Industria 4.0, luci e ombre del piano del governo

Carlo Calenda, ministro allo Sviluppo
Carlo Calenda, ministro allo Sviluppo

di Laura Magna ♦ Il piano del governo da 23 miliardi per trasformare il sistema produttivo in Industria 4.0 è stato accolto bene dalle imprese. Anche se visto ai raggi X i margini di miglioramento non mancano.

Industria 4.0 in salsa italiana è realtà. I toni trionfalistici che hanno accompagnato la presentazione del ministro allo Sviluppo economico Carlo Calenda (foto in alto) trovano riscontro nel mondo dell’industria e della ricerca. E fanno ben sperare. Ma non mancano i dubbi per quello che appare fin da subito, pur nella bontà delle intenzioni, un programma fin troppo ambizioso per aderire al quale la nostra ossatura industriale industriale fatta di micro entità dovrà fare uno sforzo non indifferente.







Abbiamo i numeri

Ma partiamo dai numeri. Innanzitutto gli investimenti pubblici: 13 miliardi contro il mezzo miliardo degli Usa, gli oltre 10 della Francia e 1 miliardo della Germania, i pionieri di questo approccio alla quarta rivoluzione industriale. Che, forse non a caso, in tutti i tre casi prevedono che la diffusione delle tecnologie digitali nelle impresa avvenga per re-ingegnerizzazione pilotata dall’alto: dal governo nel caso francese, da altre imprese hi-tech per Usa e Germania. L’Italia lascia libera iniziativa alle sue Pmi, senza porre limiti di alcun tipo: né ai settori né alle innovazioni possibili. I tre citati sono solo alcuni dei programmi 4.0 avviati nel mondo: l’Italia arriva buona ultima dopo Canada, Regno Unito, Svezia, Cina, India e Giappone. Che non è entusiasmante ma neppure necessariamente un male visto che abbiamo l’occasione di imparare dagli errori dei pionieri. 

Area di stoccaggio
Area di stoccaggio

Obiettivi audaci

Il piano dovrà realizzare i suoi obiettivi entro 2020 e in sostanza questi obiettivi consistono in un aumento, nel solo 2017, di 10 miliardi, da 80 a 90, degli investimenti privati in innovazione; in 11,3 miliardi di spesa privata aggiuntiva in ricerca e sviluppo nel triennio e 2,6 miliardi di nuovi finanziamenti privati. Gli effetti di questa accelerazione negli investimenti potrebbero essere dirompenti sulla manifattura, che rappresenta una su 4 imprese italiane. Secondo l’ultimo rapporto Make in Italy (scaricabile qui) la trasformazione della manifattura in chiave digitale genererebbe 8 miliardi di valore delle produzione in più ogni anno, 4 miliardi in termini di valore aggiunto e 40mila nuovi posti di lavoro. Parliamo di una realtà che oggi produce nel complesso 570 miliardi di euro di giro di affari, divisi tra i 412 miliardi del made in tecnologico e i 158 di quello di consumo.

Partire dai banchi di scuola

Anche la scuola e l’Università partecipano alla rivoluzione e dovranno formare 200mila laureati, 1.400 dottorandi di ricerca e 3mila manager specializzati in industria digitale. Professionalità che si creeranno nei competence center, ovvero i Politecnici (Milano, Bari, Torino) la scuola Sant’Anna a Pisa, l’Università di Bologna e la Federico II a Napoli. 

La formazione sarà finanziata con 900 milioni, 700 pubblici e 200 privati, non solo nelle Università ma anche nelle scuole tecniche e via via a scendere fin dalle scuole elementari dove si cercherà di dare ai giovani studenti nozioni di pensiero computazione e, in sintesi, una forma mentis orientata al digitale. Fondamentale sarà lo sviluppo dell’architettura di sostegno: la banda ultra larga, il fondo centrale di garanzia, il sostegno al made in Italy, i contratti di sviluppo e lo scambio salario-produttività.

Assemblaggio di motori automatizzato
Industria 4.0, linea automatizzata

Punti deboli

E a questo punto, dai proclami si passa alla constatazione della realtà. Il piano sulla banda ultra larga, per esempio, esiste già: prevede 6,7 miliardi di fondi nazionali ed europei e quasi altrettanti di privati. Peccato che circa il 70% delle imprese italiane risieda su territori dove la banda larga è in regime di monopolio e, dunque, non c’è interesse a investire per potenziarla. Dunque gli investimenti languono e senza banda larga, quella che nel progetto governativo, è una delle infrastrutture abilitanti, non c’è digitale che possa vedere la luce.

