Le aziende devono prepararsi a un’epoca di bassi profitti

di Stefano Di Tommaso ♦ Un economista commenta i risultati dell’analisi di McKinsey, pubblicata sul McKensey Quarterly e ripresa dall’Harvard Business Review, riassunta da Filippo Astone. Il dato che emerge è che questo fenomeno potrebbe essere, per alcuni, una grande opportunità…

Stefano Di Tommaso
Stefano Di Tommaso

I numerosi cambiamenti epocali in corso (prima fra tutte la rivoluzione di internet, che ha determinato l’abbattimento delle barriere geografiche e relazionali) potrebbero aver decretato la fine della bonanza di profitti di cui le maggiori imprese multinazionali hanno potuto godere nel corso degli ultimi 30-40 anni? Sono in molti a ritenere che quel contesto globale così favorevole per la generazione di profitti potrebbe essere destinato a non ripetersi nel futuro. Il volto dell’industria 4.0 (dopo l’avvento diffuso di internet nel business), insomma, potrebbe essere cambiato più di quanto sia possibile oggi percepire.
Le congiuntura che ha determinato infatti la più consistente crescita dei profitti industriali della storia del capitalismo è coincisa con una prolungata pacificazione globale, con l’espansione industriale e tecnologica senza precedenti, con un boom dei commerci internazionali che ha premiato le imprese (per lo più anglosassoni) che hanno saputo espandersi globalmente e cavalcare la concentrazione crescente dei loro settori economici (con la riduzione della concorrenza che ne conseguiva) man mano che il ciclo economico di numerosi prodotti si avvicinava alla maturità.
Le cause della passata bonanza di profitti
Tra le altre cause della recente bonanza di profitti ci sono anche l’ammodernamento delle infrastrutture per i trasporti, le telecomunicazioni, lo sviluppo di tecnologie di automazione industriale, la deregolamentazione, le privatizzazioni, la riduzione dell’imposizione media fiscale, i ridotti costi di finanziamento e la maggior facilità di reperimento dei capitali di rischio e di ventura. Un contesto che, visto con gli occhi di oggi, non poteva essere più favorevole.
Il quadro si completa tenendo conto della straordinaria stagione di acquisizioni e fusioni conseguite alla concentrazione di ciascun mercato ancora oggi in corso, che ha visto protagonisti soprattutto i giganti multinazionali quotati in Borsa, i quali hanno spesso ottenuto da quelle aggregazioni ulteriori grandi benefici economici, contribuendo alla finanziarizzazione dell’economia reale e alla polarizzazione della ricchezza.
Le compravendite aziendali hanno infatti permesso alle imprese maggiori di consolidare la loro posizione strategica e migliorare l’efficienza economica complessiva, riflettendosi da un lato in maggior generazione di cassa, e dall’altro lato nel contribuire a generare grandi plusvalenze per chi vendeva le proprie imprese a queste ultime.
Le plusvalenze hanno alimentato a dismisura l’espansione del mercato dei capitali, poiché i numerosi imprenditori che hanno ceduto la loro attività o la hanno conferita in cambio di azioni quotate, hanno poi riversato sui mercati finanziari delle montagne di nuova carta finanziaria, contribuendo a quel fenomeno moderno di savings glut (congestione dei risparmi) che ha favorito l’attuale stagione di tassi di interesse negativi.







Nel complesso dunque i Profitti Globali Netti dal 1980 al 2013 sono cresciuti globalmente del 50% più in fretta del Prodotto Lordo
Nel complesso dunque i Profitti Globali Netti dal 1980 al 2013 sono cresciuti globalmente del 50% più in fretta del Prodotto Lordo

Il boom finanziario e delle nuove tecnologie
Nel complesso dunque i Profitti  Globali Netti dal 1980 al 2013 sono cresciuti globalmente del 50% più in fretta del Prodotto Lordo, ma la loro proporzione cambia decisamente in funzione della dimensione aziendale e, per questo motivo, nello stesso periodo il valore della “economia di carta” è cresciuto in Occidente molto ma molto di più.

Tutto quanto sopra spiega, almeno parzialmente, la costante crescita dei valori dei titoli azionari quotati alle principali Borse Valori, ulteriormente favorita dalla creazione di nuova moneta recentemente pompata nei mercati dalle Banche Centrali, nonché dalla riduzione generalizzata dei saggi di interesse.

Oggi il forte calo dei tassi di interesse e i pericoli di deflazione e stagnazione secolare hanno inoltre generato una ripetuta (ed eccessiva) attenzione al comparto delle nuove tecnologie, attirando il mercato dei capitali a investire negli elevatissimi costi di sviluppo delle start-up tecnologiche (per fare un esempio: si pensi all’enorme successo e alla folle capitalizzazione di Borsa delle Industrie Tesla, ancor oggi in rosso dopo molti anni dall’avvio). Difficile dire quanta razionalità risieda in quelle attenzioni ma sicuramente il grande successo del “capitalismo di ventura” americano resta alla base del grande sviluppo delle nuove tecnologie.
Dunque c’è forse anche della razionalità nella follia di quelle quotazioni. Ma se tutti questi fattori sono all’opera per migliorare ulteriormente le performances aziendali del futuro con l’ausilio delle nuove tecnologie, cosa sta cambiando allora, perché si possa giungere a pensare che la bonanza dei lauti profitti non continuerà?

Globalizzazione, uno dei fattori che causano il calo dei profitti
Globalizzazione, uno dei fattori che causano il calo dei profitti

I fattori della riduzione dei profitti in atto
Innanzitutto, sarà difficile replicare anche in futuro una sequela di circostanze così favorevoli. Ma la crescita degli utili aziendali potrebbe essere giunta al capolinea anche a causa di nuovi diversi fattori.
La demografia innanzitutto, non più destinata a mantenere il ritmo di crescita che abbiamo conosciuto sino a oggi (riduce le attese di crescita dei consumi). La digitalizzazione del pianeta, in secondo luogo, che favorisce la frammentazione verticale di taluni comparti industriali e con essa un nuovo tipo di concorrenza ai grandi oligopolisti internazionali (che ne riduce parzialmente i profitti). Lo scontato rallentamento della crescita economica globale, man mano che l’era industriale in corso raggiunge la sua maturità (può limitare le prospettive di sviluppo). La crescente concorrenza sui prezzi proveniente da imprese dei Paesi Emergenti che possono contare su limitatissimi costi del lavoro e un diverso modello di business (riduce i margini su tutte le produzioni commoditizzate). La tendenza costante all’accrescimento della spesa pubblica per l’assistenza e la previdenza sociale (ha gonfiato i debiti pubblici nazionali, i quali non potranno che provocare una maggiore tassazione degli utili aziendali lordi e dunque una riduzione di quelli netti).
Questi fattori non sembrano neanche gli unici destinati a comprimere le attese di ulteriori incrementi dei profitti che hanno alimentato il benessere e le valutazioni aziendali viste nello straordinario scorcio di secolo appena vissuto. Ovviamente il calo degli utili attesi potrebbe a sua volta provocare una tendenza alla discesa dei corsi dei titoli azionari scambiati nelle Borse Valori in funzione della riduzione delle attese economiche e queste ultime ridurre l’appetito degli investitori nei confronti degli investimenti nell’innovazione tecnologica e per le concentrazioni settoriali, che tanta parte hanno avuto in quella crescita sino a oggi registrata.
Nuovo paradigma di produzione e consumi
Ma soprattutto quello che ci si aspetta possa cambiare è il ritratto del consumatore medio: sempre più appartenente a qualcuno dei Paesi Emergenti, sempre meno orientato al consumo cospicuo o a pagare un extracosto per prodotti eccessivamente performanti e status symbol, questi consumatori sono in crescita numerica ma preferiscono prodotti etici e a chilometri zero, dando impulso allo sviluppo di nuove piccole imprese destrutturate e basate sulle nuove relazioni a rete che possono svilupparsi tramite Internet, alcune delle quali potrebbero rivelarsi in futuro delle innovative e agguerrite concorrenti delle grandi corporation, spingendone i profitti al ribasso.
Con la discesa strutturale dei prezzi di commodity, materie prime e servizi, anche il modello di business di molte imprese sta cambiando. Il crollo dei costi di produzione ha spesso provocato una riduzione anche dei prezzi di vendita (dunque una spinta deflattiva) lasciando ampi margini sui prezzi finali soltanto agli operatori più forti (prodotti brandizzati o con importante leadership tecnologica).
Però la spinta verso la riduzione dei prezzi finali tocca alla fine tutti gli operatori perché quantomeno crea un effetto sostitutivo di parte delle vendite a favore dei produttori a più basso costo. L’effetto sui margini è pertanto probabilmente negativo.
La progressiva frammentazione verticale di molti settori economici è inoltre favorita dalle reti di impresa basate sulla comunicazione a mezzo Internet e permette ai nuovi concorrenti di limitare le barriere all’entrata e di potersi permettere un più basso livello di capitalizzazione, intaccando più facilmente la posizione dei leader di mercato a causa dell’accresciuta concorrenza,  con un qualche riflesso probabile sulle performance di questi ultimi.

