La nuova rivoluzione industriale? Dovrebbe essere antropocentrica!

a cura di Luigino Filice ♦︎ “L’industria armonica” a cura di Luigino Filice (Ed. Rubettino) è un viaggio tra gli aspetti della produzione, della catena logistica, della digitalizzazione, dell’innovazione, dell’etica. Con una serie di esempi che dovrebbero delineare possibilità di sviluppo sostenibile

In L’industria Armonica”, secondo volume della collana Harmonic Innovation (Ed. Rubettino), diretta da Francesco Cicione, fondatore di Entopan – che ha contribuito decisamente a teorizzare il concetto di Innovazione Armonica e lavorato con una nutrita task force di studiosi, economisti, innovatori e imprenditori su un ambizioso progetto che mira a promuoverne le ricadute sociali ed economiche in tutto il bacino del Mediterraneo – ho avuto l’occasione di attraversare il pensiero e la visione di molti esperti, approfondendone – da studioso del tema – molteplici aspetti. Il punto di arrivo è sempre lo stesso: la nuova rivoluzione industriale passa attraverso la rilocalizzazione dell’uomo che torna ad assumere la sua centralità nella produzione. Questo libro corale è l’occasione per guidare il lettore in un viaggio nel mondo della fabbrica e dell’industria, uscendo dalla forma mentis tipica deltecnico” per indossare i panni, curiosi e ingenui, del viaggiatore informato.

Passeggiando nei musei più importanti del mondo quasi mai si possono ammirare opere che riproducono l’industria o il mondo industriale. È come voler rifuggire un paesaggio grigio, discutibile, da epurare rispetto a un contesto artistico che richiama forme più vicine all’immaginario armonico dell’uomo. In modo straordinario, Dominik Matt, con il suo team del Fraunhofer Italia, scrive: «Nell’immaginario comune la moderna società è spesso presentata in bilico tra un mondo equo, sano e vivo, ma fatto di rinunce e un mondo confortevole e tecnologico ma ingiusto, inquinante e spoglio». Si tratta solo di una percezione che, cambiando scala ed entrando nel vivo, dischiude un mondo di bellezza, per certi versi inattesa, dove l’armonia entra e pervade gli ambienti come l’aria dalle finestre, e talvolta ti trovi a respirarne, avidamente e a pieni polmoni.







Con gli altri autori proponiamo una riflessione che ha portato a scrivere una tassonomia “esatta” dell’innovazione armonica, le cui radici profonde sono disvelate nel libro Innovazione armonica. Un senso di futuro, scritto da Francesco Cicione e Luca De Biase. Da questo prendo a prestito la mappa (vd. figura 1) che consente di muoversi più agilmente sul sentiero nuovo e intrigante dell’harmonic innovation, che include e supera il concetto dell’open innovation, che oggi ancora concorre a scrivere pagine importanti per il progresso del Pianeta in quei settori laddove la modernità di pensiero (e di condotta industriale) ha scardinato da tempo il paradigma classico dell’innovazione chiusa. Parole chiave come coralità, comunità, bene comune sono i puntini invisibili del nuovo disegno di industria, lasciando in controluce la sagoma possente dello stabilimento di produzione manifatturiera.

Un viaggio che parte da una provocazione: rompere il dualismo, apparentemente dovuto, della società moderna, “bella” e ricca solo a patto di tollerare un’industria “brutta” quanto necessaria, per terminare col richiamo all’urgenza di un comportamento che debba dirsi e farsi etico, in cui l’autoreferenzialità è vinta dai contrappesi formativi, il buon esempio pare un fine virtuoso ma perseguito per cattive ragioni, e ai prodotti industriali, alle cose, è restituita la dignità «di me- moria, anima, senso che nel tempo l’intera comunità umana ha contribuito a plasmare; qualcosa in cui essa continua a vivere». Indaghiamo su come dalla terra, che cela le materie prime, sia possibile godere dell’uso dei prodotti che ci rendono felici grazie alla molteplicità di passaggi e azioni che classifichiamo con il nome potente ed evocativo di supply chain.

Entriamo nel vivo dei processi, provando a capire come la materia cambia forma per farsi utile, creando armonia quando l’industria si fa luogo “dinamico ma non frenetico”, che privilegia lo sviluppo integrale della persona, che ancora oggi è il centro del mondo industriale, al di del progresso della tecnologia. La tecnologia sempre più sostituisce l’uomo nel lavoro di routine, lasciandogli spazi nuovi di creazione e controllo, facendo presagire un futuro di fabbriche completamente automatiche. Ma potremo permetterci ancora di usare le materie prime e riversare in atmosfera quantità di inquinanti che sembrano minare il nostro futuro sulla terra? È l’eterno dilemma tra la felicità e la sostenibilità, tra l’essere e il poter essere. La sostenibilità e le sue reali implementazioni sembrano essere una via percorribile mentre lo sviluppo di quelli che dal 2002, grazie a Michael Grieves, conosciamo come i “gemelli digitali” contribuiscono a capire prima, migliorare l’efficienza, ridurre gli errori.

L’elemento cardine su cui riflettere sono le risorse, a 360 gradi, quindi non solo quelle economiche, ma anche umane, sociali ambientali. In una visione tradizionale, quello che accade è una cosa di questo tipo: esistono risorse naturali che possono essere acquistate, l’industria le trasforma facendole diventare prodotti, questi prodotti sono resi disponibili a un certo prezzo e gli uomini che ne hanno la possibilità li acquistano. Il discorso è fin troppo semplice ma decine di domande sorgono anche in chi, nella vita, si è occupato d’altro. Ne cito solo tre, apparentemente banali ma che aprono alla grande complessità che oggi esiste nell’affrontare il dualismo Sviluppo-Pianeta:

  • Il prezzo pagato per le risorse naturali è “giusto” per remunerarle?

  • L’azienda per produrre non impiega solo fattori della produzione di proprietà: come gestiamo gli altri?

  • Tutti i prodotti realizzati dall’industria sono realmente necessari?

Da tecnico voglio sgombrare subito il campo da un grande equivoco, ovvero che l’industria sia la sola responsabile delle sorti non proprio floride del pianeta Terra né, d’altro canto, è l’unica panacea per condurre allo sviluppo e al progresso dei popoli. Come dire, colpevole o innocente, ma sempre in associazione con terzi. In ogni caso, esistono alcuni fatti incontrovertibili: il pianeta Terra ha risorse limitate (tranne rare eccezioni relative ad alcune fonti energetiche e risorse naturali); la popolazione mondiale (e il numero di cittadini terrestri che richiede una vita dignitosa) è in aumento e questo richiederà un maggiore uso di risorse; il combinato disposto dei primi due fatti significa che è solo una questione di tempo ma il destino, non proprio esaltante, è segnato. È come se strisciassimo di continuo il nostro bancomat senza preoccuparci di chi, “dall’altra parte dell’ATM”, rimette i soldi sul conto. Di più: stiamo usando una carta di credito, perché non possiamo permetterci l’attuale livello di consumi, rinviando il problema a quello che in termini “evolutivi” è il mese successivo per la carta di credito, ovvero la prossima generazione.

Luigino Filice

Nessun padre di famiglia vivrebbe in armonia con stesso in queste condizioni. La nostra banca è molto generosa e ci dà credito ma è opportuno cominciare a pensare a un piano di rientro. Ecco perché uno dei bisogni più in voga concerne lo sviluppo sostenibile, secondo la definizione del 1987 della commissione Brundtland dell’Onu, «quello sviluppo che consente alla generazione presente di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri». Sappiamo che l’Onu non si è limitata alla definizione di sviluppo sostenibile e oggi il focus è sugli Sdg goal, gli obiettivi dello sviluppo sostenibile, i 17 quadratini colorati che campeggiano in ogni trattato di sostenibilità che si rispetti e che dettano le regole e i target da raggiungere entro 2030. E ogni anno ci avverte che le curve di avvicinamento a quei target non hanno una pendenza tale da arrivarvi in tempo. Vorrei proporre un diverso approccio al problema e provare a disegnare insieme una traiettoria nuova, dove l’aggettivo sostenibile sarà sostituito da uno più potente, evocativo e inclusivo, ovvero armonico.

Ci fu un periodo, alcuni anni fa, in cui la soluzione, sembrava quella di limitarel’uso del bancomat”, approcciando la filosofia quasi zen della decrescita felice. Devo essere sincero, il paradigma della decrescita felice si è molto evoluto ma io, da tecnologo e innovatore, non posso accettare la decrescita felice poiché la mia missione è quella “di aumentare (o almeno mantenere) il livello di soddisfazione dei bisogni riducendo l’impatto della produzione dei beni associati”. Concettualmente io combatto e studio per non rinunciare a nulla; se qualcuno lavora sui bisogni, il nostro conto tornerà in verde prima (guarda caso, il colore green), emergendo dal rosso profondo in cui versa che fa tanto pendant con il colore delle Regioni nei periodi di pandemia. Tutti siamo felici di consumare energia pulita, da fonti rinnovabili. Eppure, il mix energetico italiano prevede una parte consistente che proviene da fonti fossili. In termini poco romantici, bruciamo quantità enormi di metano. E per produrre 1 kWh di energia, produciamo circa 300 grammi di anidride carbonica (fonte Terna 2017) usando i generatori turbogas. Per cui, se usiamo mezz’ora il forno (che assorbe circa 2 kW di potenza) per cuocere la pizza abbiamo utilizzato 1 kWh di energia e prodotto 300 grammi di CO2. La domanda è: siamo disposti a spendere quello che serve in più per rimettere a posto le cose, oltre al costo della pizza e dell’energia per cuocerla?

Secondo me, tutto il resto è una conseguenza. Non devo privarmi di cose ma devo avere quello che voglio e posso provando a mettere in atto tutto quello che la conoscenza e la tecnologia consentono per tendere all’impatto 0. Quindi, se devo andare a fare la spesa, il problema non è limitare gli acquisti perché alcune cose sono superflue, ma decidere con che mezzo andare, quali prodotti comprare, ottimizzare il percorso per evitare il traffico e tutto ciò che può essere utile per ridurre o azzerare (perché non fare due passi?) l’impatto sulle risorse di tutti. Recentemente mi è capitato un episodio che, nella sua semplicità, sintetizza il punto. Leggendo la bolletta energetica di casa, come sovente accade dopo qualche anno di distrazione, mi sono reso conto che era il momento di cambiare distributore o, quanto meno, piano tariffario per far ricondurre le spese a un minimo di ragionevolezza. Trovato in rete uno dei tanti servizi di comparazione tariffarie, uno dei fornitori aveva un claim più o meno così: «tutta l’energia da noi venduta è prodotta da fonti rinnovabili». Il tutto a un prezzo un po’ più alto rispetto ai concorrenti fossili. Al di là della normale diffidenza, della necessità di informarsi sulla veridicità di talune affermazioni e così via, la domanda che l’LCD del mio laptop mi rivolgeva era del tipo: “sei disposto a pagare un delta di prezzo per proteggere l’ambiente”?

Questa è la domanda che dovremmo porci per qualsiasi nostra azione che abbia un impatto sugli altri e sul Pianeta (la sostenibilità sociale) ed è una conquista alla quale tendere gradualmente, diciamo con dolcezza e per assaporarne la dolcezza! Il problema è serio anche perché la pandemia, coi tanti guai, ha anche iniettato un boost al pensiero dell’uomo, alla stregua del protocollo vaccinale, rendendo evidenti due cose:

  1. che la teoria dell’effetto farfalla di Lorenz, postulato nel 1962, funziona realmente anche se la farfalla è un pipistrello, o quello che è stato, e il tornado texano è una pandemia mondiale;

  1. le basi di modelli matematici e di sviluppo su cui abbiamo costruito decenni di prosperità e altri decenni di illusioni forse andrebbero ripensate. Così come certe politiche nazionali e sovranazionali, ormai avvezze a misurare il consenso a colpi di like, hanno sancito che “il futuro non porta voti” ma ora ci rendiamo conto che “è meglio perdere i voti che il futuro”.

Abbiamo bisogno, quindi, di ripensare alcuni aspetti essenziali. I viaggi di lavoro non sempre sono necessari. Sono in buona compagnia quando azzardo che il 50% dei miei spostamenti degli ultimi 10 anni potevano essere sostituiti da una videocall con l’affidabilità e la familiarità che la pandemia ci ha consegnato. Lo stabilimento non è il luogo grigio dove si va a soffrire per guadagnarsi la paga, un “bancomat complicato” come lo definirebbe Luca De Biase. Può essere un posto bello, pulito, stimolante, costruito a misura d’uomo anziché provare a costruire uomini a misura di fabbrica. Non è fantascienza: alcuni stabilimenti di ultima generazione sono posti in cui si vive bene e anche grandi “pezzi di architettura”. L’energia è il punto chiave. Un terzo del metano che brucia in Italia serve a far girare turbine. E questo non va bene. Inutile produrre CO2 e piantare alberi o immetterla nel sottosuolo. Allora bisogna “agire smart”, pensare a investimenti a lungo termine giocando sui mix energetici e sulle smart grid. “Il vento soffia dove vuole” si legge nel Vangelo di Giovanni. Quell’energia va trasformata e conservata in quegli usi che non sono allineati temporalmente alle bizze del clima. E ricordare che l’energia più green è quella non consumata. Scommettiamo che chiunque di noi potrebbe risparmiare fino al 30% di energia solo modificando alcune abitudini e tecnologie?

I materiali e i processi giocheranno sempre una parte principale. Materiali ad alte prestazioni e processi innovativi consentiranno nel tempo di fare una delle cose che riesce meglio all’innovatore, che è una specie di mantra per ogni ingegnere: do more with less… I rifiuti saranno sempre più parte della produzione che sarà avviata in processi specifici, nulla si butta, tutto si valorizza per dargli una seconda vita, spremendo fino all’ultimo frammento di utilità. Non abbiamo la capacità di predire il futuro in modo compiuto, ma l’esperienza e la tecnologia sono asset di eccezionale valore nel business del futuro, al servizio esclusivo dell’uomo, quando lo spirito pervade le cose, trasfigurandole non già in oggetti ultraterreni quanto, piuttosto, sublimandone il ruolo per la costruzione di una società armonica.














Articolo precedenteViaggio tra i segreti industriali di Goglio, leader mondiale nel packaging (imballaggi e macchine) per il caffé
Articolo successivoThink Green: le 5 priorità di Lenovo per un data center più sostenibile






LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui