La realtà sull’avvento dei robot, al di là di Bill Gates, della “sua” tassa e dei luoghi comuni

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di Filippo Astone ♦ Per ora, l’automazione crea valore economico e posti di lavoro. Consente di mantenere le fabbriche in Occidente e facilita pure il reshoring. Alcuni lavoratori avranno però problemi seri, e anche per questo è urgente deliberare il reddito di cittadinanza. Che non basta. E comunque, per il futuro occorre una nuova visione sulla politica e la società

Tassare i robot come se fossero dei lavoratori umani, utilizzando i proventi per garantire, almeno in parte, il welfare e la copertura dei costi sociali della disoccupazione provocata dall’automazione stessa. E’ questa, in estrema sintesi la proposta-choc che Bill Gates ha formulato qualche tempo fa e che Industria Italiana ha già raccontato in questo articolo  , facendola commentare da industriali, sindacalisti, produttori di robot.

L’idea del fondatore di Microsoft è suggestiva, certo. Ma è assolutamente inattuabile. Se, per ipotesi assurda, venisse tradotta in pratica, andrebbe contro agli stessi interessi (cioé quelli del popolo che resta senza lavoro e senza reddito per “colpa” dei robot) che si propone di tutelare. Però la provocazione ha avuto il merito di far discutere il mondo su un tema cruciale: le conseguenze della crescente automazione non solo sui processi produttivi, ma soprattutto sul lavoro, sulla società, sul modo di vivere, sulla cultura.







Bill Gates ha aperto il dibattito Robot Tax

Nel breve-medio periodo (3-10 anni) l’automazione – soprattutto se ben sfruttata e accompagnata da adeguate politiche industriali e di formazione – potrebbe essere un fenomeno positivo, perché creerà molta più ricchezza di quanta ne distruggerà, e produrrà anche posti di lavoro più qualificati, interessanti e remunerati. Purtroppo però ci sarà una classe di lavoratori-esclusi, prevalentemente persone oltre i 50 anni di bassa istruzione e addetti a mansioni ripetitive o a a scarso valore aggiunto, lavoratori che in gran parte perderanno il posto, con scarse o nulle speranze di trovarne un altro.

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Da sempre nella storia umana, il progresso tecnologico creando maggiore produttività, alimenta anche la ricchezza e genera posti di lavoro a maggior valore aggiunto, di migliore qualità e maggiormente pagati. Non a caso, il Paese europeo con la maggior diffusione dell’automazione è la Germania, che è anche quello più ricco e con la disoccupazione ai minimi. Se i robot fossero nefasti per l’occupazione e la ricchezza, la Germania di oggi sarebbe povera e piena di disoccupati. Invece, è vero il contrario.

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E questa volta dobbiamo aspettarci posti di lavoro per progettisti di automazione, programmatori software, consulenti informatici, analisti di Big Data, esperti di robotica e automazione, controllori di processo. Si pensi a quanto è avvenuto con la prima rivoluzione industriale. L’automazione, certo, ha mandato a casa una larga fetta di lavoratori. Ma ne ha creati molti di più, e ha permesso una diffusione generale del benessere, che nel tempo ha fatto sparire analfabetismo, mortalità infantile e tutta la vita breve e faticosa che faceva gran parte della popolazione, occupata nel lavoro agricolo.

Nel breve-medio periodo dobbiamo aspettarci posti di lavoro per progettisti di automazione, programmatori software, consulenti informatici, analisti di Big Data, esperti di robotica e automazione ; photo courtesy Fanuc

Nel medio-lungo periodo, cioé oltre i 10 anni (le previsioni temporali possono essere, ovviamente, solo approssimative e ipotetiche) ci dobbiamo aspettare un radicale cambiamento delle nostre società, che non si potrà risolvere soltanto attraverso forme di imposizioni fiscali o azioni di welfare. Bisognerà fare un ragionamento assolutamente inedito – un ragionamento vasto – a partire da politica società, cultura, modo di vivere.

In questo articolo prima spiegherò i motivi della non praticabilità della proposta di Gates, e poi mi soffermerò su quello che potrebbe avvenire a breve-medio e a lungo termine. E sui possibili rimedi.

Perché la tassa sui robot non è praticabile e nemmeno auspicabile per i lavoratori stessi.

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Tassare il progresso tecnologico non ha senso. Sarebbe come tassare le macchine lavatrici per compensare i posti di lavoro persi dalle lavandaie. Significherebbe porre un freno a quel progresso tecnologico che, da sempre, ha portato crescita economica e maggior benessere generale. Anche perché ha liberato una gran parte di umanità dai lavori più faticosi, ripetitivi, rischiosi.

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Inoltre, la maggiore produttività generata dalle macchine crea già di per sé un maggior reddito imponibile, e quindi può produrre più gettito fiscale. Per spiegarci meglio useremo numeri inventati e parole povere. Supponiamo che un’azienda parzialmente automatizzata produca 100 euro di ricavi e 10 di utile. Ebbene, una molto automatizzata potrebbe produrre 150 euro di ricavi e 50 di utile. E su quei 50 di utile pagherebbe maggiori tasse, con evidenti benefici in termini di prelievo fiscale. Senza contare l’incremento di utile che si creerebbe per chi progetta, produce e commercializza i robot, nonché per tutto il mondo di servizi ad elevato valore aggiunto che ruota loro attorno. Una tassa che freni la diffusione dei robot, pertanto, rischierebbe di ridurre il gettito fiscale invece che di aumentarlo.

Una tassa sui robot, poi, dovrebbe avere diffusione mondiale, cosa che, fino a quando non ci sarà un mondo unificato politicamente, sarebbe impossibile. Ci sarebbero quindi Paesi in cui i robot non vengono tassati, Paesi che diventerebbero attrattivi per le aziende manifatturiere, che porterebbero la loro produzione in quei luoghi, depauperando i Paesi che applicano la tassa sui robot.

Robot al lavoro. Stabilimento ABB Dalmine ; photo courtesy ABB

Inoltre, a noi occidentali, l’automazione conviene, perché fa venire meno le ragioni che rendono competiva la delocalizzazione della manifattura per risparmiare sul costo del lavoro. L’automazione consente di tenere le fabbriche qui da noi invece di portarle in Cina o in India o chissà dove. Non solo perché non c’è ragione di portare altrove un lavoro che viene svolto da robot, ma anche perché più la fabbrica è a valore aggiunto (e quella automatizzata, ovviamente lo è) più è utile tenerla vicina ai centri decisionali dell’impresa che in genere stanno in importanti luoghi occidentali, dove ci sono competenze, attività di ricerca, società di consulenza, e tutto quello che serve.

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Maggiori sono gli investimenti tecnologici, maggiore è la competitività, e più l’impresa può prosperare, salvando i posti di lavoro che ci sono. L’automazione – superficialmente vista come “nemica” – è in realtà ciò che ha contribuito a salvare molte aziende, e a tenerne tante in Italia (e in Europa, e nel mondo occidentale…). Non è un caso se, parallelamente alla crescita dell’automazione, in tutto il mondo sia in aumento anche il reshoring, cioé il fenomeno del ritorno in patria delle produzioni un tempo delocalizzate.

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Come abbiamo già detto, l’onda lunga dell’automazione può generare migliaia di posti di lavoro qualificati e interessanti per ingegneri, informatici, tecnici e operai specializzati. In buona sostanza, sul breve-medio periodo, l’automazione potrebbe creare più lavoro di quanto non ne distrugga.

Robotica in fabbrica
Robot Kuka in fabbrica

Per l’ Italia maggiori vantaggi dall’automazione

E in Italia? Questo ragionamento è ancora più valido. Ed è necessario sostenere l’automazione, il manifatturiero, l’innovazione tecnologica. Il ragionamento che stiamo conducendo per l’automazione è valido in tutto il mondo occidentale. E in Italia? Beh, in Italia ancora di più. Non solo perché siamo il secondo Paese manifatturiero d’Europa e il settimo al mondo. E questo già basterebbe, visto che l’economia reale genera direttamente il 16% del pil, e indirettamente (cioé attraverso tutti i servizi connessi alla manifattura) ben il 60%. Ma anche perché l’Italia è povera di materie prime. Il manifatturiero ci permette di “lavorare” le materie prime provenienti da fuori e poi rivenderle, garantendo così un equilibrio della bilancia dei pagamenti. Tale equilibrio è essenziale per la sopravvivenza economica del Paese, per non precipitare nella povertà.

