La versione di Enrico Marchi

di Filippo Astone ♦ Il presidente di Save e Banca Finint, uomo simbolo dell’imprenditoria del Nord-Est, in questa intervista a 360 gradi difende i concessionari privati di infrastrutture e anticipa le prossime mosse delle due aziende da lui guidate. Gli imprenditori? Nel loro insieme sono pronti a investire, ma vogliono certezze….

I concessionari privati delle infrastrutture? Vanno difesi perché hanno fatto un buon lavoro supplendo alle carenze del pubblico. Il Triveneto? Ha voglia di crescere ma è preoccupato per l’incertezza politica. Il futuro della Finint? Rafforzarsi nel suo core business e guardare con interesse a private e investment banking. Save? Continua a investire e potrebbe essere interessata allo scalo di Trieste. E’ una intervista a 360 gradi quella di Industria Italiana ha ottenuto da Enrico Marchi, imprenditore della finanza e delle infrastrutture e, al tempo stesso, osservatore qualificato del Nordest che cresce e produce. Ed è proprio da questo argomento che cominciamo a parlare con lui «per quello che posso vedere io, gli imprenditori del Nordest nel loro complesso sono pronti a investire e fare tutto il possibile per crescere, insieme all’economia dei loro territori. Ci sono parecchie aziende che vantano un buon portafoglio ordini. Ma sono anche inquieti per l’incertezza politica, in Italia e in Europa», dice Marchi, che prosegue: «Manca un quadro chiaro di che cosa vuole fare il Governo sui temi economici. Certe scelte fanno temere reazioni dei mercati e, magari, dietrofront rispetto alle decisioni annunciate, complicando ulteriormente la situazione. Le elezioni europee sono alle porte e una maggioranza populista potrebbe preoccupare, anche perché Parlamento e Commissione dovranno gestire partite economiche importantissime. A livello italiano si sentono dichiarazioni che lasciano perplessi, come quella sul ritiro della concessione ad Autostrade, rilasciata prima ancora di sapere se fosse possibile farlo e a che prezzo».

D. E allora dottor Marchi?

R. E allora il rischio è che qualcuno che sarebbe pronto a investire 100, magari di fronte a questa incertezza decida di investire 50, o di non investire affatto.







D. Per quanto riguarda le concessioni, Lei difende a spada tratta i privati, nonostante quello che è successo a Genova….

R. In merito alla tragedia del Ponte Morandi, ancora non sappiamo come è andata e di chi sono le responsabilità, quindi sarebbe saggio sospendere i giudizi. In generale, un dato è certo: i privati spesso sanno fare il proprio lavoro meglio di enti e comuni e sono i numeri a dirlo.

 

Lo svincolo di Spinea sull’autostrada A4

 

D. Pensa a qualche caso nello specifico?

R. Per esempio l’autostrada Serenissima, che collega Venezia a Brescia. Con proprietà e gestione pubblica, ha accumulato perdite per oltre 200 milioni di euro prima di essere ceduta agli spagnoli di Abertis. O proprio l’aeroporto Catullo di Verona che aveva maturato più di 60 milioni di perdite tra il 2010 e il 2014, prima che lo comprassimo noi di Save. Era in rosso per 8,5 milioni, oggi è in utile (+1,1 milioni) e i passeggeri crescono del 10% all’anno. Diciamo che Save è la dimostrazione della possibilità che un privato possa gestire in maniera sana e positiva un’infrastruttura.

D. In effetti, per Save dal punto di vista industriale sembra essere un buon momento. E il vostro caso può dimostrare che la gestione privata funziona…

R. Le concessioni consistono nella gestione di infrastrutture di pubblica utilità in virtù di un patto tra concessionario e concedente. Il concessionario si occupa non solo del profitto ma cura le Infrastrutture che gli sono affidate, il concedente non cambia le regole del gioco mentre si sta giocando. Come concessionario di un servizio di pubblica utilità qual è l’aeroporto mi sento di difendere il privato che lo gestisce e ho l’orgoglio di aver portato uno dei tanti medi aeroporti italiani, quello veneziano, a diventare uno dei tre poli intercontinentali italiani, avendo sempre fatto tutti gli investimenti necessari nei tempi corretti. Non solo Save è la seconda società datrice di lavoro della provincia, dopo Eni, e se si considera anche l’indotto, ovvero tutte le società che operano all’interno dell’aeroporto, ci sono oltre 8000 persone coinvolte a Venezia e arriviamo a circa 10.000 contando anche Treviso che costituiscono un indotto enorme.

 

L’aeroporto Catullo di Verona Villafranca, photo by Ugo Franchini

 

D. Voi avete investito molto..

R. Io sono uno che ha iniziato a investire prima ancora di aver firmato il contratto di programma. Per quanto riguarda Save, abbiamo già investito 430 milioni sugli 850 stimati al 2021. Solo per il Catullo di Verona, che quest’anno abbiamo fatto crescere ancora con 17 nuove destinazioni e sei nuove compagnie aeree fino a farlo divenire il primo scalo charter in Italia – c’è un piano di investimenti di 150 milioni di euro, 65 dei quali entro il 2019.

D. Parteciperete alla gara per l’assegnazione delle quote di maggioranza dell’aeroporto di Trieste?

R. C’è stata una prima gara per la quota di minoranza dell’Aeroporto di Trieste che è andata deserta. Stiamo aspettando l’uscita del bando e dipenderà dai contenuti dello stesso: il primo bando lo ritenevamo non interessante per tutti i vincoli che conteneva. Non si poteva nominare un amministratore delegato se non di comune accordo, in assenza di piano industriale bisognava restituire le azioni a prezzo scontato, e venivano inglobati nel prezzo anche i contributi che la Regione dà però senza avere certezza per il futuro. Detto questo guarderemo sicuramente al nuovo bando. Intanto la Save segnala un continuo progresso in termini di risultati e passeggeri e ora siamo molto concentrati su Verona. Il mio compito è quello di sviluppare al meglio ciascun bacino di traffico e siamo concentrati sulle molte potenzialità che oggi ancora offre il sistema aeroportuale del Nordest.

D. Veniamo adesso a Banca Finint, che è molto impegnata nell’accompagnare le imprese verso la finanza strutturata e modalità di raccolta del capitale diverse dal credito bancario. In particolare, il vostro cavallo di battaglia sono i minibond…

R. I minibond sono partiti nel 2012, in piena crisi di liquidità delle banche e con l’obiettivo di far convergere il risparmio a medio/lungo termine verso la piccola e media impresa. Cinque anni dopo, il mercato è piccolo ma cresce a ritmo esponenziale: secondo l’Osservatorio sui minibond del Politecnico di Milano le operazioni fino a 50 milioni ammontano a 3,2 miliardi di euro. Il Gruppo Banca Finint ha seguito operazioni per circa 800 milioni, un terzo del mercato. Si tratta di una via obbligata: avere una proporzione del 20/30% dei finanziamenti alle imprese destinato al mercato dei capitali sarebbe un ottimo risultato per questo Paese, in cui comunque le banche avranno sempre un ruolo fondamentale come contribuzione alla crescita. Inimmaginabile al momento, anche psicologicamente, avere proporzioni invertite come in Usa e Uk dove il mercato bancario pesa solo per il 30/40%.

 

Headquarters di Finint a Conegliano

 

D. Lei vede questo scenario come probabile?

R. Il quadro è positivo: ci sono imprese ricche di potenziale che si mettono in gioco. Le aziende che fanno ricorso al minibond lo considerano non solo uno strumento di finanziamento ma anche e soprattutto un’occasione per crescere dal punto di vista della cultura finanziaria. Perché emettere un minibond implica un lavoro sulla governance, dotarsi di strumenti di controllo di gestione adeguati ed è un quadro intermedio che può sfociare anche nella quotazione. Nel frattempo, costringe l’azienda a dotarsi di una disciplina che la rende attraente anche per gli investitori e rende manifesta la volontà di non vivere sugli allori ma di mettersi in galoppo e cogliere le opportunità che ci sono nel mercato.

D. Finint, nonostante una riconoscibilità e una forte expertise nei settori dei minibond e delle cartolarizzazioni, nei quali i clienti sono nazionali, resta molto radicata nel Nordest. Sarà per sempre così?

In realtà ci siamo aperti, con uffici a Milano e Roma. Conserviamo una forte tradizione in Veneto e siamo sempre attenti a tutti i progetti di crescita. Vogliamo crescere soprattutto su minibond e cartolarizzazioni che sono i nostri cavalli di battaglia e che stiamo offrendo sempre più alle aziende anche fuori dal Veneto, ma stiamo ragionando anche in termini di ampliamento di prodotti/servizi. Un’idea alla quale stiamo lavorando è quella di intervenire nelle ristrutturazioni in caso di crisi aziendali, in aziende che abbiano buoni fondamentali ma che sono gravate da un indebitamento che non riescono a onorare. Sarebbe una mia ambizione contribuire a salvaguardare il tessuto manifatturiero del Nord-Est. Come investment bank stiamo studiando di entrare in questa attività avendo anche acquisito esperienza nelle operazioni che abbiamo fatto con Pillarstone: mi riferisco all’operazioni su Premuda, Burgo, Sirti, Manucor.

 

20170626_inaugurazione-banca-finint-conegliano
L’inaugurazione di Banca Finint a Conegliano

D. Insomma, la Finint del futuro sarà una banca di investimento a tutto tondo…

R. Sì, l’obiettivo finale è quello: crescere nei rami di attività core, sviluppare la SGR nell’asset & wealth management (oggi gestisce oltre 2 miliardi gran parte nell’immobiliare), e aumentare i volumi nella finanza per l’impresa, che non è fine a se stessa, ma che è uno strumento per la crescita delle imprese e del territorio. Ovviamente partiremo sempre dal Nordest.

D. E torniamo al Nordest…

R. Penso spesso a come tutelare il tessuto manifatturiero del Nordest, a far sì che non si ripetano più casi come quello del polo delle caldaie veronesi che sarebbe potuto rimanere tranquillamente in Veneto, grazie a eccellenze come Ferroli e Riello, fabbriche da cui uscivano prodotti all’avanguardia e che conservavano margini operativi interessanti. Oggi invece che avere due grandi aziende nel settore delle caldaie abbiamo un’azienda che si sta ancora ristrutturando (Ferroli) e lo stabilimento italiano (Riello) di una multinazionale americana con tutto quello che ciò comporta in termini di impoverimento del territorio. Perché una cosa è avere la testa sul territorio e una cosa uno stabilimento: non c’è più un amministratore delegato di gruppo ma c’è un direttore di stabilimento e tutto il circolo virtuoso che si può mettere in moto viene meno.

D. Di cosa ha bisogno il Nordest?

R. Di cervelli innanzitutto. Un motivo d’orgoglio per me è che, con Finint, stiamo riportando in Veneto, a Conegliano, talenti che hanno lavorato a Milano, a Londra, in Lussemburgo, in grandi istituzioni, nelle banche d’affari. Noi li riportiamo a casa e gli offriamo una qualità del lavoro come si può avere solo in una grande capitale con una qualità della vita che si può avere solo a Conegliano. Sa perché ho fondato la Finint a Conegliano? Perché era l’unico posto dove avrei potuto vivere e questo lo ho capito quando studiavo alla Bocconi. La mia massima ambizione non era fare carriera in qualche azienda, ma tornare a casa. Di recente nell’ufficio legale della banca abbiamo assunto una giovane dottoressa in Legge di Conegliano che per 4 anni aveva lavorato in uno studio legale di Milano e un brillante professionista che aveva lavorato tra Lussemburgo e Londra e che con noi si è occupato dell’operazione Elite Basket Bond. Oltre a una professionista che lavorava in una banca inglese e che da noi si occupa di tenere le relazioni con gli investitori internazionali. Qui diamo a queste persone la possibilità di esprimersi al meglio e di portare sul territorio una ricchezza che altrimenti sarebbe rimasta altrove.














Articolo precedenteE mentre i Benetton si occupavano di autostrade e concessioni, il loro core business abbigliamento declinava
Articolo successivoDa Schneider Electric un Innovation Hub nel cuore dell’industria manifatturiera italiana






LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui