La trappola delle start-up italiane: idee per uscirne

di Marco De Francesco ♦ Intorno alle neo-aziende tecnologiche e innovative ci sono tante speranze e troppa insopportabile retorica. La realtà è che sì, certo, negli ultimi tempi c’è stata crescita e luce, ma nel complesso l’ecosistema italiano è debole, gli investimenti dei venture capital sono risicati e mancano le competenze manageriali. Che fare? Sul tavolo le proposte di riforma di Mattia Mor e dell’associazione Italia Startup. Ne abbiamo parlato con Marco Gay (Digital Magics) e con gli economisti Riccardo Varaldo, Patrizio Bianchi e Luca Beltrametti

Due grossi problemi affliggono l’ecosistema delle start-up innovative italiane, che dovrebbero essere il maggiore strumento per reinventare i mercati di riferimento, rendendoli competitivi (necessità vitale per un Paese gerontocratico e scarsamente innovativo come l’Italia), creare e attirare occupazione qualificata, promuovere la mobilità sociale. Il primo problema è la scarsità di competenze organizzative e manageriali. Spesso mancano in partenza, anche perché gli scienziati o gli innovatori magari non hanno le esperienze necessarie e comunque non possono fare tutto. Per trasformare buone idee in aziende funzionanti, serve pertanto l’accompagnamento dei grandi incubatori, come H-Farm Ventures, LVenture, e Digital Magics. Che però fanno una selezione d’ingresso spietata: investono in una manciata di unità all’anno. Dunque la questione è: e le altre, chi  le segue?

Il secondo problema è la carenza del capitale di rischio. A fine settembre, gli investimenti ammontavano a circa 300 milioni, cifra ridicola se comparata a quella dei maggiori Paesi europei. Ma siccome non hanno ancora iniziato a lavorare (altrimenti non sarebbero start-up) non hanno numeri da presentare in banca. Senza investimenti privati, sono destinate a rimanere all’angolo. Di qui il progetto di legge presentato dal deputato Mattia Mor, che si propone di alzare parecchio l’asticella della defiscalizzazione, prevedendo tra l’altro importanti deduzioni (70%, contro il 30% attuale) per persone fisiche e imprese che investano in start-up innovative o che le acquistino. Uno choc di sistema, che sarebbe necessario, dato che, osservando la fotografia del mondo delle start-up innovative, la situazione non è rassicurante. Pur di fronte qualche miglioramento in corso nei conti, ad una crescita esponenziale della popolazione di queste imprese non corrisponde un buon valore della produzione: quella mediana, una volta esclusi i campioni e chi non ha ingranato, è pari a 30mila euro. Che si può fare allora? Industria Italiana ha cercato delle risposte.







 

Da “Una politica industriale per l’innovazione Focus startup innovative Direzione Generale per Politica Industriale, la Competitività ” MISE

Foto di gruppo delle start up innovative

Cosa sono

Anzitutto, va chiarito che cosa siano le start-up innovative: per il decreto Crescita 2.0 del 2012 si tratta di quelle aziende il cui oggetto sociale esclusivo o prevalente è lo sviluppo, la produzione, la commercializzazione di prodotti o servizi ad alto valore tecnologico. Per rientrare in questa definizione, deve ricorrere almeno uno di questi requisiti: alte spese in ricerca e sviluppo (uguali o superiori al 15% del maggiore valore fra costo e valore totale della produzione); team qualificati, formati per almeno un terzo da dottori di ricerca o dottorandi, oppure per almeno due terzi da soci o collaboratori con laurea magistrale; titolarità di brevetti o diritti relativi a programmi software. Sono richiesti poi altri requisiti tecnici, come ad esempio una produzione non superiore a 5 milioni, la non distribuzione di utili, e altro. Per chi investe in start-up innovative esistono degli incentivi: una detrazione irpef del 30% per le persone fisiche e una Ires di pari entità per quelle giuridiche, oltre ad ampie garanzie statali per l’accesso al credito. Le start-up innovative sono esonerate dall’imposta di bollo e dai diritti di segreteria per l’iscrizione ad una sezione speciale del registro delle imprese; quanto ai percorsi di internazionalizzazione, ci si può far aiutare dall’Ice.