La riduzione dei prezzi finali tocca alla fine tutti gli operatori perché quantomeno crea un effetto sostitutivo di parte delle vendite a favore dei produttori a più basso costo
La riduzione dei prezzi finali tocca alla fine tutti gli operatori perché quantomeno crea un effetto sostitutivo di parte delle vendite a favore dei produttori a più basso costo

Multinazionali che cambiano
Molte delle pratiche di transfer price delle multinazionali, basate sulla selezione dei Paesi a più bassa fiscalità e sulla fornitura di manifattura a buon mercato proveniente dal terzo mondo, sono oggi destinate a ridurre la loro valenza man mano che il mondo si evolve. Un aspetto non trascurabile è relativo al modello distributivo che si è affermato negli ultimi anni: operatori della Gdo (come Walmart) creano efficienza comprimendo, però, i margini industriali rispetto a quelli che era possibile ottenere passando della rete di vendita monomarca o tramite grossisti.
La forza dei grandi distributori organizzati permette alle imprese ottime prospettive relativamente ai volumi di vendita e alla certezza dei termini di pagamento ma ha anche un costo in termini di minori margini: gli effetti finali sui profitti aziendali non sono mai ovvi ma sono probabilmente negativi.


  • In sintesi
    Il mondo occidentale sta perdendo la sua supremazia.
    Le imprese multinazionali rischiano di ridurre il loro potere di mercato.
    I paesi emergenti possono introdurre maggior concorrenza.
    L’utilizzo di internet può contribuire a diffondere le tecnologie e a creare nuove reti d’impresa, senza più bisogno della continuità territoriale.
    La crescita della Gdo e del commercio elettronico favoriscono una riduzione dei profitti aziendali.

Come reagire alla caduta dei profitti?
Probabilmente cavalcando la tigre delle tendenze alla frammentazione verticale industriale e all’efficienza ottenibile tramite la riduzione delle strutture aziendali superflue, ma anche con il  trapasso da un modello ideale di business multinazionale a uno di multilocalità e delle Reti d’Impresa.
Tra le piccole imprese nascenti si nascondono quindi numerosi campioni del prossimo futuro e una strada da seguire è forse proprio quella della progressiva dematerializzazione delle strutture aziendali fisiche, della riduzione del numero di persone regolarmente assunte, dell’attenzione spasmodica  alle sinapsi aziendali e alle nascenti sinergie tra diverse tecnologie e diversi mercati (si pensi alla Iot, l’internet delle cose), ma soprattutto la strada maestra per le imprese del domani sembra essere quella dell’attenzione alle ultime mutazioni nel comportamento dei consumatori, forse il vero motore del cambiamento in atto.
È certo possibile che il numero delle imprese che riusciranno a cavalcare la tigre risulti assai inferiore a quello delle aziende destinate a ridimensionarsi o a soccombere.
Tuttavia, la notizia che poteva risultare più importante discorrendo di elementi che potranno determinare il calo dei profitti futuri, la possibile notizia della correlata tendenza alla riduzione dei valori aziendali e, dunque, alla riduzione della capitalizzazione di Borsa delle società quotate, non solo non è ancora stata scritta, ma non è nemmeno certo che possa mai arrivare.


  • Il nuovo protagonista è tuttavia il mercato finanziario
    Con la tendenza alla riduzione dei profitti sembrano però emergere non solo realtà medio-piccole vicine al consumatore finale, ma anche e soprattutto quelle nuove imprese  dell’economia reale e dei servizi che hanno saputo contemporaneamente.
    Cavalcare l’evoluzione digitale del loro output;
    Ottenere ampie risorse dal mercato finanziario.
    La maggior novità del nuovo millennio sembra essere proprio il fatto che il mercato finanziario dei capitali è divenuto il settore economico più importante del mondo: esso oramai giustifica sè stesso e determina a proprio piacimento il successo e il valore delle imprese, attraverso:
    Il controllo delle risorse per i fattori di produzione (Borse e mercato dei capitali).
    Il controllo delle reti distributive e pubblicitarie.
    Il controllo sull’innovazione tecnologica.
    Il finanziamento del processo di globalizzazione.
    I multipli di valore dei titoli azionari.

La propria indipendenza dall’andamento dell’economia reale.
Con pochissime illustri eccezioni oggi, infatti, da un punto di vista finanziario nessuna impresa è al sicuro se non accumula molta cassa o non riesce ad approdare al listino di Borsa. E una volta che vi riesce deve lottare con la necessità di far crescere il proprio valore azionario per non essere dimenticata dal listino e dai suoi analisti.
Una volta consolidato il proprio business un’impresa che vuole garantirsi la sopravvivenza deve velocemente affrontare i temi della concorrenza internazionale e della capacità di innovazione tecnologica, se non vuole perdere valore. In ciò è divenuta normale una forte dipendenza dal mercato dei capitali, che in cambio le premia con forti valutazioni.
Le nuove imprese quotate in borsa
La lotta tra le aziende per aggiudicarsi l’attribuzione di un elevato valore azionario negli ultimi anni si è però molto spostata  verso le tecnologie: questo è il momento degli unicorni  cioè quelle start-up che il mercato azionario riesce a valutare più di 1 miliardo di dollari.
I motivi sono peraltro concreti:
Le startup sono spesso capaci di rispondere in tempo reale ai cambiamenti della domanda.
Sono spesso capaci di ricombinare le tecnologie e il controllo dei dati sensibili per ridurre i costi in un gran numero di settori economici.
La distribuzione online è in grado di raggiungere mercati meno serviti con prezzi bassi e prodotti privi di componenti superflue.
Le startup tecnologiche mostrano inoltre una scarsa attenzione ai profitti di breve periodo, focalizzandosi sulla crescita delle vendite e sul controllo della quota di mercato anche a costo di fare perdite per un prolungato periodo di tempo, sino a raggiungere il proprio successo.
La strada per il rinnovamento delle imprese esistenti sembra perciò ardua e caratterizzata dalla capacità di resistere per prolungati periodi all’assenza di profitti pur di raggiungere una scala globale e nuove tipologie di clientela. Due cose impossibili senza un elevato supporto da parte del mercato dei capitali, che risulta essere il vero arbitro dei nuovi sviluppi economici.

Apple Store a New York
Apple Store a New York

I paradigmi della community e dell’ecosistema
D’altra parte le nuove imprese prescindono dai vecchi modelli proprietari e di governance, assomigliano più a delle comunità (community in inglese vuol dire soprattutto gruppo di persone che condividono ideali o attività)  e spesso fanno rientrare nella medesima categoria i loro clienti e supporter, confondendo nel concetto prevalente di community al tempo stesso: azionariato diffuso, fan e clienti. L’ecosistema che se ne produce è pertanto caratterizzato da elevata interazione (e dunque velocità di reazione) e parecchia lealtà comportamentale.
Alcuni illustri precursori di tale nuova struttura aziendale sono state Apple e Google, il che può aiutare a spiegare anche la possibile evoluzione di quel genere di aziende.
Il problema principale di tali community sembra, tuttavia, essere quello di aggiudicarsi i migliori talenti, motivarli, farli lavorare insieme. Nuovi concetti di convivenza e competizione interna prendono piede in queste aziende, dove vince chi è leader di opinione e chi riesce a formare la migliore squadra di lavoro. Un’esperienza simile a quella vissuta dai team universitari di ricerca tecnologica.
Un futuro incerto ma probabilmente migliore
Il prodotto intellettuale che ne discende può essere altrettanto prezioso ma, similmente a quello accademico, rischia di essere assai poco proteggibile dal punto di vista dello spionaggio industriale e della messa in sicurezza dei valori immateriali.
Minor pericolo si vede invece per lo sfruttamento economico di tali asset intellettuali, proprio a causa della difficoltà di riprodurli e dell’elevata lealtà cui si può contare nei nuovi ecosistemi, in cui gli utenti contemporaneamente anche: fan-colleghi-soci-investitori-controparti commerciali.
I confini incerti di questi nuovi ecosistemi intellettual-industriali fanno pensare ad un futuro di forte competizione interna ed esterna, di vigile attenzione ai cambiamenti e alle nuove tendenze, ma anche di crescente difficoltà di definire il ritorno economico del capitale per tutte quelle imprese che non riusciranno a diventare le nuove Apple, Google, Alibaba o Tesla.
Eppure la produttività che può sprigionarsi dai nuovi paradigmi aziendali e dalle nuove piattaforme digitali di scambio delle idee e delle conoscenze non ha eguali nel passato e non ha più i confini geografici che poteva avere in passato. Una buona notizia per i paesi emergenti e per le nuove generazioni, una meno buona invece per chiunque persista nel vecchio modo di vedere le cose e fare industria…

 














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