Le competenze che servono all’industria e all’Italia per cavalcare la crescita mondiale invece di affondare

di Laura Magna ♦ In Italia il problema c’era anche prima, ma adesso rischia di aggravarsi: domanda e offerta non coincidono. Bisogna formare lavoratori per l’industria con competenze aggiornate, pena l’inceppamento del meccanismo produttivo. E bisogna farlo in fretta, scuola e imprese insieme. Parlano Marco Taisch,  Gianluigi Viscardi, Sonia Bonfiglioli, Diego Andreis

Competenze digitali e interdisciplinari. La loro disponibilità a breve e lungo termine rappresenta uno degli elementi decisivi affinchè Industria 4.0 possa imboccare con decisione la strada dello sviluppo anche nel nostro Paese. Lo sa bene il ministro Carlo Calenda, che al centro del suo secondo piano di incentivi per la trasformazione del manifatturiero ha posto proprio la formazione, elargendo un credito d’imposta del 40% alle imprese che investiranno in quest’ambito in maniera incrementale nel corso degli anni. Senza scordare la sua promessa di investire 400 milioni negli ITS che forniranno la forza lavoro alle fabbriche di domani, e in attesa che i Competence Center partano in maniera decisa, facendo da cinghia di trasmissione delle competenze, dall’Accademia all’Impresa.

Le competenze stanno alla base di un fattore produttivo decisivo: il lavoro, sul quale ora  vanno indirizzati gli sforzi, dopo che nuove macchine, grazie a iper e super ammortamenti, hanno iniziato a popolare gli stabilimenti delle nostre Pmi dopo un lungo periodo di stasi. E’ uno sviluppo necessario perché il 4.0 esca dalla dimensione teorica e diventi tangibile realtà, ma è un nodo problematico, e non solo per il nostro Paese. Ma senza dubbio, in tema di competenze, l’Italia è in una posizione di debolezza.







 

Jack Ma
Jack Ma, fondatore di Ali Baba

 

La problematica del lavoro non è circoscritta ad alcuni paesi, ma è globale. Lo sostiene lo stesso Jack Ma, il super miliardario cinese fondatore di Alibaba, secondo il quale i modelli di insegnamento nel mondo devono cambiare radicalmente e puntare tutto sulle soft skills, ovvero creatività, valori, pensiero indipendente e lavoro di gruppo. Lo ha detto al World Economic Forum, svoltosi a Davos a fine gennaio. In quella sede in molti si sono espressi sul futuro dell’istruzione e del lavoro, sposando l’idea che sia necessario puntare su competenze nuove. Che sono senza dubbio le discipline Stem – scienze, tecnologie, matematica – a cui si deve però affiancare altro, come suggerito anche dal direttore generale del Cern Fabiola Gianotti, «la musica è altrettanto importante: dobbiamo rompere i silos culturali, scienze e arti sono le massime espressioni della curiosità e della creatività umana». Una visione che ha un senso anche in ottica di Industria 4.0.

 

Sulla gestione dell’interazione uomo-macchina ha idee poco chiare ben il 65% delle aziende (courtesy ABB)

Le competenze: cosa serve all’industria italiana

Innanzitutto bisogna sottolineare perché il tema delle competenze sia quanto mai cruciale in un contesto come quello italiano, dove, testimoniato da diverse fonti, esiste un mismatch tra domanda e offerta di lavoro. Secondo il Rapporto Scenari industriali dell’ Ufficio Studi di Confindustria  si assiste in Italia «a una preoccupante concomitanza di fenomeni: i) un numero di laureati inferiore alla media europea e di gran lungo più basso di quello dei paesi avanzati, anche tra i giovani, ii) una emigrazione di laureati che non ha precedenti, iii) un differenziale salariale tra laureati e non laureati che si restringe, iv) un’alta percentuale di laureati che sono sovra-istruiti rispetto al lavoro svolto». Per l’ OCSE (2015) nel 2011-12 l’Italia è risultato il paese con la più alta percentuale (33% circa) di skill mismatch e si stima che se riducessimo tale disallineamento tra le competenze fino al livello del Paese OCSE con il valore più basso in ciascun settore di attività, la produttività del lavoro in Italia crescerebbe del 10%.

Nel nostro Paese si fa poco ricorso a laureati, anche tra le imprese che innovano: solo nel 20% di esse i laureati rappresentano più del 10% della manodopera totale, contro il 60% in Spagna e il 50% in Germania. Ancora, gli occupati ICT sono solo il 2,5% del totale contro il 3,5% della media europea e solo il 33% degli specialisti in ICT delle imprese sono laureati, contro il 60% della media europea. «Tale concomitanza di fatti appare sorprendente in una fase storica nella quale il Paese è chiamato a produrre il massimo sforzo verso l’innovazione», scrive Confindustria.

 

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Per l’ Ocse l’Italia è uno dei paesi con la più alta percentuale (33% circa) di skill mismatch
I lavoratori che mancano in Italia: quanti e quali

Anche altre fonti, che hanno condotto  indagini sul campo, rilevano lo stesso rilevante gap: ad esempio il database Excelsior redatto da Unioncamere e Anpal, mostra una discrepanza tra domanda e offerta di lavoro a gennaio 2018 in media al 25%, in crescita e decisamente consistente anche per alcuni profili di operai specializzati che compaiono tra le 10 professioni più ricercate nel mese. Riguarda, ad esempio, quasi il 37% dei 13mila artigiani e operati specializzati addetti alle rifiniture delle costruzioni e ben il 41% dei 12.600 meccanici artigianali, montatori, riparatori e manutentori di macchine fisse e mobili. Che ci sia un’emergenza formativa per carenza di tecnici specializzati nel nostro Paese lo dimostra un altro numero. Secondo le stime di Confindustria, ci sarà bisogno di 272mila lavoratori da impiegare entro il 2021 nei settori chiave della nostra manifattura, dalla meccanica, alla chimica, al tessile, all’alimentare all’Ict. Si parla, per il 60%, di periti e laureati tecnico scientifici.

Mancano laureati ma anche e soprattutto i diplomati degli ITS. Gli Istituti Tecnici hanno sì ricevuto con la legge di Bilancio un primo finanziamento straordinario, ma di entità insufficiente. Tanto che il ministro allo Sviluppo Economico Carlo Calenda ha affermato di voler investire 400 milioni aggiuntivi ogni anno per raggiungere almeno 100mila studenti iscritti entro il 2020 (in Italia attualmente gli studenti degli Its sono circa 9000 contro i quasi 800mila della Germania). Un abisso da colmare.E se questi dati ancora non fossero sufficienti a tracciare il quadro della situazione, un’altra ricerca ,compiuta dal Censis per Confcooperative,   mostra come a fine 2017, a fronte di 82mila nuovi occupati negli ultimi sei anni (+12,2%) ci sono ancora almeno 60mila posizioni vacanti per carenza di personale qualificato. Le figure professionali introvabili rispetto al 2015 sono ora il 30% in più.

Questa ricerca cita il basso livello di competenze professionali messo in luce anche dall’Ocse (lo analizzeremo nel paragrafo successivo). Ovviamente la sfida sta nella formazione, non solo scolastica: secondo il presidente di Confcooperative, Maurizio Gardini, «in Italia solo l’8,3% dei lavoratori sono impegnati in programmi di formazione permanente, al di sotto della media europea 10,8%. Dobbiamo fare molto di più. Formare non è una spesa, ma un investimento sul futuro del Paese». La speranza è che il concetto entri nelle strategie degli imprenditori, agevolato anche dal credito di imposta al 40% introdotto nella finanziaria per chi investirà in formazione in maniera incrementale nella propria impresa.

 

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In Italia mancano laureati ma anche e soprattutto i diplomati degli ITS
Le competenze che non ci sono, secondo l’Ocse

Perché le competenze siano cruciali lo spiega bene la Strategia per le Competenze dell’Italia , implementata tra il luglio 2016 e il marzo 2017 dal governo in collaborazione con l’OCSE e con il sostegno della Commissione Europea. Secondo l’OCSE «Il fenomeno dello skills mismatch, che si verifica quando le competenze di un lavoratore non sono allineate con quelle richieste per compiere uno specifico lavoro, è molto diffuso in Italia. Circa il 6% dei lavoratori possiede competenze più basse rispetto alle mansioni svolte, mentre il 21% è sotto qualificato. Sorprendentemente, malgrado i bassi livelli di competenze che caratterizzano il paese, si osservano numerosi casi in cui i lavoratori hanno competenze superiori rispetto a quelle richieste dalla loro mansione .»

«I lavoratori con competenze in eccesso (11,7%) e sovra-qualificati (18%) rappresentano una parte sostanziale della forza lavoro italiana. Inoltre, circa il 35% dei lavoratori è occupato in un settore non correlato ai propri studi. Riequilibrare la domanda e l’offerta delle competenze richiede che le istituzioni nel settore dell’istruzione e della formazione siano più reattive ai cambiamenti, che ci siano politiche per il mercato del lavoro più efficaci, e un uso migliore di strumenti di valutazione e analisi dei fabbisogni di competenze attuali ed emergenti. Infine, sono anche necessari più sforzi da parte del settore privato e la disponibilità a collaborare con queste istituzioni pubbliche».

Dunque, da un lato le istituzioni devono agire in maniera produttiva per incentivare la formazione delle competenze che il mercato domanda, dall’altra anche le imprese che sono attori del cambiamento in atto devono agire. Scrive ancora l’Ocse: «Più alti livelli di competenze contribuiranno a una crescita più forte e più stabile solo se le imprese saranno capaci di usare pienamente ed efficacemente le competenze a loro disposizione. Attualmente l’Italia è intrappolata in un low-skills equilibrium, un basso livello di competenze generalizzato: una situazione in cui la scarsa offerta di competenze è accompagnata da una debole domanda da parte delle imprese. Accanto a molte imprese, relativamente grandi, che competono con successo sul mercato globale, ve ne sono tante altre che operano con un management dotato di scarse competenze e lavoratori con livelli di produttività più bassi. Modesti livelli di skills dei managers e dei lavoratori si combinano con bassi investimenti in tecnologie che richiedono alte competenze dei lavoratori e con scarsa adozione di pratiche di lavoro che ne migliorino la produttività.»

«Questo genera un circolo vizioso. -sostiene l’Ocse- Tale dinamica è in parte spiegata dal modo in cui il lavoro viene progettato e concepito, e dal modo in cui le imprese sono gestite. In Italia, le imprese a gestione familiare rappresentano più dell’85% del totale, e circa il 70% dell’occupazione del paese. Ma i manager delle imprese a gestione familiare spesso non hanno le competenze necessarie per adottare e gestire tecnologie nuove e complesse. Inoltre, il livello dei salari in Italia è spesso correlato all’età e all’esperienza del lavoratore piuttosto che alla performance individuale, caratteristica che disincentiva nei dipendenti un uso intensivo delle competenze sul posto di lavoro». Insomma la strada da compiere è lunga e irta di ostacoli.

 

_Marco Taisch
Il professor Marco Taisch

Come colmare il gap, secondo Taisch

Il ministro Calenda ha detto che «le dieci professioni oggi più richieste dal mercato non esistevano fino a 10 anni fa e il 65% dei bambini che ha iniziato le scuole elementari nel 2016 affronterà un lavoro di cui oggi non conosciamo le caratteristiche. In Italia solo il 29% della forza lavoro possiede elevate competenze digitali, contro una media Ue del 37%». Numeri che fanno riflettere, in un Paese in cui, secondo il Mise, «i giovani finiscono troppo presto di studiare, iniziano troppo tardi a lavorare e quando trovano un lavoro, interrompono completamente i loro rapporti con la formazione». E’ proprio questo il problema principale. Non si studia abbastanza, non si studiano le cose giuste, non ci si aggiorna.

Cosa manca e cosa si dovrebbe fare per migliorare la situazione? Lo abbiamo chiesto innanzitutto a Marco Taisch, docente della School of Management del Politecnico di Milano e co-responsabile scientifico dell’Osservatorio Industria 4.0, nonché docente di Sistemi di Produzione Automatizzati e Tecnologie Industriali, che con il suo Manufacturing Group ha partecipato alla cabina di regia del piano Industria 4.0. «Con Osservatorio Industria 4.0 abbiamo identificato le 100 skill tecniche necessarie per la quarta rivoluzione industriale italiana», dice Taisch. Che sottolinea quale sia la competenza più rilevante per le imprese ovvero «la capacità di definire un piano di adozione delle tecnologie per il miglioramento dei processi produttivi». Secondo un’indagine condotta su un campione di 241 Pmi su questo aspetto solo il 46% delle imprese è sufficientemente preparata».

Nello specifico: «Azioni più pratiche come l’utilizzo di device digitali (per cui il 50% non è pronto) o temi cruciali per il 4.0 come la manutenzione predittiva lasciano indietro il 60% delle aziende. Sulla gestione dell’interazione uomo-macchina non è ferrato ben il 65% delle aziende. Ci sono percentuali vicine al 70% di aziende “impreparate” a funzioni come la simulazione di scenari produttivi o la programmazione e la gestione di robot; per non dire della realtà virtuale e/o aumentata che non è ancora nelle corde di ben l’80% delle Pmi», evidenzia Taisch.

 

Cisco Networking academy
In Italia solo il 33% degli specialisti in ICT delle imprese sono laureati, contro il 60% della media europea ( nella foto una lezione alla Cisco Networking academy)

 

Il docente non nega che i passi in avanti siano stati fatti, primo fra tutti il fatto che oggi solo l’8% delle aziende dichiara di non sapere cosa sia Industria 4.0, contro il 40% di un anno fa: «la sfida della consapevolezza, quantomeno, è vinta. Ora bisogna passare all’azione, anche perché, come dimostrano i dati, Industria 4.0 è un fattore di crescita del fatturato: fatto 100 il fatturato dell’anno 2000, nel 2015 il campione di riferimento aveva segnato una crescita a 108, ma quello ristretto delle aziende attive in senso 4.0 ha visto un giro di affari pari a 116, con un delta di ben l’8%. Non solo, anche la redditività e il ROI hanno segnato un differenziale per le imprese più evolute: rispettivamente del +37% e del +47% nello stesso intervallo di tempo», afferma il professore. Queste carenze che riguardano le imprese si riversano a cascata sullo stato delle competenze dei lavoratori: abbiamo forse le macchine 4.0 ma non chi le sa usare (Industria Italiana ne ha parlato ampiamente qui ). Il punto di partenza è una ridefinizione delle stesse competenze necessarie. «Che non può prescindere dalle implicazioni di Industria 4.0 sulla prospettiva della Fabbrica, del Ciclo di vita del prodotto-servizio (progettazione e ingegnerizzazione) e della Supply Chain», spiega Taisch.

Nella fabbrica 4.0, Gli operatori sono supportati fisicamente e cognitivamente da robot collaborativi e da dispositivi indossabili. Tutti gli oggetti fisici sono collegati ad un loro gemello digitale che ne rappresenta caratteristiche, stato attuale e storia passata. Non solo, anche le caratteristiche del prodotto finale aiutano a definire le competenze da sviluppare: «I clienti ordinano beni personalizzati, spesso realizzati con tecnologie innovative come la stampa 3D o il laser ad alta potenza. I prodotti smart sono dotati di sensori e sistemi di elaborazione e comunicazione per permettere ai fornitori di rilevare i comportamenti di uso ed i parametri di funzionamento di prodotti e attrezzature e di offrire servizi (e qui entrano in gioco manutenzione predittiva, diagnostica, regolazioni e consigli sull’uso)», dice Taisch. E infine, la terza direttiva intorno a cui costruire skill è il cloud che connette le imprese tra loro in reti collaborative e consente di migliorare le prestazioni complessive «con particolare attenzione alla logistica (per esempio, veicoli autonomi, magazzini automatizzati, dispositivi indossabili per gli operatori, ecc.) e alla gestione dei ricambi (produzione in loco con stampa 3D)». Conditio sine qua non per centrare l’obiettivo è «superare la cultura anti-industriale tipica italiana», conclude il professore.

 

Viscardi
Gianluigi Viscardi,presidente del Cluster Tecnologico Nazionale Fabbrica Intelligente (CFI)

Viscardi: «Trasformare le competenze in patrimonio delle imprese»

Ma le imprese devono fare la propria parte. E come si comportano? Abbiamo intervistato tre imprenditori per raccogliere il loro parere e farci suggerire le ricette per uscirne.

Il primo è Gianluigi Viscardi, confermato per la seconda volta consecutiva presidente del Cluster Tecnologico Nazionale Fabbrica Intelligente (CFI), l’associazione di oltre 300 fra grandi, piccole e medie aziende, università ed enti di ricerca che riunisce tutte le anime del manifatturiero avanzato per favorire il rafforzamento della competitività industriale italiana sui mercati, dialogando con le istituzioni. Vicepresidente all’innovazione della Piccola Industria di Confindustria nazionale e presidente in carica del Comitato Regionale Lombardia della Piccola Industria,   Viscardi è CEO della Cosberg, che a Bergamo, dal 1983, studia, progetta e costruisce macchine e moduli per l’automazione dei processi di montaggio, in tutti i principali ambiti dell’industria, nel settore elettro-meccanico, nel comparto dell’elettronica, o nel mondo degli elettrodomestici. Ed è anche presidente del Consiglio Direttivo del Digital Innovation Hub Lombardia.

La sua visione è improntata al pragmatismo: «È vero che mancano i tecnici, ma questo accade anche perché c’è stata un’evoluzione spaventosa della tecnologia ed è stato quasi impossibile prevedere cosa stesse succedendo. Prima della quarta rivoluzione industriale, un imprenditore che acquistava una macchina poteva considerarsi all’avanguardia per almeno cinque o anche 10 anni. Oggi il mondo è cambiato: se non si insegue un’innovazione che galoppa automaticamente si rimane tagliati fuori, ed è un fenomeno che assume dimensioni esponenziali man mano che le tecnologie evolvono con i ritmi che ora stiamo imparando a conoscere» dice Viscardi. Che tuttavia non nega che si siano fatti errori «perché si è guardato poco alla formazione tecnologica, ma non considerare la vera causa della carenza attuale di lavoratori (problema non solo italiano ma globale), sarebbe proporre una visione parziale del tema in oggetto».

E la causa di questo divario sta appunto nella velocità con cui l’innovazione avanza e nella difficoltà delle istituzioni di stare al passo. Che proprio per questo devono operare di concerto: «Non è che una tecnologia nuova si impone e si deve attendere che l’Università strutturi un master per formare persone in grado di dominarla, con tempi che non sono mai inferiori a qualche anno. Formare queste professionalità nuove è un compito di tutti: istituzioni, ragazzi, imprenditori, che devono fare formazione interna per far uscir fuori i talenti», spiega Viscardi.

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Apparecchiature didattiche nel TAC, Centro Tecnologico Applicativo di Siemens, Piacenza, nato per creare un network formativo con istituti tecnici, scuole professionali e Università

 

Avvertendo che si tratta di un percorso completamente nuovo tutto da inventare, rileva che «i risultati non sono garantiti. Ma questo non è solo un problema italiano. L’evoluzione tecnologica ha reso necessario fare prodotti altamente customizzati, e dalle imprese ha preteso flessibilità, intercambiabilità, introduzione della robotica in un sistema di visione di insieme. Ogni giorno si aggiunge qualcosa di nuovo. Quello che facevamo l’anno prima come imprenditori non conta più, dobbiamo lavorare per noi stessi e formarci le professionalità in casa. Ma formarle con una logica diversa: non è cambiato il mondo ma è cambiato il futuro. Non è come andare a scuola di ragioneria per lavorare in banca, le stesse imprese non sanno cosa chiederà loro il mercato il giorno dopo. Bisogna essere pronti al cambiamento: io faccio automazione, ma dico che al centro c’è l’uomo», afferma Viscardi.

Quello da cui le imprese devono difendersi è infine la dispersione delle competenze: «la competenza deve diventare competenza dell’azienda, non restare esclusiva proprietà della persona. Mi spiego meglio: quando nelle fabbriche devo fare formazione a un tecnico, devo strutturare il mio sistema in modo che sia quasi automatico. Con il 3d, i visualizzatori, con la realtà aumentata, l’IA, devo far in modo di costruire schemi che rendano più agevole l’apprendimento nel caso in cui il tecnico che ho formato decida di andare a lavorare altrove. Tutto questo deve creare valore in un’azienda: il know how è un intangibile, e tutta la formazione interna deve diventare patrimonio dell’azienda e non restare di esclusiva pertinenza delle maestranze. Con le tecnologie che ci sono è facile, io lo sto facendo nella mia azienda e ci riesco. Con le piccole imprese sto spingendo molto per la diffusione di questo concett », spiega Viscardi. L’ipotesi che fornisce è quella di uno scenario futuribile, quasi utopico, di scambio di conoscenze, molto poco italiano.

 

Sonia Bonfiglioli
Sonia Bonfiglioli, presidente Gruppo Bonfiglioli
Bonfiglioli: «Riaddestrare al digitale chi già lavora, per rendere il 4.0 una opportunità di crescita»

E’ questa la best practice che adotta il Gruppo Bonfiglioli, sede a Bologna, fondato nel 1956, fra i leader mondiali della progettazione e produzione di motoriduttori di velocità, sistemi di azionamento ed automazione industriale, inverter e motoriduttori epicicloidali, per centinaia di applicazioni. Nel 2016 il fatturato di Bonfiglioli si è attestato a 788,9 milioni di euro: i dipendenti ammontano, in tutto il mondo, a 3600, di questi circa la metà lavorano in Italia, e sono distribuiti in 17 paesi nei quali sono insediati anche 14 stabilimenti produttivi. L’export degli stabilimenti italiani ha raggiunto una quota complessiva dell’80%.

Secondo Sonia Bonfiglioli, che nel gruppo ha il ruolo di presidente: «La distanza fra domanda ed offerta di competenze tecniche ha radici lontane; dal dopoguerra il sistema dell’istruzione italiana si è incentrato sulla formazione umanistica, lo sviluppo professionale veniva pensato lontano dall’istruzione tecnica “meno nobile” come se il riscatto sociale di un popolo stremato dalla guerra e dalla povertà diffusa, potesse avvenire solo se si fosse diventati “avvocati”.  Anche il mondo della formazione ha premiato maggiormente gli insegnanti di lettere piuttosto che di matematica e questo, a cascata, ha fatto mancare modelli ai quali rifarsi. Oggi sta cambiando, per necessità, questo modo di affrontare la formazione, ma il gap non sarà colmabile il tempi brevi», continua Bonfiglioli. Che per accelerare i tempi dallo scorso settembre sta provando a spiegare ai suoi operai a Calderara cosa sono la cooperazione uomo-robot, gli esoscheletri, gli smart glasses, le proiezioni laser, la realtà aumentata, la stampa 3D, la gestione dei big data. Lo fa nell’ambito del progetto “Bonfiglioli Digital Re-training”, (vedi Industria Italiana qui) che mira a far percepire non solo e non tanto ai giovani ma soprattutto a chi è già nel mondo del lavoro che «la sfida dell’Industria 4.0 deve essere vissuta non con paura ma come una grande opportunità che può migliorare le condizioni di lavoro».

 

Bonfiglioli prodotto
Un prodotto Bonfiglioli

 

Il modello di “Bonfiglioli Digital Re-training”, supportato da Porsche Consulting e da Regione Emilia Romagna e FIOM, è il primo progetto in Italia di sinergia tra Industria, Territorio ed Istituzioni Sindacali per riqualificare chi già lavora e dotarlo delle nuove competenze digitali, traendo così vantaggio dai cambiamenti offerti dall´Industria 4.0. Dal modello scaturisce uno specifico piano formativo che verrà erogato nel nuovo programma di riqualificazione; questo programma fa parte di un investimento complessivo triennale sul territorio del valore di 130 milioni di euro. Il progetto pilota si svolgerà appunto nello stabilimento di Calderara dove lavorano 1300 persone; i primi corsi saranno destinati a 15 dipendenti che poi trasmetteranno la conoscenza agli altri lavoratori del gruppo. Bonfiglioli metterà a disposizione il modello e collaborerà con la Regione al fine di condividere gli esiti e l’analisi delle competenze contribuendo all’aggiornamento delle qualifiche professionali del Sistema Regionale.

 

Assolombarda lancia il progetto #ItaliaMeccatronica
Diego Andreis, managing director di Fluid-o-Tech
Andreis: «Servono skill trasversali per affrontare situazioni complesse» (e un ITS per tecnici del digitale)

«Io credo che in realtà il gap tra domanda e offerta di professionalità sia molto più elevato rispetto a quanto indicato dalle statistiche, che sono in ritardo nel rilevare i cambiamenti vorticosi di questi anni», dice Diego Andreis, managing director di Fluid-o-Tech, media azienda del milanese che fattura 70 milioni nel settore delle pompe volumetriche e dei sistemi per la pressurizzazione, la dosatura ed il trasferimento dei fluidi che trovano applicazioni diverse nei settori foodservice, automotive, medicale, industriale. Andreis, che è anche il presidente del Gruppo Meccatronici di Assolombarda Milano Monza e Brianza, è convinto inoltre che «la gran parte delle aziende ancora non si sia messa in moto o non ancora con la forza necessaria. Nelle statistiche si fa riferimento a competenze che sono ancora quelle di vecchio stampo, web developer, system architect, system analyst, digital media. Sono tutte competenze necessarie, ma il futuro è nella capacità di lavorare con grandi quantità di dati. Per cui prevedo l’emergere di domanda per figure come quelle di data scientist e data analyst e in generale di persone con skill molto trasversali, capaci di affrontare scenari complessi e risolvere problemi complessi».

La domanda per queste professionalità è ancora molto bassa rispetto alle reali esigenze, e il risultato è che «quando Fluid-o-Tech si è messa alla ricerca di un data analyst ha avuto estrema difficoltà a incontrare una persona che possedesse le competenze necessarie. La soluzione? In generale, noi formiamo le persone internamente. Ma se per le grandi aziende è possibile avere molte persone con una competenza molto verticale, per le Pmi l’accelerazione e la complessità del contesto richiede la soluzione di problemi complessi, che non si risolvono con competenze specialistiche, ma con una visione di insieme. Gli ITS che si espandono sono un’ottima cosa perché sviluppano queste competenze trasversali». E così, pur confermando il primato delle Stem -«le società saranno sempre gestite a livello manageriale e operativo da ingegneri» -, Andreis sostiene che anche «la componente umanista e il modo di ragionare umanista avrà sempre più spazio e andrà ad aggiungere valore. Il metodo dell’ingegneria rimarrà predominante nel modo di ragionare dell’industria ma non deve trasformarsi in un limite. La diversità in un team crea sempre valore, nell’industria 4.0 ancora di più e consente di raggiungere risultati superiori».

In concreto Andreis, come presidente del Gruppo Meccatronici di Assolombarda Confindustria Milano Monza e Brianza, in collaborazione con il Gruppo ICT e Servizi alle Imprese di Assolombarda, e insieme ad alcune delle imprese associate più rappresentative ha dato vita a un corso di due anni per la formazione del Tecnico Superiore di tecnologie digitali per l’industria. Industria Italiana ne ha parlato qui .Obiettivo del corso è formare una nuova figura professionale con competenze ICT, unite in modo integrato a competenze di meccatronica, e che sia in grado di supportare le attività digitali di produzione in ambito industriale. «Intercettando il trend di competenze future, le imprese stesse hanno voluto partecipare alla strutturazione del corso ITS di Tecnico Superiore di tecnologie digitali per l’industria, dove competenze ICT sono combinate in modo integrato a competenze di meccatronica. Una novità nel panorama dell’offerta formativa del nostro Paese, un corso rivolto ai giovani che vogliano cogliere nuove opportunità di impiego e di crescita e che permetta di affrontare in modo rapido e flessibile il fenomeno di trasformazione in atto nelle imprese», conclude Andreis.














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2 Commenti

  1. Ma se nel nostro Paese non si fa uso dei laureati e degli specializzati è forse colpa dei laureati? O perché come si dice “costano troppo”? Poi non credo che in Italia ci sia un numero di laureati inferiore a qualsiasi altro Paese EU, solo che i laureati, in Italia, non vengono utilizzati, come scrivevo poc’anzi, e si reinventano facendo lavori di livello molto più basso (in fondo anche un laureato, bene o male deve mettere il piatto a tavola). Le aziende non hanno alcuna voglia di investire, basta produrre finché si riesce a tirare avanti. E molte persone, di cui si perdono competenze e curricula restano al palo,, uscite ormai dal ciclo lavorativo, senza speranza di rientrarvi.

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