Ottime ragioni per cui l’Italia dovrebbe cavalcare il più possibile automazione, robotica, industry 4.0, nanomateriali, manifattura additiva e tutto ciò che sta sulla frontiera dell’innovazione tecnologica e manufatturiera. Anche perché nel nostro Paese esiste un patrimonio di competenze nell’industria meccanica che risale al Cinquecento (e forse ancora più indietro) e che ha un valore enorme. Solo così si può garantire benessere e qualità della vita alle generazioni successive. Ma che cosa significa – nella pratica – cavalcare l’ondata di automazione e di nuove tecnologie manifatturiere?

Carlo Calenda
Carlo Calenda, Ministro dello Sviluppo economico

Un passo importante è rappresentato dal  Piano Industry 4.0 del ministro Carlo Calenda, che ha concesso importanti defiscalizzazioni per le imprese che investono in nuovi impianti e nuove tecnologie di interconnessione. Ma non basta. Occorrono importanti investimenti in ricerca, che ci mettano al passo con i grandi Paesi europei. Ci vuole una politica industriale adeguata, modellata sui casi di successo americano e tedesco.

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Bisogna formare le nuove generazioni ai nuovi lavori, creando adeguate strutture e, soprattutto, aumentando in numero di ingegneri. Troppi ragazzi, inconsapevoli del futuro, si iscrivono ancora a facoltà letterarie, o a medicina, o sognano addirittura di fare i cuochi. Invece, abbiamo un bisogno disperato di ingegneri, e bisogna fare tutto il possibile per aumentare il loro numero.

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Tutto queste considerazioni, però, non devono far dimenticare gli enormi problemi sociali che verranno creati dalla diffusione capillare dell’automazione.

Disoccupazione strutturale

Sul breve-medio periodo: affrontare il problema della disoccupazione strutturale. Se è vero che l’automazione va incoraggiata, invece che tassata, è altrettanto vero che, soprattutto sul medio periodo (la nostra ipotesi è di 3-10 anni) crescerà la disoccupazione strutturale, a danno soprattutto di un certo tipo di lavoratori. Si pensi per esempio ai porti, che con la diffusione dell’Industry 4.0 (nel giro di pochissimi anni) verranno completamente interconnessi e automatizzati. Si veda a questo proposito un articolo di Industria Italiana sul Porto di Livorno.

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Movimentazione containers nel Porto di Livorno; Photo courtesy Ericsson

Oggi, quando arriva una nave-cargo, c’è un uomo che guida un camion con le benne o una gru, e che posa ogni singolo container sui treni o sui camion che lo porteranno a destinazione. Arrivati sul luogo prescelto, verranno aperti e smistati da operatori umani. Domani, i container saranno pieni di sensori, e macchine automatiche e supersensorizzate a loro volta provvederanno, da sole, a posizionarli dove serve per sperdirli. Giunti a destinazione, succederà lo stesso. Gli uomini che guidano camion con le benne o gru, resteranno senza lavoro. E’ vero, certo, che si crea occupazione più qualificata, ma non saranno certo gli ex operatori di camioncini con le benne, magari ultracinquentenni, a programmare i computer, a installare i sensori o a presiedere ai sistemi di governo. L’esempio dei porti si potrebbe estendere a decine, centinaia di altre attività manifatturiere.

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Anche volendo, e potendo, non tutti i lavoratori che l’automazione e la tecnologia costringeranno ad andare a casa si potrebbero dedicare ad altro, o riqualificare. Non solo perché è difficile riqualificare personale con basso livello di istruzione, e che per decenni si è dedicato ad attività ripetitive. Ma anche perché è oggettivamente difficile che ci sia sufficiente lavoro per tutte queste persone.

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Ultimo ma non meno importante, il tema della giustizia sociale, o dell’equità, come lo si voglia chiamare. Non è assolutamente accettabile che i costi sociali ed economici della Quarta Rivoluzione industriale ricadano solo su una tipologia di persone, che sono anche le più svantaggiate. Sarebbe una colossale ingiustizia. Ma non è solo un tema etico. Il fatto è che questa ingiustizia le società occidentali non se la potrebbero proprio permettere. Le conseguenze della frustrazione, forse anche della disperazione, di centinaia di migliaia di persone potrebbero alimentare terrorismo e movimenti di protesta pericolosi, e costosissimi da gestire.

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i costi sociali ed economici della Quarta Rivoluzione industriale non possono ricadere solo su alcune classi sociali. Manifestazione anti G20 a Londra 2014

Quindi? La soluzione – l’unica soluzione oggi pensabile – sembra essere il reddito di cittadinanza garantito per tutti. Senza dimenticare le altre operazioni necessarie, come la creazione di strutture per la formazione continua e il riposizionamento professionale dei lavoratori che possono avere speranze di trovare una nuova collocazione.

Ci vuole il reddito di cittadinanza!

Il reddito di cittadinanza è l’unica soluzione efficace a questo e ad altri problemi sociali che già esistono e che in futuro diventeranno drammatici. E avrebbe anche un effetto moltiplicatore di ricchezza. Il reddito di cittadinanza esiste in Francia e in molti Paesi evoluti del Nord Europa. Ed è auspicato perfino dall’Unione europea. Inoltre, il reddito di cittadinanza avrebbe anche un effetto fiscale positivo, e tale da garantire, almeno in parte, il recupero delle somme investite per erogarlo. Si tenga presente che, ad oggi, il principale problema economico dell’Italia (che, fra i pochi Paesi occidentali, non ha recuperato i punti di Pil persi con la crisi, e non intravede nemmeno in prospettiva alcuna possibilità di farlo) è la stagnazione dei consumi interni.

Questi ultimi – per meccanismi economici che sarebbe lungo spiegare qui – sono anche vitali per alimentare aziende che magari sono lontane dal largo consumo, ma che comunque hanno la loro testa e il loro cuore qui da noi. Dare soldi ai poveri, che li spendono subito, rappresenterebbe quella bella sferzata neokeynesiana che è indispensabile per la nostra ripresa. A livello fiscale, poi, se si danno 1000 euro a un povero, accade che lo Stato ne recupera 210 già al primo giro di spesa (con l’Iva), senza contare l’Irpef sui maggiori utili realizzati dalle aziende che vendono al povero i beni di prima necessità. A loro volta, queste aziende devono approvvigionarsi maggiormente (e quindi altra iva, e altro Irpef) e investire per far fronte alla nuova domanda. Magari devono perfino assumere maggiore personale, che a sua volta spende.

Reddito di cittadinanza: uno dei cavalli di battaglia del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo

Peraltro, il reddito di cittadinanza si impone anche alla luce delle recenti riforme pensionistiche e del mercato del lavoro, che in futuro creeranno non pochi problemi sociali. Ci sarà una generazione, quella che oggi ha attorno ai 40 anni di età che teoricamente dovrebbe andare in pensione a 70 anni. L’avverbio “teoricamente” merita una sottolineatura. Quale datore di lavoro, che non sia lo Stato, è disposto a tenere dipendenti così anziani? Forse può tenerne una piccola parte, quelli essenziali, ma gli altri? Inoltre, con i nuovi contratti di lavoro “jobs act” è diventato facile disfarsi di chi sembra non servire più. Certo, per i disoccupati ci sarà la Naspi, elemosina di mille euro circa per 12-18 mesi. E dopo? Un 60enne messo fuori azienda col contratto jobs act e competenze magari obsolete, che farà dopo la Naspi? Creerà una start-up? Imparerà a progettare robot?

Insomma, ci saranno molti lavoratori espulsi dal mercato del lavoro prima di aver raggiunto l’età pensionabile. E una parte significativa di questi avrà alla spalle periodi di precarietà o di disoccupazione, con conseguenti versamenti discontinui, o addirittura nulli. Per loro, la pensione sarà un miraggio lontano.

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Non ci sono ragioni che rendano sconveniente, o inattuabile, il reddito di cittadinanza, se non una serie di pregiudizi, riconducibili a due. Il primo è il pregiudizio che sia una roba da comunisti, talmente insensato da non meritare alcuna confutazione. Il secondo pregiudizio riguarda la possibilità di abusi, o l’alimentazione di un generazione di fannulloni. Tuttavia, contro questi “pericoli” è possibile, in un mondo moderno e interconnesso, predisporre adeguati anticorpi. Basta imitare le best practice dei Paesi europei in cui il reddito di cittadinanza esiste già.

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E se anche qualche fannullone, o doppiolavorista, dovesse sfuggire agli anticorpi? Beh, sarebbe un problema così grave? Davvero vogliamo gettare nella povertà centinaia di migliaia di persone e tenerci la domanda interna depressa in nome di una posizione di principio contro qualche migliaio di fannulloni e furbetti? A parte il fatto che fannulloni e furbetti comunque spendono e muovono l’economia, che cosa vogliamo fare? Muoia Sansone con tutti i Filistei? Veramente?

Non c’è solo il reddito di cittadinanza

Uno sguardo un po’ più ampio…… Tenendo conto anche dell’Unione europea. Ovviamente, non c’è solo il reddito di cittadinanza fra i rimedi. Ci sono anche altre soluzioni, che fra poco verranno delineate. Come la creazione di nuovi posti di lavoro nella ricerca scientifica, nelle infrastrutture, nella cura delle persone e del territorio. Tutte attività che possono essere finanziate solo dalla mano pubblica e che – fatto non secondario – sarebbero comunque utili alla collettività, alla creazione di valore economico, al sostegno delle aziende chiamate a competere a livello mondiale. Reddito di cittadinanza e altri rimedi, potrebbero tradursi in pratica più facilmente se ci fossero più risorse. E queste ultime arriverebbero se i vincoli alla spesa pubblica imposti dall’Unione europea (ovvero la famigerata austerità) smettessero di esistere e se fosse possibile la creazione di debito a livello di Ue.

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Il governatore della BCE Mario Draghi.

L’austerità è stata decisa nel 1993 in nome del giusto principio di frenare il debito pubblico, ma 25 anni dopo è diventata un dogma fine a se stesso, un freno alla crescita, qualcosa che sta creando sacche di povertà e sta delegittimando la stessa Unione europea, che rischia di sfaldarsi. L’emissione di eurobond ci metterebbe sullo stesso piano di competizione degli Stati Uniti, che hanno debito a livello statale e a livello federale e che, in buona parte grazie al debito federale, sono riusciti ad alimentare le riforme economiche di Obama, che hanno rimesso l’economia in carreggiata, facendola crescere di quasi 25 punti di pil e portando gli Usa vicino alla piena occupazione.

Blade Runner
La società di domani come quella descritta da Ridley Scott?

Sul lungo periodo: l’automazione pervasiva e un ripensamento generale della società e della politica.

Quanto detto finora vale per il breve-medio periodo. Ma sui tempi lunghi, fra 10-20 anni circa, potremmo trovarci a vivere in un mondo radicalmente nuovo, un mondo che, forse, nemmeno la fantascienza è in grado di immaginare. Un mondo nel quale i robot che sono in grado di fare i lavori domestici, le auto si guidano da sole, gli automi che fanno i baristi, le macchine che si auto-producono, e auto-controllano e auto-programmano. Un mondo nel quale perfino i soldati vengono sostituiti dai robot. E i software rispondono al telefono in modo indistinguibile dagli umani, forniscono pareri legali e scrivono perfino gli articoli di giornale. Che posto ha il lavoro in un mondo simile? Ben poco, se si vuole essere realisti. Tanto che stime di McKinsey calcolano che, nel giro, di ventanni, la metà dei lavori svolti da umani potrebbe essere automatizzata, eseguita da automi.

Percentuale di lavoratori sosituibili con l’automazione, per singolo Stato, secondo McKinsey

L’automazione e la tecnologia, insomma, possono creare lavoro a breve-medio periodo, ma nel lungo periodo lo distruggono tout court.E allora? E allora bisogna ripensare radicalmente il modo di vivere dell’uomo in una società in cui poco lavoro è necessario. Tutto questo richiede un nuovo modo di concepire la politica, e di viverla. Politica. Politica. Politica. Dopo anni di propaganda contro la “casta” (propaganda basata su solide ragioni, ma che ha deligittimato non solo i politici corrotti e/o incapaci, ma la politica intera)la politica  dovrebbe trovare una nuova legittimità.

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In futuro (ma dovrebbe cominciare già adesso) la politica viene chiamata a compiere un’operazione storica: distribuire sull’intera comunità gli enormi benefici che derivano dall’evoluzione tecnologica. Per questo, occorre una maggiore leva fiscale, che deve agire sugli enormi profitti e sulle rendite. Una rivoluzione copernicana. Bisogna che qualcuno inizi a pensare in grande e con un adeguato senso della Storia. E’ una sfida immensa. Altro che tassa sui robot.

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3 Commenti

  1. Il reddito di cittadinanza va emesso a condizione che venga speso all’interno di un circuito di aziende che alimenti lo sviluppo dell’industria 4.0 e in generale della digitalizzazione dei processi economici in modo da accelerare il miglioramento sociale-economico-scientifico-tecnologico e ambientale che tali processi innescheranno. In questo documento alcune idee a riguardo per lo sviluppo dell’industria 4.0 e del dividendo sociale generato dall’automatizzazione https://www.facebook.com/notes/1455617381147349/Raccolta%20di%20idee,%20proposte%20per%20lo%20sviluppo%20dell’industria%204.0/1472483366127417/ .

  2. Posso condividere molti interessanti spunti dell’articolo, non ovviamente quelli in cui ci si lamenta delle Facoltà scelte dalle persone, che nonostante le lamentele spesso venute alla ribalta da giornalisti o da politici sono e rimangono una scelta libera delle persone al di là di qualsiasi motivo di tipo economico, aggiungo inoltre che non ritengo siano in pochi coloro che scelgono la laurea in Ingegneria proprio perché è una laurea che garantisce più lavoro rispetto ad altre, il problema è vedere quale indirizzo di Ingegneria viene più o meno scelto ed eventualmente deve essere interesse delle singole Facoltà pubblicizzarsi meglio, sono convinto che la robotica sia un tema che attrarrà molto l’interesse nelle giovani generazioni, soprattutto se anche l’opinione pubblica italiana comincerà a parlarne in maniera più frequente.

  3. Il reddito di cittadinanza non deve essere equivalente a uno stipendio.
    Sono sufficienti 150-300€ per la mera sussistenza: cibo 50€, spese per l’igiene ecc 20€, alloggio base condiviso 150-250€. Così certamente si evitano i fannulloni, perché comunque per avere qualsiasi bene materiale uno deve lavorare, però allo stesso tempo si evita che i disoccupati vivano in condizioni da 3º mondo. Non è comunismo, ovvero la completa redistribuzione dei beni, e il capitalismo, che attualmente è “viziato dalla componente umana”, (persone che accetterebbero qualunque lavoro/paga/condizione perché DEVONO lavorare)addirittura ne beneficerebbe perché le aziende che hanno sempre rispettato i lavoratori non subirebbero la concorrenza sleale degli sfruttatori.
    Inoltre… Non ci sono abbastanza lavori? Perché non lavorare meno e tutti? Che siano meno ore, giorni o mesi, si darebbe la possibilità a più persone di lavorare. Come compensare lo stipendio ridotto dovuto al lavoro ridotto? ….non ce n’è bisogno! L’automazione viene utilizzata anche per ridurre il costo dei prodotti.. Quindi pur con un reddito ridotto, il potere d’acquisto rimarrà (pressoché) invariato.

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