Sette miti da sfatare sulla Digital Transformation

di Marco dè Francesco ♦ Secondo  Idc ci sono sette miti da sfatare e tre nuovi ostacoli non tradizionali. Ad esempio, il fatto che verranno ridotti i posti di lavoro o che sia solo una questione di IT. Li abbiamo passati in esame con Fabio Moioli (Microsoft) e Michele Dalmazzoni (Cisco)

La digital trasformation farà strage di posti di lavoro? È un processo che riguarda solo le grandi aziende? Miti da sfatare, secondo una ricerca di IDC (società mondiale specializzata in ricerche di mercato, servizi di consulenza e organizzazione di eventi nei settori ICT e dell’innovazione digitale) reperibile qui.  Fin dall’inizio, si sono imposti dei luoghi comuni che hanno avuto l’effetto di rallentare l’avanzata della quarta rivoluzione industriale. Ad esempio, si è fatto della digital transformation un mutamento riguardante meramente l’Industry e l’IT, mentre è soprattutto un fatto di Business, una questione di cultura aziendale che riguarda tutte le funzioni. Altrimenti, si rischia di buttare via i soldi spesi in implementazioni di software e in macchine interconnesse. Di “miti”, lo studio ne conta sette.

E poi c’è un’altra questione, analizzata da un altro studio di IDC  reperibile qui : le aziende che hanno intrapreso la strada che porta al 4.0 hanno scoperto un nuovo set di ostacoli, che sono emersi, in un certo senso… a causa della digitalizzazione. Per esempio, i consueti Kpi sono diventati obsoleti, le competenze interne sono diventate insufficienti, e le strutture a silos sono divenute un ostacolo all’utilizzo dei dati. Partendo da questi presupposti, Industria Italiana ha analizzato quelli che vengono indicati come miti da sfatare e tre tra i nuovi ostacoli incombenti sulla strada digital transformation; lo ha fatto con l’aiuto di due grandi esperti: il direttore Divisione Enterprise Services di Microsoft Italia Fabio Moioli e il Collaboration & Industry Digitization Leader di Cisco Italia Michele Dalmazzoni.







 

Fabio Moioli,Direttore Divisione Enterprise Services di Microsoft Italia

Primo mito da sfatare: la digital trasformation è una funzione IT

La leadership digitale – si legge nella ricerca IDC – richiede una mentalità del tutto nuova, che deve essere portata avanti da tutti i membri di un’azienda e a tutti i livelli. E la tecnologia va considerata come un potente attivatore; ma occorre, ai fini della digital transformation, una cultura che accetti le motivazioni del cambiamento e processi aziendali intuitivi che colleghino persone e sistemi. I progetti pensati in modo ristretto – si legge – e cioè come semplici implementazioni di software, si traducono spesso in fallimenti.

Secondo Moioli, «è più corretto parlare di “business digital transformation”. Appunto perché il 4.0 è per lo più una questione di business; ed è vero che progetti di trasformazione studiati senza aver approfondito questo aspetto, possono andare male. E poi è un tema che riguarda l’organizzazione, la mentalità, la cultura d’impresa; all’interno dell’azienda, tutte le funzioni devono essere abilitate all’utilizzo delle nuove tecnologie. Una dinamica simile si è già presentata in passato : si pensi alla Seconda Rivoluzione Industriale, che si è verificata alla fine dell’Ottocento grazie all’invenzione dell’elettricità. Certamente l’uso di questa energia al posto del vapore ha reso le macchine più performanti; ma il vero cambiamento, con l’incremento più rilevante della produttività, si è ottenuto in una seconda fase, quando Henry Ford e Frederick Winslow Taylor hanno utilizzato la leva delle nuove scoperte per cambiare i principi dell’organizzazione del lavoro, progettando la prima linea di produzione di massa. Anche adesso, si tratta di ridisegnare i processi, in funzione del business».

Per Dalmazzoni, «in realtà è chiaro che IT e altre funzioni devono lavorare insieme. Si pensi a Dallara (un caso già approfondito da Industria Italiana, che si può leggere qui), una delle più importanti realtà specializzate nella progettazione, produzione e sviluppo di vetture da competizione. Operatori impegnati in ambiti diversi come il packaging, la galleria del vento e la lavorazione del carbonio, sono sempre collegati tra di loro e mettono insieme le loro competenze. In generale, la parola d’ordine è multidisciplinarietà – e ciò si è capito anche in Italia».

 

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Michele Dalmazzoni,Collaboration & Industry Digitization Leader di Cisco Italia

Secondo mito da sfatare: la vera trasformazione riguarda le grandi società

La ricerca IDC cita Stephen Andriole, professore di tecnologia aziendale presso la School of Business della Villanova University: «La realtà è che la vera trasformazione viene da “disruptor” che non hanno una grande quota di mercato». Le grandi aziende – si legge – pensano di dominare i mercati perché hanno avuto successo in passato; mentre la maggior parte delle imprese non impiega il tempo necessario per capire i propri processi aziendali o creare mappe di processo attive. È solo quando stanno perdendo quote di mercato che sono disposte a provare nuove cose. Per Andriole «Marriott avrebbe potuto fare AirBnB. Ma non l’ha mai fatto». Gli fa eco Dalmazzoni: «Una grande azienda è come una portaerei: ha bisogno di tempo per virare di bordo. Una piccola possiede invece la giusta dimensione per effettuare scelte radicali. Pertanto, i trend in corso stanno facilitando l’adozione di tecnologie da parte di realtà minori». Secondo Moioli, «Il cloud, dal quale si attingono gli strumenti funzionali alla digitalizzazione, e pagando in rapporto all’utilizzo, sta aiutando molto le piccole imprese, che possono crescere in misura molto sostenuta».

 

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Un robot collaborativo Kuka insieme all’ operatore umano

Terzo mito da sfatare: la trasformazione digitale sta per ridurre la forza lavoro

Lo studio riporta il pensiero di Andy Bennett, vicepresidente senior di IoT EcoStruxure presso Schneider Electric, una società con sede a Parigi che si occupa di gestione energetica e automazione negli edifici e altre strutture. Per Bennet, maggiore è l’automazione più intensa è l’analisi dei dati che le aziende mettono in atto, e più esseri umani sono necessari per guidare gli algoritmi e capire cosa succede negli impianti di produzione. Quindi , ad oggi, non si vede alcuna diminuzione della forza lavoro.

Secondo Dalmazzoni «il timore è comprensibile, ma allontana da una comprensione reale delle problematiche sottese alla questione. Tecnicamente, a seguito della digitalizzazione, le aziende sono più performanti di prima, soprattutto in termini di produttività. Si assiste ad una crescita che prescinde, teoricamente, da nuove assunzioni. Ma poi, nella pratica, le aziende crescono e assumono. E più che di ridimensionamento, parlerei di trasformazione della forza-lavoro. E un po’ come sulla linea lilla della metropolitana di Milano: non c’è più il manovratore; dietro, però, operano più persone, con un saldo positivo». Per Moioli «è evidente che quando una rivoluzione industriale è radicale, tanti lavori scompaiono. Chi, tra pochi di anni, guiderà un camion o un taxi? Ma così come alcune attività si eclissano, altre si generano. E c’è, in gioco, una grande sfida culturale. E anche la formazione dovrebbe essere in linea con la nuova realtà. La programmazione, ad esempio, dovrebbe essere una materia di base, come l’italiano e la matematica».

 

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La trasformazione digitale riguarda i modelli di business, non la sola tecnologia

Quarto mito da sfatare: la trasformazione digitale riguarda la sola tecnologia

La tecnologia, da sola, non è la panacea quando i dirigenti non si fermano a considerare l’intera gamma di competenze necessarie. Per Seth Robinson – Senior Director of Technology Analysis di CompTIA, un’associazione commerciale senza scopo di lucro per l’industria tecnologica – mentre le aziende apprezzano l’IT strategico, non sono necessariamente pronte a eseguire tale visione. Il 78% delle aziende intervistate afferma di utilizzare la tecnologia per ottenere risultati di business, ma solo il 28% è estremamente sicuro della propria capacità di applicare la tecnologia agli obiettivi aziendali. Per Dalmazzoni «in realtà la trasformazione non riguarda solo la tecnologia o l’IT. Piuttosto, è qualcosa che ha a che fare con il miglioramento operativo e quello dei modelli di business. E ciò in un contesto di servitizzazione, e cioè di prodotti connessi che si trasformano in servizi. Occorre un’opera di re-ingegnerizzazione». Per Moioli «è il caso di ripetersi: la digital transformation è per lo più business, ma anche cultura aziendale e organizzazione».

Quinto mito da sfatare: il supporto della dirigenza è cosa certa

Si legge che affinché qualsiasi progetto abbia successo, è necessario il supporto continuo da parte della direzione; le trasformazioni digitali non sono diverse. Tuttavia, i dirigenti senior sono spesso riluttanti a rendere pubblici questi progetti perché sono spesso complessi e scoraggianti – afferma il già citato Andriole. Secondo Dalmazzoni «il supporto è indispensabile, perché, se si prendono scelte dirompenti, è poi necessario tenere la barra dritta. Inoltre, bisogna considerare la possibilità di sbagliare. Purtroppo, la cultura dello sbaglio non è stata ancora interiorizzata dalla maggior parte delle aziende italiane». Per Moioli «dipende molto dalla preparazione dell’Executive in materia di trasformazione tecnologica. Se non è sufficientemente competente, allora ci vuole un Cio abile e preparato, in grado di far comprendere all’Executive l’importanza di certi passaggi».

 

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Sesto mito da sfatare: la digital trasformation porta armonia tra Business e IT

Secondo Bennet, c’è una convinzione persistente da parte degli uomini del Business di essere limitati dall’IT piuttosto che da questa abilitati. Pertanto, non è detto che l’armonia tra IT e business sia il risultato garantito di una trasformazione digitale. La pensa così anche Moioli: «Può capitare che il Business faccia le cose per conto suo, appoggiandosi a risorse esterne; come d’altra parte può succedere che l’IT sia particolarmente illuminato, e diventi il braccio destro del Business. Nel primo caso si genera un conflitto, mentre è essenziale che Business e IT lavorino insieme. Tuttavia, non è scontato». Dalmazzoni taglia corto: «Spesso si tratta di “silos” che non hanno mai lavorato assieme, e pertanto frizioni possono continuare ad esistere».

Settimo mito da sfatare: il percorso digitale finisce con l’implementazione

Secondo Dan Doggendorf (parere riportato nello studio di IDC), vice presidente delle operazioni aziendali e CIO per la squadra di hockey Dallas Stars NHL, bisogna «iniziare con la fine in mente. Sai cosa stai cercando di fare dal punto di vista tecnico e commerciale. È così che devi attaccare qualsiasi cosa digitale. Altrimenti, stai solo spendendo soldi per nuovi fantastici giocattoli. È il regalo di Natale che credevi di volere e che hai ottenuto, ma fa schifo». Secondo Moioli il mito in oggetto «è particolarmente falso. Implementare e finire la digital trasformation? Non funziona così. È anzi un processo continuo, che non finisce mai. Anche perché non cambia solo la tecnologia, ma anche il modo di utilizzarla. È un percorso infinito, al di là del progetto tecnologico».

Primo ostacolo sopraggiunto: i Kpi obsoleti

In economia aziendale i Kpi (Key performance indicator) sono indicatori chiave della prestazione, indici per monitorare i processi. Ce ne sono di generali, e di relativi alla qualità, al costo, al servizio. Secondo IDC, finché le aziende utilizzano Kpi tradizionali per misurare le nuove attività digitali, gli investitori le penalizzeranno. Pertanto, è necessario un nuovo set di Kpi che catturi le capacità di un’azienda digitalizzata. I nuovi parametri devono includere aspetti finanziari, aziendali e operativi. Per esempio, devono introdurre la leadership rappresentata da indici di innovazione, e la monetizzazione delle informazioni definita parametri connessi alla capitalizzazione dei dati.

Per Dalmazzoni, «alcune aziende dispongono di nuovi Kpi, legati, per esempio, a nuovi modelli di operatività, come lo smartworking. Ma, in genere, gli indici con i quali vengono analizzate le prestazioni restano economici. Ma è anche vero che le banche, oggigiorno, erogano credito più facilmente alle aziende che hanno una roadmap digitale. Forse gli istituti di credito hanno compreso che, per garantirsi un futuro, devono investire su aziende che ne hanno uno». Per Moioli «i parametri devono essere legati al business, non solo alla tecnologia. Ed è un tema legato anche all’utilizzo che si fa dei dati raccolti da processi e prodotti. Come l’azienda valorizza queste informazioni? Questo sì, è un elemento rilevante. Se infatti l’impresa ha un approccio “classico” sull’utilizzo dei dati, può essere il motivo del suo fallimento. D’altra parte, se altre aziende hanno successo con l’utilizzo dei dati di un’impresa, possono portare anche a quest’ultima una parte del loro successo. Funziona così».

Secondo ostacolo sopraggiunto: le competenze limitate

Man mano che le organizzazioni evolvono verso un’azienda digitale, spiega lo studio IDC, devono sviluppare nuove capacità. Queste sono il “cosa” fa un’organizzazione per fornire valore. Le competenze digitali richiedono l’unione di tecnologia, talento, governance, processi e dati. IDC ritiene che poche organizzazioni lavorino attivamente allo sviluppo di nuove funzionalità digitali; piuttosto, sono preoccupate di costruire le componenti di un prodotto. Secondo Dalmazzoni, invece, «il tema delle competenze si incrocia con quello delle risorse. Qualsiasi team di innovation deve fare i conti con la commessa del giorno: si fa subito questa, e si sospende il progetto generale. In Cisco, però, la questione della formazione delle competenze è stata presa sul serio: si pensi alla Cisco Network Academy, con la quale abbiamo formato 60mila studenti delle scuole superiori su diversi argomenti, tra i quali la cyber security».

 

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Una lezione alla Cisco Network Academy

 Terzo ostacolo sopraggiunto: la sussistenza di silos organizzativi e d’innovazione.

Secondo lo studio, se l’azienda IT non si evolve, potrebbe finire per ostacolare la propria trasformazione digitale complessiva, che deve progredire verso un modello di business digitale incorporato; ciò implica la caduta dei muri tra funzioni. Non è un passaggio immediato. Per IDC il periodo forte di trasformazione, che riguarderà il 75% delle aziende, durerà fino al 2027. Ma già entro il 2022 l’80% della crescita dei ricavi delle aziende dipenderà da offerte e operazioni digitali. Secondo Dalmazzoni «di questi tempi, dal momento che i prodotti nascono connessi e digitali, la ricerca e sviluppo deve essere collegata con l’IT, cosa che in realtà in alcune aziende sta accadendo. Resta un problema di ownership del dato. Una struttura a silos tende a tenerselo per sé; invece serve un dipartimento di corporate data, visto che una certa informazione può servire a più funzioni aziendali. Nelle grandi aziende si va in questa direzione; ma la competizione, all’interno dell’azienda, non manca».














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