Irbm: possibili partner industriali italiani per il vaccino anti Covid-19

di Marco de’ Francesco ♦︎ Parla il direttore scientifico Carlo Toniatti, sullo stato dell'arte del progetto che potrebbe cambiare la vita dell'umanità e generare profitti elevatissimi. E rivela: non esistono accordi esclusivi con AstraZeneca, le porte sono ancora aperte per chi volesse entrare nella partita. Cassa depositi e prestiti come partner? Lo sperano in molti

Carlo Toniatti, Irbm chief science officer

«Nulla è perduto, le porte sono ancora aperte a possibili partner italiani» – afferma Carlo Toniatti, direttore scientifico dell’Irbm. È la Cro (acronomo di contract research organization, società che fanno ricerche innovative per poi delegare a terzi la prodzione) di Pomezia, che insieme al Jenner Institute di Oxford sta sviluppando il vaccino del secolo, quello che potrebbe mettere ko il Coronavirus. Dati gli accordi in base ai quali a produrlo sarà la multinazionale di Cambridge AstraZeneca, e visto che il governo di Boris Johnson si è mosso in fretta per finanziare l’impresa, si poneva la questione di una eventuale partecipazione italiana. Ebbene, secondo Toniatti è fattibile: non è prevista alcuna esclusività a favore dei britannici. Inoltre, se il vaccino funzionerà, bisognerà far fronte al fabbisogno mondiale: situazione in cui «più soggetti saranno della partita, meglio sarà per tutti».

La questione riguarda soprattutto la Cassa Depositi e Prestiti: il dossier è stato portato sul tavolo dell’amministrazione delegato di Cdp Fabrizio Palermo due o tre giorni fa. Sta valutando con Bei (Banca europea degli investimenti) la possibilità di una partecipazione all’iniziativa. Di che genere, e con quali e quanti mezzi, si capirà nei prossimi giorni.







Intanto l’azienda Irbm si gode l’enorme successo mediatico e guarda al futuro. Che è roseo, come per le Cro in genere. Queste sono società che in ambito farmaceutico svolgono la ricerca e poi ne vendono i risultati ai produttori terzi, le multinazionali del settore. Quest’ultime investono sempre di meno in ricerca interna, perché lo studio di nuovi farmaci è un’operazione rischiosa e costosa che sempre più viene affidata alle Cro. Solo che così i produttori perdono le competenze pratiche per lo sviluppo delle medicine, e in un certo senso si trovano a dipendere dalla capacità sperimentale delle Cro.  Tutto ciò, secondo Toniatti, che abbiamo intervistato.

D: Com’è nata l’idea del vaccino?

Piero di Lorenzo Amministratore delegato di IRBM Science Park posa nei laboratori di ricerca della sua Azienda. Di Lorenzo ha rilevato la IRBM, azienda specializzata nella ricerca farmaceutica, dopo che era stata abbandonata dalla multinazionale Merkel.
Foto: ©Franco Origlia

R: «Noi abbiamo rapporti quotidiani con il Jenner Institute dell’università di Oxford. In particolare, con la docente di vaccinologia Sarah Gilbert, un’autorità a livello globale. Alla fine dello scorso anno, con l’identificazione della malattia da parte delle autorità sanitarie cinesi, alcuni scienziati si erano già allarmati e avevano iniziato a studiare il virus da un punto di vista accademico. Tra questi, la Gilbert. Poi le cose si sono fatte più serie, e abbiamo iniziato a collaborare. Attualmente, la partnership italo-britannica è quella più avanzata nella messa a punto del vaccino, insieme ad un gruppo americano. Ma sono tanti i laboratori impegnati sul campo, nel mondo. Si utilizzano tecnologie diverse, anche se tutte note e mature».

 

D: Come funziona il vostro vaccino?

R: «Per semplificare – sono cose veramente complesse – possiamo spiegarla così: si prende un virus “buono”, un adenovirus reso incapace di produrre qualsiasi malattia e di replicarsi nel corpo umano; si fa in modo che questo possa esprimere la proteina Sars Cov19, che è quella del Coronavirus. Una volta introdotto nel corpo umano, l’organismo reagisce producendo anticorpi, che funzionano anche quando arriva il virus “cattivo”. Si induce una risposta immunitaria».

 

D: E funzionerà?

La sede di Irbm

R: «In questo momento, tutto sembra procedere nel migliore dei modi. Dall’Irbm sono stati mandati in Regno Unito centinaia di campioni, prodotti da noi, che sono testati da volontari. Devo dire che gli Inglesi hanno dimostrato un’organizzazione spettacolare, nell’ottenere in pochi giorni tutte le autorizzazioni per la sperimentazione umana. Quello che possiamo dire è che il vaccino non ha prodotto reazioni negative; ma è presto per affermare con scientifica certezza che funzioni. E, nel caso in cui questa prima fase desse un riscontro positivo, bisognerebbe allargare il campione a più di 5mila persone, in una seconda fase necessaria per capire quanto dura l’immunità conferita dal vaccino».

 

D: Dunque l’Irbm produce vaccini: non siete solo una Cro, (Contract Research Organization), una società che in ambito farmaceutico svolge la ricerca e poi ne vende i risultati ai produttori terzi.

R: «Siamo soprattutto una Cro, ma non esclusivamente. Facciamo anche ricerca interna per produrre dei “nostri” farmaci; ma questa è un’attività minore. Siamo ben attrezzati per la ricerca, e prevediamo un incremento costante delle nostre entrate in quanto Cro».

D: A proposito, secondo una ricerca pubblicata su Fortune Business Insights, il valore dei servizi delle Cro, che attualmente si attestano 38 miliardi di dollari, salirà a quota 90 miliardi nel 2026. Una crescita prodigiosa. È credibile tutto questo, secondo lei?

R: «Sì. Le grandi società farmaceutiche investono sempre di meno in ricerca interna, che affidano a terzi. Perché lo studio di nuovi farmaci è un’operazione molto costosa e anche rischiosa. La possibilità che una certa sperimentazione arrivi ad una conclusione positiva, commercializzabile, è molto bassa. Ci sono fasi complesse da superare; e se il problema si pone alla fine del percorso, tutto è perduto; e i soldi investiti sono buttati. Per evitare i costi fissi dell’attività interna, le big corporation si appoggiano sempre di più alle Cro, dalle quali diventano, in un certo senso, un po’ dipendenti».

Tutti i numeri di Irbm

D: In quale senso “Big Pharma” dipende dalle Cro?

R: «Affidando la ricerca a terzi, i Big globali riducono le competenze interne. Per realizzare un farmaco, ci vuole tantissima esperienza: l’università non basta. È una questione di saper fare, non solo di conoscenze scientifiche. Noi, ad esempio, disponiamo di un patrimonio di capacità pratiche molto vasto, perché il laboratorio attuale esiste da 30 anni, e molti ricercatori sono padroni di più tecniche. È questo che ci rende “indispensabili” per “Big Pharma”».

 

D: Dunque il futuro è roseo, per Ibmr in quanto azienda.

Pomezia Roma, 25 Febbraio, 2010: Ricercatori al lavoro nei laboratori dell’azienda farmaceutica IRBM Science Park nel settore dove si sperimenta la tolleranza e l’efficacia dei nuovi farmaci su cavie animali. La IRBM, azienda specializzata nella ricerca farmaceutica  stata rilevata dall’imprenditore Piero Di Lorenzo dopo essere stata abbandonata dalla multinazionale Merkel.
Foto: ©Franco Origlia

R: «Direi di sì: siamo destinati a rimanere sulla cresta dell’onda; anche se è un mondo difficile, il nostro. C’è una feroce competizione: in molti Paesi i nostri servizi costano molto meno. Per noi è impraticabile la guerra sui prezzi; pertanto, dobbiamo puntare tutto sulla qualità».

 

D: Venendo a Lei, i giornali l’hanno spesso definito “un cervello di ritorno”.

R: «Definizione che non mi piace. È normale nella mia professione lavorare all’estero. Dopo la laurea a Napoli, che nel mio campo è stata una certa fucina di intelligenze, ho conosciuto Riccardo Cortese, il biologo molecolare di fama mondiale ora scomparso; a quel tempo era direttore dell’European Molecolar Biology (Elb) di Heidelberg. Anche lui era di Napoli. Alla fine, fu lui a chiamarmi a Pomezia, quando si trasferì all’Irbm. E quando nel 2009 Merck & Co. Si liberò dell’istituto italiano (sul punto, si legga questo articolo di Industria Italiana), io mi trasferii a Boston, sempre in Merck; e poi a Houston, all’Md Anderson, il più importante centro di oncologia del mondo. Qui lavorano almeno 2mila ricercatori, e si fa molto sul serio: in otto anni, il mio gruppo ha realizzato quattro vaccini partendo da zero. È tantissimo, considerati tutti gli step obbligatori per dar vita ad ognuno di loro. E poi mi piaceva molto il metodo, che può fare la differenza, nel nostro campo».

 

D: Quale metodo in particolare?

R: «Quello di mettere insieme la ricerca accademica e l’industria. Due mondi che non si parlano, in Italia. Gli accademici pensano di essere più intelligenti dei rappresentanti dell’industria; questi ultimi guardano ai primi come a persone astratte e inaffidabili. Invece è importante che questi due mondi siano strettamente connessi, se si vuol fare il bene di entrambi.  Comunque sia, nel 2018 sono tornato in Italia, all’Ibmr, dove c’è tanta gente in gamba, in grado di trasformare un’idea in un farmaco da mettere in commercio».

 

D: Avrà sentito della polemica innescata da Dagospia: due mesi fa l’Irbm si sarebbe rivolta all’esecutivo per convincerlo ad entrare tra i finanziatori del progetto italo-britannico. Il governo avrebbero girato la richiesta alla Cassa Depositi e Prestiti,  che avrebbe lasciato cadere la cosa e il campo libero al governo britannico, che invece ha aperto il portafoglio per 20 milioni.

Fabrizio Palermo, amministratore delegato di Cdp

R: «Ho sentito, ma in questa polemica non voglio entrare».

 

D: Secondo ambienti vicini alla Cassa Depositi e Prestiti, questa sta valutando con Bei (Banca europea degli investimenti) la possibilità di una partecipazione all’iniziativa. Dal momento che esistono accordi in base ai quali a produrre il vaccino sarà la multinazionale britannica AstraZeneca, tecnicamente è ancora possibile un intervento italiano?

R: «Posso dire che non esistono accordi esclusivi con AstraZeneca. Certo, la multinazionale si è mossa in fretta, come d’altra parte il governo britannico. E l’una e l’altro lo hanno fatto a rischio, dal momento che non esiste alcuna certezza sulla validità del vaccino. Ma, nel caso in cui questo funzioni – e probabilmente lo capiremo già a settembre – la domanda sarà gigantesca, pari al fabbisogno mondiale. Più partner ci saranno nell’impresa, e meglio sarà per tutti. Immagino che la cosa sia stata portata sul tavolo delle autorità italiane e probabilmente qualcosa si farà».

 

D: E se Cassa Depositi e Prestiti fosse della partita?

R: «Sarebbe un successo per il Paese. Poi, il meccanismo di ingresso non lo conosco, e non riguarda il mio mestiere. Ma ci sono di mezzo questioni non solo di prestigio. L’importante è che si faccia il bene dell’Italia».














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