La supply chain al tempo del Coronavirus, tra risk management e Cina dipendenza

di Laura Magna ♦︎ La Cina sta lentamente tornando alla normalità. Ma le filiere produttive cardine come la componentistica e il tessile hanno ripreso con meno del 10% della capacità totale. Bosch, Gm, Bmw. E poi Psa, Magneti Marelli e Volkswagen sono penalizzate dalla mancanza di approvvigionamenti. Per non parlare delle pmi manifatturiere. Eppure una soluzione ci sarebbe: il Geoaudit. La parola a Mark Lowe di Anra

Stabilimento in Cina

Dall’allarme rosso si è passati al ridimensionamento dell’emergenza, ma l’industria deve ancora fronteggiare l’impatto enorme del Coronavirus su supply chain ed esportazioni. Blocco della supply chain, che deriva dallo stop imposto alle fabbriche cinesi. Il governo di Pechino ha annunciato che l’80% delle aziende di Stato (e il 70% di quelle private) ha ripreso le attività, ma sulle linee c’è solo il 20% della forza lavoro totale (fonte Digitimes), e per i settori cruciali delle filiere produttive come quelli di componenti o il tessile, le attività hanno ripreso a un ritmo inferiore al 10% della capacità totale, secondo gli analisti di Icis.  

Un bel problema: dalla Cina arrivano in Europa tutti i componenti hi-tech, le molecole che vengono usate nel pharma, le materie prime tessili per il fashion; e quelli necessari per automotive, telecomunicazioni, meccanica. Mentre alcune delle fabbriche di Lombardia e Veneto, da cui dipende il 40% della manifattura italiana, hanno già chiuso per precauzione o proprio perché «si trovano davanti alla progressiva paralisi delle catene di approvvigionamento o all’impossibilità di transito delle merci: le aziende che puntano sulla produzione just-in-time si trovano in notevole difficoltà, e sempre più prossime al completo blocco della supply chain», dice a Industria Italiana Mark William Lowe, socio Anra e Membro dell’Advisory Board di Pyramid Temi Group.







Dunque, il blocco della supply chain è la conseguenza più immediata del Coronavirus sulla produzione. Certamente esistono delle metodologie per evitarlo: Lowe suggerisce il Geoaudit, una procedura prudenziale che permette di identificare i potenziali rischi legati all’esposizione internazionale ed elaborare soluzioni efficaci.

Mark William Lowe, socio Anra e Membro dell’Advisory Board di Pyramid Temi Group

«Per tutelare le aziende da conseguenze catastrofiche i risk manager in primo luogo studiano le dinamiche dei rapporti con l’estero, e la maniera in cui queste possono impattare sulla catena di fornitura. Il compito del risk manager, a questo punto, è quello di monitorare il rischio di cambiamento, per cercare di anticipare il momento in cui può comparire un problema, ed elaborare non solo un piano B in caso di blocco, ma anche con un piano C che garantisca il regolare transito delle merci». Le procedure per condurre un audit e mantenerlo nel tempo sono complesse, ma fondamentali per operare in un mondo globalizzato, dove ogni più piccolo cambiamento politico, fiscale o sociale può avere un grande impatto. 

Tali difficoltà non sono dovute solamente alla diretta chiusura degli impianti finali di produzione e di assemblaggio di automotive, ma anche dell’intera filiera dei componenti auto per cui la provincia di Hubei è uno dei maggiori centri di produzione. La città di Wuhan, centro della pandemia, ospita numerose aziende produttrici di automotive come il gruppo cinese Dongfeng, la giapponese Honda Motor, la francese Psa Group, l’americana General Motors, la tedesca Bosch e l’italiana Magneti Marelli. Il parco industriale di Wuhan annovera numerosi impianti di assemblaggio e di componentistica per veicoli a motore, tanto che per il 2020, secondo un’altra analisi di Ihs Markit, era prevista una produzione nella sola città di 1,6 milioni di veicoli ovvero il 6% della produzione totale. 

 

A quando il ritorno alla normalità (anche produttiva)?

Stabilimento con forniture Salmoiraghi in Cina

Ma la domanda da farsi a questo è: «Per quanto tempo si può tenere ferma una fabbrica?». Si chiede Mark William Lowe: «Possiamo bloccare del tutto le attività a tempo indeterminato? Certamente no: in alcune fabbriche bisogna che le macchine vengano messe in moto perché non si deteriorino. E inoltre, anche dopo che le linee sono state riattivate il ritorno alla normalità richiede davvero molto tempo perché c’è tutto un discorso di servizi attorno alla produzione, di logistica che deve essere riportata comunque a regime».

In uno scenario in cui l’unica certezza è l’incertezza, qualche segnale per orientarsi sulle possibili evoluzioni della faccenda arriva però proprio dalla Cina. «In Cina multinazionali come Bmw o Volkswagen, Gm o Honda hanno riaperto e questo è un segnale positivo: si tratta di aziende in cui risk manager si saranno riuniti molte volte per valutare la riapertura perché l’ultima cosa che si può volere è riattivare la produzione in un momento in cui non è saggio farlo. Dunque se le aziende internazionali riprendono a lavorare vuol dire che esistono informazioni attendibili che la pandemia sia in fase di retrocessione».

 

Siamo Cina-dipendenti

La mappa del Coronavirus. Data sources: WHO, CDC, NHC and Dingxiangyuan

Ma il Coronavirus ha fatto emergere con evidenza un fatto e cioè che per molte produzioni tutto il mondo sia ormai Cina-dipendente. «Se mi rifornisco di gomma, possono comprare la materia prima in Thailandia, ma in caso di shortage potrò approvvigionarmi da uno degli altri 12 Paesi che la produce. Ma se mi faccio costruire un componente hi-tec, un impianto frenante, un microchip, quello arriva solo dalla Cina. La Cina è la fabbrica del mondo e non è detto che ci siano alternative. La Cina ha il monopolio su certi settori, componenti dell’elettronica, delle telecomunicazioni, ma anche in campo pharma produce componenti chimici che sono utilizzati in Europa dove vengono prodotti i farmaci. Fino a due mesi qua questa cosa era pacifica e non rappresentava un problema. È difficile trovare alternative anche perché negli ultimi venti anni il Paese ha investito massicciamente per ottimizzare la logistica e quindi anche se dall’Europa si trovasse un produttore di componenti equivalenti per esempio nelle Filippine, si dovrebbe accettare di attendere molto di più per ricevere la merce, visto il ritardo infrastrutturale degli altri Paesi asiatici». Il Paese ha costruito per diventare fabbrica del mondo, attuando una precisa strategia politica e specializzandosi nella produzione di componenti e prodotti. Non è un processo facilmente replicabile.

 

L’importanza di un piano B (anche adesso)

E anche se ancora analisti ed economisti non sono in grado di calcolare i danni con precisione, «appare chiaro che l’impatto sull’economia sarà notevole: il blocco di produzione di una potenza industriale come quella cinese, unica produttrice per determinati componenti e manufatti, farà sentire i suoi effetti in tutti i settori, dall’hi-tech all’automobilistico al farmaceutico. Tra i primi, abbiamo potuto constatare un calo del prezzo del petrolio, indicativo del rallentamento della produzione a livello internazionale e del blocco di circolazione di numerosi veicoli, dalle automobili all’aviazione civile», dice Lowe. «Data l’incertezza della situazione, è il momento migliore per pianificare metodi che permettano alle aziende di rientrare dei danni subiti: alcune di queste hanno già un progetto di recupero per il momento in cui si tornerà alla normalità».

Ma, in maniera preventiva, «le aziende dovrebbero sempre dotarsi di un piano B a tutela del proprio business. In alcuni casi non è semplice, se non addirittura impossibile: l’unica soluzione sarebbe quella di accumulare la fornitura, ma questo andrebbe contro i moderni metodi di produzione basati sul concetto del just-in-time», afferma Lowe.

 

Il ruolo del risk manager

Export Italia-Cina al 31/12/2018

È un momento in cui il risk manager ha un ruolo determinante ma nel contempo una sfida molto difficile da affrontare. «I risk manager che lavorano gomito a gomito con consigli di amministrazione e risorse umane si basano su fonti attendibili innanzitutto mediche e scientifiche. Lo scenario è tra i più complessi perché è a rischio la sicurezza non solo dei dipendenti e dei collaboratori, ma anche la business continuity e la sopravvivenza stessa dell’azienda».  

La complicazione deriva dal fatto che la supply chain è ancora a rischio perché anche se la Cina sta riprendendo a lavorare «permane un problema di logistica, per cui componenti e materie prime devono arrivare in Germania e in Italia, attraverso il trasporto via terra, su gomma o ferrovia e soprattutto via mare. Ci vorrà del tempo perché tornino alla normalità i porti cinesi che sono maggiormente utilizzati per l’export verso l’Europa. Non è solo un discorso che riguarda il transito fisico della merce, ma saranno bloccate le agenzie delle dogane, costrette a gestire un backlog di documenti da smaltire». I ritardi dunque proseguiranno anche dopo la ripresa delle attività produttive.

Come fa un risk manager a prevedere uno scenario così catastrofico? «Le aziende che hanno mandato tutti in smart working sono quelle che hanno previsto che poteva diventare necessario. Quindi prevedere anche eventi improbabili è possibile. Per quanto concerne il virus è da molto tempo che le organizzazioni internazionali, dal Wto al World Economic Forum mettono tra i rischi futuri uno scenario di pandemia. Bisogna prenderne atto e capire cosa vuol dire per la singola azienda e immaginare alternative possibili. Possiamo prevedere non il momento in cui si verificherà un terremoto ma come agire nell’eventualità che avvenga. Qual è il piano di emergenza da mettere in atto immediatamente. Un lavoro anche noioso che consiste nello sviluppare procedure ma che è imprescindibile: dobbiamo comunque disporre di soluzioni che ci consentano di gestire eventi prevedibili».

 

Il Geoaudit

Stabilimento Volkswagen a Shanghai

Molto interessante perché si attaglia al caso specifico della crisi del Covid-19 il concetto del Geoaudit. «L’azienda deve essere consapevole del proprio global footprint, dell’esposizione al rischio globale», dice Lowe. 

Il Geoaudit è un processo teso ad identificare l’esposizione al rischio da parte di un’azienda che ha rapporto con clienti e fornitori esteri o è soggetta all’influenza di cambiamenti internazionali. L’obiettivo finale è quello di essere in grado di gestire le conseguenze di eventi determinati da fattori su cui non abbiamo un controllo, come un embargo, una guerra civile o, in questo caso, un’epidemia. Il Geoaudit richiede competenze specifiche, e la sua integrazione nelle strategie aziendali richiede certamente un investimento, ma tale investimento va confrontato con le conseguenze di un potenziale danno economico derivante da una situazione di fronte a cui l’azienda non è pronta o non è in grado di gestire. Come funziona?

 «In un primo momento, si procede all’identificazione dei Paesi con i quali esiste un rapporto commerciale; successivamente vengono individuati potenziali rischi o eventi che possono rappresentare un impatto sugli interessi aziendali e si procede al loro monitoraggio. A questo punto, la fase ‘audit’ consente di identificare gli strumenti necessari per gestire tali rischi qualora si dovessero verificare e di definire le modalità di gestione delle emergenze. Ad esempio, sappiamo che la Thailandia è il maggior produttore mondiale di gomma naturale, con oltre 4 milioni di tonnellate all’anno. Se la sua disponibilità viene ridotta o interrotta, come deve comportarsi la mia azienda? A questo punto, si valutano i pro e contro di possibili nuovi fornitori in altri Stati, che saranno diversi per qualità del prodotto, costo e tempistiche di lavorazione e consegna, e avranno tutto un nuovo apparato di contratti, permessi e licenze, policy di pagamento. Un altro fattore da considerare è quello della manodopera: relativamente alla Thailandia, molti degli operai sono di origine cambogiana. Quali sono le norme che regolano il lavoro degli stranieri? Esiste il rischio che vengano espulsi? Cosa succederebbe se l’economia cambogiana migliorasse e gli operai tornassero in patria? La sua produzione sta crescendo circa del 6/7% ogni anno, e potrebbe avere un impatto sull’offerta e sui prezzi. Un ulteriore fattore da monitorare, infine, è quello ambientale, poiché per la produzione di gomma naturale è necessaria la rimozione delle foreste, l’utilizzo di forni a legna».

Ancora, è necessario «capire quali sono i Paesi che devo monitorare e che possono impattare la supply chain», che può sembrare una banalità ma non lo è. Molto importante è tenere d’occhio tutta la catena di fornitura. «Per esempio, poniamo che io fabbrichi orologi a Genova: mi rifornisco del cinturino di cuoio in Toscana. Il vetro lo faccio fare ai tedeschi e la parte elettronica in Cina. Se mi sfugge che c’è un pezzo, per esempio le lancette, che vengono prodotte in Albania e poi assemblate in Cina sul kit, ho un bug nel monitoraggio. Un terremoto, un golpe o la decisione ministeriale albanese che blocca la produzione di lancette perché usano una sostanza inquinante per illuminarsi di notte: sono tutti eventi possibili e se capitano devo essere in grado di correre ai ripari in tempi rapidi. Se non ho un controllo completo e minuzioso di tutta la catena, il rischio per la business continuity è enorme». 














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