Quante sono

Il problema è quello di capire se questo quadro giuridico sia bastevole per garantire lo sviluppo delle start-up innovative. Che, va detto, sono sempre di più. Al terzo trimestre dell’anno in corso, ultima rilevazione, se ne contavano 9.647, contro 7.398 dello stesso periodo dell’anno precedente. Un incremento del 30%. E va anche detto che si assiste a dinamiche positive: la produzione complessiva, ad esempio, ammonta a 961 milioni, contro i 773 dello stesso periodo del 2017. Anche qui, l’aumento è del 30%. Questo perché il valore medio della produzione è rimasto invariato: 168mila euro contro 164mila, nel lasso di tempo considerato. Ma ciò che deve far riflettere non è il valore medio, che riguarda chi si sta affermando con energia e chi arranca, ma quello mediano della produzione, che riguarda la gran massa delle start-up innovative, una volta esclusi i campioni e chi non ha ingranato per niente: solo 30mila euro. È veramente poco. Quanto ai bilanci, si conoscono ovviamente i dati del 2017: sono in rosso per il 55,7% delle società. Il che non è una tragedia, visto che parliamo di aziende che per definizione non sono ancora a break even. Questa la fotografia di partenza.

 

Start up
Uno dei problemi per il decollo di un ecosistema per le start up è la carenza del capitale di rischio

L ‘alta mortalità “naturale” delle start-up e il trasferimento tecnologico

Secondo Luca Beltrametti, direttore del dipartimento di Economia dell’Università di Genova, forse la retorica più grave è quella di non saper prendere atto della situazione: «Anche negli Stati Uniti, dove pure un ecosistema più favorevole esiste, di start-up ne sopravvivono poche. E nel nostro Dna c’è l’idea buonista che una volta nata, l’impresa debba essere aiutata a sopravvivere. A mio avviso è un errore: che ci sia bisogno di imprese innovative non c’è dubbio; ma dobbiamo essere onesti e ammettere che la possibilità di successo per una start-up, così come si riscontra da tante statistiche, è piccola. Possiamo imparare a considerare, come fanno in America, il fallimento come un incidente di percorso; ma sempre di un fallimento si tratta». Per Beltrametti, il sistema non funziona soprattutto perché le start-up innovative mancano di competenze organizzative e manageriali: di ciò devono occuparsi gli incubatori, e ne parleremo fra poco. Si anticipa che, come si vedrà, gli incubatori si occupano di poche, pochissime start-up selezionate. E le altre?

C’è poi il tema del trasferimento tecnologico, che in tema start-up si traduce nella creazione, da parte degli atenei, di nuove imprese ad elevato contenuto tecnologico (spin-off). Le cosiddette tech start-up, che però, secondo l’economista industriale Riccardo Varaldo, per tanti anni rettore della Sant’Anna di Pisa, «sono eccezionalmente poche. Infatti, se guardiamo al tasso di crescita relativo alla consistenza complessiva delle spin-off company tra il 2013 e il 2017, si nota un incremento da 989 a 1.373 contro un tasso veramente esplosivo di start-up e imprese innovative. Cosa vuol dire? Che l’università è al palo come capacità di dar vita a tech start-up». Il problema è, secondo Varaldo, che gli atenei sono sollecitati a produrre articoli scientifici, perché con quelli si fa carriera, e non a generare spin-off. Secondo Patrizio Bianchi, docente di economia applicata all’Università di Ferrara e tra i più noti economisti industriali italiani, bisogna far sì che i docenti e gli atenei che hanno dato vita allo spin-off abbiano un guadagno nella vendita della start-up. «È questo il passaggio che manca, se si vuole incrementare il numero e il buon esito delle start-up che nascono in un contesto universitario».

 

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Marco Gay, ad Digital Magics

Se non guadagnano, come possono presentarsi in banca?

Start-up: il giocatore che prima di iniziare la partita immagina di modificare le regole del gioco

Più avanti sarà descritto un progetto di legge che dovrebbe incentivarlo; per ora, facciamo il punto della situazione. Secondo l’amministratore delegato di Digital Magics Marco Gay, per capire non si può trascurare, nella valutazione delle start-up, una nota originaria, che corrisponde a caratteristiche che le differenziano da tutte le altre imprese. «Sono aziende a parte – afferma – che nascono con l’obiettivo di reinventare il mercato, e di innovare i prodotti, i processi e i servizi». La start-up, in un certo senso, è il giocatore che prima di iniziare la partita immagina di modificare le regole del gioco. «Come mai il loro fatturato è così basso, nei primi anni? Perché all’inizio “fanno disruption”, e solo dopo entrano nel mercato. Le start-up non sono Pmi: la loro attività è diversa, e la loro crescita è diversa: per anni può essere pari a zero, ma poi può esplodere». Per questa ragione, nel mondo delle start-up non ci si finanzia con il debito.

Il ruolo degli incubatori e le competenze

D’altra parte, se all’inizio queste imprese non guadagnano, non possono neppure presentarsi in banca. Quali numeri potrebbero illustrare? E, al 30 settembre 2018 gli investimenti in capitale di rischio ammontavano a 307 milioni. Una cifra ridicola. «Sette volte e mezzo di meno della media europea ma una volta e mezzo il valore del 2017, che era pari a circa 230 milioni» – sottolinea Gay. C’è poi la seconda questione emergente, quella già ricordata dell’assenza di competenze. Si tratta di trasformare buone idee in aziende. Ora, non che in Italia manchino incubatori di successo. Si pensi alla trevigiana H-Farm Ventures, o alla romana LVenture, o ancora a Digital Magics, tutte quotate in Borsa. Però, a ben vedere, la prima dal 2005 ha investito in 121 start-up, la seconda in una sessantina. Quanto alla terza ce lo racconta il suo amministratore delegato: «Facciamo una certa selezione – afferma Gay -: su 1.500 domande di incubazione che riceviamo, portiamo avanti dieci o 15 start-up all’anno, diventando soci di quest’ultime. Le start-up vengono scelte in base alla capacità di visione, quella di saper riconoscere cosa cerchi il mercato. Noi, d’altra parte, portiamo competenze e capitale. Le aiutiamo ad acquisire i mezzi tipici delle aziende, e le sosteniamo nel go-to-market. La nostra quota di partecipazione non supera mai il 25%, e per due motivi: la maggioranza deve rimanere in mano ai fondatori, per una questione di responsabilizzazione; e questi ultimi devono ottenere la massima soddisfazione e agire con il commitment più elevato. Attualmente abbiamo in portafoglio 65 start-up, ma ogni anno aumentano».

Il caso Talent Garden

Intendiamoci: un lavoro prezioso, che però riguarda alcune start-up e non la grande massa. Ma solo le start-up “seguite” possono diventare scale-up, e cioè possono avanzare in crescita, dimensioni e investimenti espandendosi all’estero grazie anche a partnership strategiche con grandi aziende. Esempi, ce ne sono. Da Digital Magics – il più importante incubatore di start-up digitali “Made in Italy” attivo su tutto il territorio italiano, quotato su Aim di Borsa Italiana (Industria Italiana se ne è occupata qui) – è emerso Talent Garden, la più grande piattaforma fisica in Europa di networking e formazione per l’innovazione digitale (ma anche, semplicemente, di uffici condivisi in un ambiente gradevolissimo con un eccellente rapporto qualità/prezzo), che oggi conta 23 campus in 8 Paesi (Albania, Austria, Danimarca, Italia, Irlanda, Lituania, Romania, Spagna) e migliaia di talenti, tra startup, freelance, aziende e grandi società. «L’ultima apertura a Dublino, un mese fa – afferma Gay -: l’azienda fa buoni numeri, e si sta sempre di più internazionalizzando». Un mese fa Digital Magics ha ceduto il 9% di Talent Garden per 3,6 milioni, realizzando una plusvalenza di oltre 3,2 milioni. Attualmente l’incubatore detiene 21.794 azioni di Talent Garden, corrispondenti a circa il 10% del capitale.

 

HyperloopTT system front view
Veduta frontale dei convogli HyperloopTT
Il caso HyperloopTT

Un’altra scale-up di rilievo globale legata a Digital Magics è Hyperloop Transportation Technologies (HyperloopTT). La società ha l’obiettivo di realizzare Hyperloop, un treno superveloce che funziona così: una capsula si libra sospesa all’interno di un tubo a bassa pressione. L’aria di fronte alla capsula viene aspirata e convogliata da un compressore dietro il mezzo. Con questo sistema, grazie alla bassa resistenza, il treno può assumere velocità superiori a quelle di crociera di un aereo di linea: 1.200 km/h contro 920 km/h. L’idea è quella di realizzare su piloni i tubi dentro i quali corre l’Hyperloop: così si potrebbe ridurre i costi di acquisizione dei terreni. L’intera struttura è antisismica e autosufficiente in termini energetici visto che, grazie a pannelli solari posti lungo tutta la parte superiore dei tubi, raccoglie più energia di quanto ne consumi. La start-up è controllata al 100% da Jumpstarter: Digital Magics ha investito 320mila euro e ha acquisito l’8,69% della controllante. Hyperloop TT, con sede in California a Culvert City, nei pressi di Los Angeles è stata fondata dall’italiano Bibop G. Gresta e dal tedesco Dirk Ahlborn. La start-up ha prodotto 27 brevetti, stretto 8 accordi governativi in fasi avanzate di negoziazione e oltre 40 partnership per lo sviluppo della tecnologia. Industria Italiana si è occupata di Hyperloop qui.

 

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Federico Marchetti
Il caso Ynap

Non collegato a Digital Magics il solo “unicorn” italiano:  Ynap, forma abbreviata per Yoox Net-A-Porter, azienda attiva nel settore delle vendite online di beni di moda, lusso e design. Yoox è stata fondata 18 anni fa nel Bolognese da Federico Marchetti con il sostegno del fondo di venture capital Benchmark Capital, cui negli anni si sono progressivamente aggiunti altri fondi. Ha assunto il nome Ynap dall’ottobre 2015 in seguito alla fusione con The Net-A-Porter Group, una delle principali società del luxury online. Sei mesi fa, un’altra svolta: il colosso svizzero del lusso Richemont, che detiene marchi importanti (Montblanc, Panerai, Cartier, Vacheron Constantin, Cleef & Arpels, Piaget, e Jaeger-LeCoultre) ha scalato Yoox Net-a-porter, e ora controlla il 95% del pacchetto azionario. Richemont ha messo sul piatto 2,7 miliardi di euro. Con tre milioni di clienti attivi, 9 milioni e mezzo all’anno di ordini di acquisto, Ynap ha ricavi netti per 2,1 miliardi.

 

Mattia Mor, deputato PD

Una legge per aiutare lo sviluppo delle start up

Esiste un progetto di legge che ha l’obiettivo di risolvere uno dei problemi che rendono debole l’ecosistema, quello della carenza del capitale di rischio. Il firmatario è Mattia Mor, laurea alla Bocconi in economia aziendale, imprenditore nel settore dell’abbigliamento (ha creato il marchio Blomor, ora distribuito in 30 Paesi), già senior vice president per Lazada, il più grande e-commerce del Sud Est Asiatico, nonché deputato del Pd. Secondo Mor «c’è bisogno di uno choc di sistema». Che sarebbe realizzato alzando parecchio l’asticella della defiscalizzazione. Per esempio, se il progetto diventasse legge, ai privati sarebbe consentito dedurre il 70% del proprio investimento in start-up (ma anche Pmi innovative, fondi di fondi in venture capital, veicoli societari promossi da network di business angel, e società di investimento) contro il 30% attuale. Più del doppio. Il capitale, peraltro, non sarebbe tassato; ed è anzi prevista la deduzione del 50% dell’eventuale perdita sull’investimento. Le imprese, d’altra parte, potrebbero dedurre il 70% delle spese per l’acquisizione di start-up e Pmi innovative (le seconde si distinguono dalle prime perché rispondono ad altri requisiti.

Per esempio, spese in ricerca e sviluppo pari ad almeno il 3% del maggior valore tra fatturato e costo della produzione) quota che salirebbe al 90% se queste ultime fossero in fase fallimentare. Ancora, le imprese che investissero in fondi di venture capital potrebbero dedurre il 70% dell’investimento. Si cerca di realizzare, con il disegno di legge, dei meccanismi per spingere le imprese comuni a servirsi di quelle innovative, e viceversa: se le aziende utilizzassero start-up o Pmi innovative come fornitori, potrebbero dedurre sino al 170% del proprio investimento; se queste ultime usufruissero di servizi tecnologici di aziende comuni, potrebbero fare lo stesso. Il disegno di legge prevede anche forme “forzose” di collocamento di capitali: l’obbligo per casse previdenziali, fondi pensione e assicurativi di investire lo 0,5% della raccolta in fondi che investono in start-up; ma anche quello di indirizzare il 5% della raccolta dei Pir (piani individuali di risparmio: sono una forma d’investimento incentivata fiscalmente in Italia) in fondi di venture capital e simili, con la possibilità di dedurre il 100% della minusvalenza.

Altre due novità previste dal disegno, infine, sono la creazione di un fondo dei fondi con una dotazione di 200 milioni di euro, per far leva agli investimenti privati con il cosiddetto co-matching (il co-investimento tra veicoli pubblici e privati) e la concessione di finanziamenti a fondo perduto per soggetti non residenti che intendono realizzare una start-up nel territorio dello Stato. Concettualmente assai simili anche le proposte di Italia Startup, l’associazione di 2500 start-up presieduta da Angelo Coletta, che intende chiedere al Governo di portare la detraibilità degli investimenti al 70% e di istituire un “fondo di fondi” per l’investimento in start-up. In tale fondo, che replicherebbe un modello francese, ci sarebbero investimenti dello Stato stesso, ma anche di fondi pensione, assicurazioni, fondazioni bancarie e capitali pazienti di vario tipo.














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