” dei cobot, in paragone con la velocità esecutiva dei robot tradizionali. «Le braccia automatiche del cobot si muovono anche alla velocità di un metro al secondo – commenta cocchi – contro i quattro o cinque metri al secondo delle parti in movimento delle macchine industriali. Se i robot collaborativi raggiungessero queste velocità, sarebbe difficile certificare la cella, per ovvie questioni di sicurezza. Quindi i cobot del futuro non saranno più veloci, con tutta probabilità. D’altra parte, la “lentezza” dei cobot va bene per il 90% delle operazioni industriali: per il restante 10% è bene che il cliente acquisti una macchina diversa. Se un’azienda cerca uno strumento che faccia un milione di pezzi, il robot collaborativo non fa per lei; se cerca di incrementare la produttività di una cella, ottimizzando il lavoro umano e quello della macchina, sì».

 

L’headquarter di Universal Robots a Odense, Danimarca

 

[boxinizio]

Dal robot al cobot. Il primato di Universal Robots

L’evoluzione della robotica industriale è stata descritta qualche settimana fa a Industria Italiana dal docente di Meccanica Applicata alle Macchine e Robotica Industriale all’Università di Padova Giulio Rosati I cobot sono stati inventati nel 1996 da due docenti della Northwestern University,  e Michael Peshkin. Un deposito di brevetto statunitense del 1997 li descrive come «apparati e metodi per l’interazione fisica diretta tra una persona e un manipolatore di uso generale controllato da un computer». Tuttavia, da un punto di vista pratico, i robot collaborativi sono arrivati sul mercato più di recente. Secondo Rosati, infatti, «la robotica industriale nasce negli anni Sessanta ma si sviluppa a partire dagli anni Settanta. Il primo robot industriale a quattro assi è durato pochi anni.

Del 1975 è il Sigma, (Sistema Integrato Generico di Manipolazione Automatica) prodotto dalla divisione macchine utensili dell’Olivetti. Nel 1978 è nato il primo robot antropomorfo, il Puma, e il primo Scara (un modello industriale, che muove un “braccio” sul piano orizzontale e una presa che può salire e scendere in quello verticale). Dopo qualche anno, nel 1992, nasce il Delta, un robot parallelo, che consiste in tre bracci collegati da giunti universali alla base: un parallelogramma mantiene l’orientamento del dispositivo di estremità. È un robot molto veloce, molto leggero; ma oggi nelle aziende troviamo antropomorfi, scara e cartesiani. Nel 2008 è stato istallato il primo robot collaborativo, della Universal Robots. E da qui è nato un mondo, che adesso si sta allargando molto in fretta, perché offre alle industria nuove opportunità».Dopo di che, però, Universal Robots non ha riposato sugli allori. Secondo Cocchi «i nostri cobot detengono oltre 65 brevetti in settori quali la programmazione dei robot, la sicurezza e il controllo tecnologico; e hanno vinto oltre 35 premi e riconoscimenti a livello globale. È uno dei motivi per i quali siamo rimasti leader di mercato».

 

Esben H. Østergaard, Chief Technology Officer Universal Robot

Universal Robots

Universal Robots è un produttore danese di cobot flessibili e piccoli, con sede a Odense, in Danimarca. Il volume d’affari nel 2017 è stato di 170 milioni di dollari. La società ha oltre 520 dipendenti (2018) e distributori in 50 paesi in tutto il mondo. La società è stata fondata nel 2005 dagli ingegneri Esben Østergaard, Kasper Støy, and Kristian Kassow. Nel corso dei loro studi all’università Syddansk di Odense, i tre si resero conto che il mercato era dominato dalla robotica pesante e costosa; pertanto, era necessario sviluppare tecnologie accessibili alle Pmi. Così, già nel 2008, il modello UR5 era disponibile in Germania e in Danimarca, seguito dall’UR10 nel 2012. Nel 2015 UR fu acquistata dal gruppo americano Teradyne per 285 milioni di dollari. Jürgen von Hollen è Presidente di Universal Robots e ne è attualmente alla guida. È entrato a far parte di UR nel 2016. Esben H. Østergaard è invece Chief Technology Officer e si occupa dei processi di miglioramento dei cobot e dello sviluppo di nuovi prodotti.














Articolo precedenteVola e controlla: da Siemens il kit che rende i droni autonomi e intelligenti
Articolo successivoFesto e la smart factory nel meccanotessile






LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui