La digital transformation? In tanti hanno buttato via almeno una mezza milionata

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di Stefano Casini ♦ Senza strategia si gettano solo via risorse. In Italia un’ impresa su quattro è tornata sui suoi passi dopo un progetto sbagliato. Un quinto dei progetti si è rivelato fallimentare. Parla l’ ad di Fujitsu Bruno Sirletti

L’innovazione digitale non porta sempre a percorsi virtuosi, e luminosi, a scenari luccicanti fatti tutti di “rose e fiori”. Quando è male ideata, impostata, pianificata, conduce spesso a fallimenti e rinunce nei progetti di sviluppo. E a perdite ingenti dei soldi investiti e spesi da parte delle aziende. In pratica, la trasformazione Hi-tech va sempre ben analizzata, studiata, ponderata a dovere e proiettata in prospettiva prima di muoversi in qualsivoglia direzione e prima di fare delle scelte e avviare dei processi aziendali. Altrimenti in molti casi c’è il rischio che l’esito finale si riveli un buco nell’acqua. Una voragine in cui finiscono, oltre al tempo prezioso e al lavoro sprecati, anche risorse finanziarie che vengono letteralmente buttate via.







 

 

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La ricerca di Fujitsu

I numeri parlano chiaro: il 27%, tra grandi e medie imprese italiane, ha annullato progetti di trasformazione digitale dopo averli avviati, con una perdita economica media per le casse aziendali di 456mila euro. E il 21% dei progetti digitali fallisce, per un costo, e quindi perdite e sprechi, in media pari a 560mila euro. Sono i casi in cui l’innovazione, pensata e usata male, anziché a miglioramenti e maggiore efficienza, conduce a un vicolo cieco, di fronte al quale anche i maggiori esperti di tecnologie e i manager che li coordinano, devono fermarsi, alzare le braccia e rinunciare. Con contraccolpi dolorosi.

E’ questo il quadro che emerge dal lavoro di analisi e ricerca “The Digital Transformation Pact”, che esamina le performance delle aziende nei confronti dei quattro elementi strategici necessari per affrontare la trasformazione in ambito Digitale: Persone, Azioni, Collaborazione e Tecnologia (da qui, l’acronimo “Pact”). Uno studio di scenario condotto da Fujitsu, (la principale società giapponese di ICT, presente in oltre 100 paesi con circa 155.000 dipendenti) svolto sia a livello globale, coinvolgendo migliaia di imprese di diversi tra i Paesi più Hi-tech, (Stati Uniti, Israele, Giappone, Gran Bretagna, Germania), sia a livello nazionale, con un approfondimento specifico sull’Italia. Il campione italiano, in particolare, è rappresentato da 150 medie e grandi aziende di tutti i settori industriali, in gran parte del mondo manifatturiero.

Focus sull’ Italia: una trasformazione irrinunciabile

Lo scenario che emerge evidenzia l’importanza della tecnologia digitale nel processo di trasformazione dei processi aziendali (per il 40% dei casi), e del modello di Business delle proprie organizzazioni (29%), e indica nelle ‘Azioni’ e nella ‘Tecnologia’ (28% in entrambi i casi) gli elementi principali su cui fare leva. Mentre ‘Persone’ e ‘Collaborazione’ sono indicati come elementi importanti rispettivamente dal 25% e dal 16% del campione totale. Nel 56% delle medie e grandi imprese italiane la tecnologia digitale viene utilizzata non solo a livello di processi e funzioni aziendali, ma anche per crearne di nuovi, da affiancare a quelli esistenti, non ancora digitali. Principale impulso della trasformazione digitale si confermano i clienti (per il 39% dei casi), seguiti a breve distanza da partner e terze parti (35%) e concorrenti (33%).

 

 

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Bruno Sirletti, presidente e ad di Fujitsu Italia

 

 

Per quanto riguarda l’aspetto economico e finanziario, dallo sviluppo di progetti di trasformazione digitale le imprese italiane si aspettano di ottenere un ritorno dall’investimento entro un anno e mezzo, e benefici organizzativi entro 16 mesi dalla data di partenza (a livello globale si parla, rispettivamente, di 20 mesi, e un anno e mezzo, con tempi quindi un po’ più lunghi).«Le aziende italiane, nel complesso, hanno quindi consapevolezza del loro livello di maturità digitale per affrontare progetti di trasformazione» rileva Bruno Sirletti, presidente e amministratore delegato di Fujitsu Italia: «i progetti vengono pianificati e implementati, alcuni con più successo di altri, ma la cosa importante è che le aziende abbiano chiaro che l’immobilità porta a un sicuro insuccesso. Mentre la costante spinta all’innovazione tecnologica, a livello di processi, funzioni, organizzazione, è la strada che permetterà di continuare a competere nei prossimi anni».

….ma non sempre coronata dal successo

Certo, il 27% di progetti di trasformazione digitale bloccati e annullati, dopo l’avvio, e il 21% di progetti falliti, sono numeri che colpiscono, e che, anche se non sono del tutto sommabili tra loro dal punto di vista aritmetico (i due dati potrebbero contenere delle sovrapposizioni), indicano che moltissimi progetti Hi-tech delle grandi e medie imprese italiane, che sono anche quelle più attrezzate dal punto di vista finanziario e tecnologico rispetto alle piccole realtà, non vanno a buon fine. Allo steso modo colpiscono i costi, gli sprechi e le perdite per le casse aziendali, collegati a questi insuccessi: 456mila euro buttati, in media, in caso di rinuncia e annullamento dei progetti; e 560mila euro persi, sempre come media totale, per i programmi inceppati, arenati e falliti.

Ovviamente, c’è anche il bicchiere mezzo pieno: in Italia il 49% delle aziende ha implementato con successo progetti di trasformazione digitale, mentre nel 25% dei casi i progetti sono in fase di implementazione, ma i risultati non sono ancora disponibili. In più, rispetto al dato globale, nel nostro Paese vengono fermati meno progetti di questo tipo (il 27%, come già evidenziato, rispetto al 33% della media a livello internazionale). O forse si può dire che, per certi versi, all’estero alcune cose vanno anche peggio.

 

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Le ragioni dell’ insuccesso: mancanza di una   strategia ben definita

Ma a cosa sono dovuti questi risultati negativi? In moltissimi casi, il motivo di questi fallimenti è dovuto a una mancanza di strategia e pianificazione adeguate, a monte del progetto, ancora prima di iniziare. In pratica, molto spesso si adotta e si sviluppa una tecnologia senza prima avere analizzato bene le reali necessità dell’azienda. Mentre il percorso corretto è quello inverso, e parte dalle esigenze concrete di innovazione, per arrivare a individuare le tecnologie necessarie da adottare e sviluppare. Altrimenti, come testimoniano tanti casi concreti, il flop è dietro l’angolo.

E come rileva anche il manager alla guida di Fujitsu Italia: «una percentuale così alta di progetti digitali che non vanno a buon fine dipende innanzitutto dal fatto che, prima di implementare e sviluppare nuove tecnologie, spesso non c’è a monte, e alle spalle, una strategia di sviluppo adeguata e in linea con le reali, effettive, esigenze dell’azienda, e della realtà in cui si collocano e utilizzano». Spiega Sirletti: «spesso si commette l’errore di un approccio inverso: per restare al passo con l’innovazione, in molti casi, vengono scelte e adottate delle tecnologie che in realtà non sono necessarie. E poi si cerca di utilizzarle e piegarle al contesto concreto in cui si opera e si lavora. Ma è una forzatura che non porta buoni risultati. Mentre il percorso più adeguato deve essere inverso, partendo dalle necessità concrete, per poi adottare gli strumenti e le soluzioni specifiche che ci aiutano a realizzarle».

La strategia complessiva è quindi alla base del successo di un progetto di trasformazione digitale, anche per questo in genere è fondamentale metterla a punto e svilupparla con coinvolgimento diretto del Top management. Ci sono però, e non sono pochi, anche i cosiddetti progetti ombra, quelli avviati senza un’approvazione organizzativa esplicita: per i quasi due terzi (62%) delle realtà scandagliate costituiscono un serio problema per la loro organizzazione, anche se il 59% rileva che spesso sono l’unico modo per provare a ottenere un’innovazione significativa. L’attenzione ai progetti digitali in corso è sempre comunque piuttosto alta, tanto che il 61% delle aziende cambia o rifocalizza quelli che non stanno performando, e il 25% cancella rapidamente quelli che non danno i risultati attesi.

Un Paese spaccato in due tra grandi aziende e Pmi

Il quadro complessivo è comunque quello di un’Italia praticamente spaccata in due. Da una parte ci sono le grandi aziende del Made in Italy di livello mondiale, che hanno risorse finanziarie e competenze adeguate. E risultano spesso all’avanguardia anche sullo scenario internazionale. Dall’altra parte, le tantissime medie e piccole imprese che non hanno le stesse risorse, né finaziarie, né professionali. E che per questo si trovano in difficoltà. «La situazione evidenzia una significativa dicotomia tra le aziende italiane» rileva il presidente e amministratore delegato di Fujitsu Italia: «grandi aziende come Eni, Luxottica, FCA, Intesa Sanpaolo, e altri colossi, sono molto avanti su questo percorso, spesso più avanti dei loro concorrenti esteri.

Mentre le piccole e medie imprese, che rappresentano però una parte fondamentale del mercato italiano, si trovano in grande ritardo». Anche per questo, raffrontando l’indagine a livello nazionale con quella globale, la media italiana in diversi casi risulta anche più alta di quella mondiale: proprio perché il campione analizzato si focalizza su aziende di grandi e medie dimensioni, «se invece se analizzasse lo scenario nazionale nel suo complesso, comprendendo quindi anche le moltissime piccole imprese, il risultato complessivo sarebbe peggiore» fa notare Sirletti.

 

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Saper attrarre il nativo digitale sarà vitale per il successo dell’azienda

Sos competenze

Il Gap di competenze interne è il principale ostacolo per affrontare la Cybersecurity nella propria organizzazione, nel 68% delle grandi e medie aziende italiane. La buona notizia è che la maggior parte non sta a guardare: il 91% sta lavorando per attrarre più competenze digitali, ad esempio puntando alla riqualificazione dei propri dipendenti attraverso programmi di formazione (61%), ritenendo che un Team di lavoro qualificato e aggiornato sarà vitale per il successo della propria organizzazione nei prossimi tre anni. Nel 37% dei casi invece, le aziende italiane stanno adottando il cosiddetto “Reverse mentoring”, ovvero il passaggio di competenze digitali da dipendenti più giovani verso quelli più anziani.

Ma l’aggiornamento non basta, e diventa cruciale (per il 37% dei casi) la capacità di saper attrarre e reclutare le persone. Secondo l’85% delle aziende, entro il 2020 l’Intelligenza Artificiale inciderà sulla tipologia di competenze necessarie per la propria organizzazione, tanto che il 93% del totale si sta muovendo per far fronte a questa necessità e il 91% ammette che saper attrarre personale “nativo Digitale” sarà vitale per il successo della sua azienda nei prossimi tre anni. Obiettivi non facili, soprattutto in un campo cruciale come quello dell’intelligenza artificiale: «è la tecnologia in cui forse abbiamo i più grossi problemi di competenze. E non solo in Italia: se escludiamo Stati Uniti, Giappone e forse Cina, in tutto il resto del mondo, comprese nazioni come Francia o Germania, non esiste ancora la formazione necessaria nel campo dell’intelligenza artificiale» rimarca ancora l’A.D. di Fujitsu Italia.

È  la collaborazione che porta risultati

Un’altra chiave del successo, in campo Digitale, è la cosiddetta co-creazione, vale a dire la collaborazione stretta tra personale interno, focalizzato sugli obiettivi dell’azienda, e personale tecnico specializzato, che in diversi casi può anche appartenere a società Hi-tech esterne. In modo da trovare, insieme, le soluzioni più adeguate a ogni caso specifico. E proprio per evitare di mettere in piedi castelli di carte che servono a poco o nulla. In generale, le aziende italiane sembrano aperte a un mondo collaborativo: il 58% sta implementando o sta pianificando progetti di co-creazione in cui lavorano a stretto contatto con un’altra organizzazione per fornire innovazione digitale. In questo caso, i partner preferenziali sono esperti di tecnologia (53% dei casi), Startup (46%) o altre organizzazioni (45%), anche dello stesso settore (31%). In nome dell’innovazione digitale, l’81% delle aziende afferma di essere disposto a condividere informazioni sensibili (come Business plan e dati di Ricerca e Sviluppo) con un partner esterno. Il banco di prova è il tempo: il 64% sostiene che la mancanza di successo in un breve lasso di tempo mette velocemente fine alle partnership strategiche.

 

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Sicurezza informatica, IoT e Cloud computing i principali drivers della trasformazione digitale
I progetti di trasformazione digitale necessari e più gettonati

Nei programmi delle aziende italiane, nei prossimi 12 mesi ci sono progetti che riguardano i sistemi di sicurezza informatica (59%), l’Internet of Things (51%) e il Cloud computing (43%). Sicurezza informatica, Big data e Analytics, in misura uguale, per il 95% delle aziende, sono fondamentali per supportare il successo finanziario della propria organizzazione nei prossimi 10 anni. E, in un panorama digitale in rapida evoluzione, la capacità di saper cambiare il proprio modello di Business (87% dei casi), e pianificare l’impatto della tecnologia oltre l’anno (83%), risultano cruciali nei prossimi cinque anni. Si tratta di un percorso certamente non semplice, e che desta più di una preoccupazione: il 61% delle aziende teme che la sua organizzazione non saprà adattarsi all’implementazione di tecnologie digitali come l’Intelligenza Artificiale. Il 78% riconosce che i propri clienti si aspettano da loro un maggior livello di digitalizzazione. E il 64% ritiene di essere in ritardo su questo punto rispetto alla concorrenza, tanto che per il 57% la trasformazione digitale nel proprio settore porterà una perdita di clienti.

Ma il problema di formare e reclutare competenze adeguate, e sufficienti, riguarda anche altre tecnologie: Cloud, Cybersecurity, Analytics. Non creiamo abbastanza talenti di questo tipo ed è fondamentale invertire la rotta. Abbiamo bisogno di più laureati in settori come ingegneria, matematica, scienza e tecnologia, ed è fondamentale che le aziende investano sempre di più nella formazione, anche a lungo termine. In un tessuto industriale dominato dalle Pmi come il nostro, non si può cadere nell’errore di sottovalutare l’impatto delle nuove tecnologie. Ci sono enormi potenzialità da cogliere e sviluppare in tutti i settori cruciali per l’Italia, come la manifattura, il Design, l’industria alimentare, meccanica, robotica e automazione.














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