Il ruolo dei privati

Sono proprio questi ostacoli strutturali a poter far saltare il banco. Ma anche sull’iniziativa privata delle imprese a cui è stata data ampia libertà di azione. Bisognerà capire se sapranno usarla. “Ora tocca alle imprese. Se non faranno gli investimenti avremmo perso non solo un’occasione ma rischieremo di fallire come Paese. E questo fallimento ci sarà se non saremo capaci di comunicare correttamente, parlo del governo ma anche di Confindustria, dei media, l’importanza di aderire al progetto 4.0. Il rischio del fallimento sta nella nostra incapacità di riuscire a comunicare alle imprese di non sottovalutare il rischio connesso di rimanere indietro, il digital divide è pericoloso. Chi non si adegua non ci sarà più”, nota a Industria Italiana Marco Taisch, professore di Sistemi di produzione automatizzati e tecnologie industriali al Politecnico di Milano e consulente per la Commissione europea sui trend tecnologici, che del piano del governo è entusiasta. L’awarness, la diffusione della consapevolezza di quanto la rivoluzione 4.0 sia importante, è un substrato rispetto alle azioni verticali, costa poco ma è fondamentale per la riuscita del piano, e lo è anche il fatto che “non sono stati individuati settori o tecnologie comenegli altri piani nazionali, che sono più dirigisti”, continua Taisch. “Questo lascia lo spazio all’imprenditore che vuole fare l’innovazione di avere lo strumento fiscale per farlo. Si tratta di un piano premiante per il piccolo imprenditore coraggioso e lungimirante. Ci sono previsioni specifiche per le pmi, per le multinazionali tascabili, leader nella loro propria micro-nicchia”. 

Marco Taisch
Marco Taisch

Incentivi e strategia

Il piano italiano si basa su cinque direttrici che daranno l’impulso alla rivoluzione digitale: operare in una logica di neutralità tecnologica; intervenire con azioni orizzontali e non verticali o settoriali; operare sui fattori abilitanti (ancora, la banda larga et similia); orientare su strumenti esistenti per favorire il salto tecnologico e la produttività; coordinare i principali stakeholder senza ricoprire un ruolo dirigista.

Ma la misura più interessante, al di là dei proclami, sembra essere quella relativa agli incentivi fiscali, appunto i 13 miliardi che fanno tanta specie nei titoli. “Non ricadranno tutti sulla legge di bilancio 2017”, ha anticipato Calenda. “Ma il piano è costruito su incentivi fiscali orizzontali. L’azienda li attiva nel suo bilancio, non deve fare domanda e aspettare che qualcuno timbri. Io incentivi a bando su tecnologia e innovazione non li faccio più perché abbiamo imparato che è il modo di non spendere”.

Sono due le misure di incentivo: l’iperammortamento, versione aumentata del superammortamento già in vigore, che passa dal 140% al 250% per l’acquisizione di strumenti 4.0. Il superammortamento con aliquota al 140% viene inoltre prorogato e allungati i tempi di consegna del bene, a tutto giugno 2018 per chi ordina e versa un acconto del 20% entro dicembre 2017.  Anche la spesa in ricerca è alleggerita con l’aliquota che riceve uno sconto del 50%.

Cambiare le macchine

L’occasione, insomma è ghiotta. Lo riconoscono in molti portatori di interesse dell’industria italiana, come Massimo Carboniero, presidente di Ucimo, l’associazione dei costruttori italiani di macchine utensili, robot, automazione e di prodotti a questi ausiliari che ritiene che “finalmente, con questo programma, il governo ha rimesso al centro della sua agenda la manifattura e, in particolare, l’industria dei sistemi di produzione”. Ed era quantomai urgente che avvenisse. Secondo uno studio sul parco macchine dell’industria italiana condotto dall’associazione ogni dieci anni (qui integrale) le macchine in dotazione alle nostre aziende sono di meno e più vecchie oggi di dieci anni fa. Nel 2014, l’età media era pari a 12 anni e 8 mesi rispetto ai 10 anni e 5 mesi e ai 12 anni e 7 mesi del 1984. Non solo. In dieci anni è cresciuta anche la quota di macchine con un età superiore ai 20 anni e si è dimezzata quella di macchine con meno di cinque anni. Anche il passo con cui è cresciuta l’automazione è diminuito. Tutti fattori che, per usare ancora le parole di Carboniero, “mettono a dura prova la competitività del sistema industriale italiano che rischia inesorabilmente di arretrare anche perché, nel frattempo le industrie dei Paesi emergenti si stanno dotando di sistemi e tecnologie di ultima generazione”. La legge Sabatini e il supermamortamento nel 2015 hanno contribuito a invertire la tendenza la tendenza, ma erano misure di emergenza necessarie ma non sufficienti. Resta da capire se lo sarà questa nuova struttura di supporto che le nostre aziende ora hanno a disposizione.

Le stime più attendibili (Gartner Group, ad esempio) prevedono che entro il 2020 ci saranno 20 miliardi di oggetti interconnessi
Le stime più attendibili (Gartner Group, ad esempio) prevedono che entro il 2020 ci saranno 20 miliardi di oggetti interconnessi













Articolo precedenteRocca: Industria 4.0 ultima chiamata per la manifattura lombarda
Articolo successivoPremi di risultato, accordo in Assolombarda






LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui