Il programma economico di Confindustria; investimenti pubblici per manifattura e grandi opere

di Marco de’ Francesco ♦ Tre obbiettivi: innanzitutto più lavoro, poi crescita e riduzione del debito. Da ottenere attraverso semplificazione burocratica, un grande piano di infrastrutture, rinnovamento dell’ istruzione, digitalizzazione delle imprese, un fisco che premi i virtuosi, e un’azione generale fortemente inserita nel quadro europeo. L’analisi dettagliata del documento finale delle Assise di Verona

Il punto essenziale è quello di una nuova dotazione infrastrutturale, per realizzare la quale occorre attivare sia l’Europa che le istituzioni nazionali. Perché si tratta di liberare risorse considerevoli, pari a 251,5 miliardi di euro in cinque anni, con l’emissione di eurobond, con l’obbligo per fondi pensione e casse di previdenza di investire dal 5% al 10% delle risorse in economia reale, con la compartecipazione al costo dei servizi pubblici dei contribuenti sulla base di fasce di reddito e con altre misure. D’altra parte, per Confindustria le infrastrutture sono la precondizione per la crescita, che è uno dei tre obiettivi, insieme a lavoro e riduzione del debito pubblico, che si intendono conseguire con il documento programmatico “La visione e la proposta” stilato da Confindustria e presentato ieri alle Assise di Verona. Tre missioni, da realizzare attivando al contempo sei leve, relative alla semplificazione burocratica, alla formazione, agli investimenti per le infrastrutture, alla digitalizzazione delle imprese, a nuove relazioni tra fisco e impresa e a una nuova governance di Bruxelles orientata allo sviluppo. Secondo Confindustria, se il piano fosse realizzato, gli effetti sarebbero importanti: per esempio, il rapporto debito-Pil scenderebbe di più di 21 punti, dall’attuale 131,6 al 110,5%. Rispetto allo scenario a politiche invariate, si tratterebbe di oltre 14 punti di Pil di minor debito, 170 miliardi di euro. Ma analizziamo il documento in dettaglio.







 

Dal documento finale delle Assise di Verona LA VISIONE E LA PROPOSTA
Primo obiettivo, più lavoro.

Si tratta di creare in cinque anni «almeno 1,8 milioni di posti di lavoro in cinque anni». E questo tramite l’aumento dell’occupazione di cinque punti nello stesso periodo; ciò abbatterebbe il tasso di disoccupazione sotto la soglia del 7%. Si parte da alcune considerazioni, legate allo “storico” in materia. «Tra il 2008 e il 2014 il tasso di disoccupazione è aumentato di 22,5 punti percentuali tra i 15-24enni e di 9,7 punti tra i 25-34enni, contro un aumento medio della disoccupazione di 6,6 punti. Nel 2016 un sesto dei 15-24enni era occupato, contro poco meno della metà in Germania (45,7%) e quasi un terzo nella media dell’Eurozona (31,5%).

Ancora più marcato il divario territoriale interno: nel 2016 tra i 15-24enni poco più di uno su dieci era occupato nel Mezzogiorno (11,8%) contro più di uno su cinque al Nord (21%)». Non è andata benissimo. D’altra parte ci sono altri problemi correlati. Per esempio, il mismatch tra domanda e offerta, soprattutto in riferimento ai giovani. E lo squilibrio di genere: nel 2016 il tasso di occupazione femminile era pari al 48,1 per cento, oltre 18 punti percentuali in meno degli uomini e più di 12 sotto la media europea, con ulteriori complicazioni nel Mezzogiorno. Come se ne esce? Secondo il documento di Confindustria, «con politiche premianti per chi assume, con un sistema di formazione più adeguato ai bisogni del mercato del lavoro, e con imprese più aperte ai mercati internazionali».

Secondo obiettivo, più crescita.

Si tratta di fare «almeno il 2% di Pil all’anno di media nei cinque anni». Praticamente, come la Germania tra il 2010 e il 2016. Se lo ha fatto la Germania, si legge nel documento, «è un obiettivo a portata di mano». Solo così, d’altra parte, si colmerebbe il gap tra l’Italia e gli altri Paesi europei, che si è approfondito in particolare nel 2012, quando abbiamo lasciato per strada 2,3 punti percentuali di crescita rispetto alle altre nazioni dell’Eurozona. Anche l’anno scorso, benché sia andata meglio, abbiamo perso qualcosa nella competizione: lo 0,9%. La soluzione per questo problema è da reperire, secondo il documento, «nelle semplificazioni, negli strumenti per la competitività e nell’internazionalizzazione, e infine nel sostegno dell’Europa per investire più e meglio creano le condizioni per crescere».

 

Dal documento finale delle Assise di Verona LA VISIONE E LA PROPOSTA

 

Terzo obiettivo, meno debito pubblico.

Nel 2017 è cresciuto di 36,6 miliardi, raggiungendo quota 2.256,1 miliardi. Il debito pubblico italiano fa spavento: in rapporto al Pil, vanno peggio Capo Verde, il Libano, la Grecia e il Giappone, che però ha un’altra economia. È un fattore che ci indebolisce: «Espone il Paese alle speculazioni e agli umori dei mercati finanziari che, spesso senza alcun preavviso, possono rendere costoso e complicato il collocamento dei titoli di Stato facendo salire, oltre alla spesa pubblica per interessi, anche il costo dei prestiti per imprese e famiglie». Secondo il documento, si tratta di ridurre il rapporto tra debito e Pil di «almeno 20 punti in cinque anni». Mission impossible? Non secondo Confindustria: «Non si tratta di fare drastici tagli di bilancio né di inseguire ricette miracolose. La strada maestra è un mix di avanzi primari, efficienza della spesa pubblica, politica dei fattori, relazione costruttiva con l’Europa, compliance fiscale».

 

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Dal documento finale delle Assise di Verona LA VISIONE E LA PROPOSTA
Primo asse, l’Italia più semplice ed efficiente. Una forte semplificazione.

Secondo il documento, «la burocrazia è ancora un freno e l’immagine che l’Italia proietta nel mondo è ancora quella di un Paese lento. Troppe regole, spesso solo formali, che generano oneri impropri e contenzioso, sono da eliminare: occorre assicurare la certezza del diritto quale primo fattore di competitività del sistema». E poi «abbiamo un processo decisionale farraginoso, che favorisce i veti e la polverizzazione delle competenze e delle responsabilità, ritardando il momento della decisione anche per evitare conseguenze sul piano delle responsabilità». Per non parlare dei tempi della giustizia. «Sono un freno agli investimenti. La Banca Mondiale ci ricorda che in Italia ci vogliono in media 3 anni per l’esecuzione di un contratto, più del doppio rispetto alla media dei paesi avanzati».

In vista della semplificazione, le cose da fare sono parecchie. In Confindustria, per esempio, sono convinti che con la compartecipazione ai servizi offerti dalla pubblica amministrazione le cose andrebbero meglio: ognuno dovrebbe essere chiamato a contribuire alla spesa in base alle proprie possibilità. Ciò, sempre secondo Confindustria, da una parte comporterebbe la generazione di risorse, dall’altra, per via della concorrenza, spingerebbe verso l’efficienza gestionale. Andrebbe poi risolta la questione del titolo V della Costituzione, per evitare conflitti tra enti territoriali e lo Stato. Alcune funzioni, dice Confindustria, andrebbero nuovamente centralizzate: «Infrastrutture strategiche, energia, comunicazioni, programmazione della strategia nazionale del turismo; commercio con l’estero; norme generali sulla tutela della salute».

Secondo asse, prepararsi al futuro: scuola, formazione, inclusione giovani.

Bisogna riformare l’istruzione superiore alla luce di esperienze straniere di successo. Questo cambiamento deve riguardare anche le università, che devono entrare nel circuito di quelle internazionalizzate. E poi bisogna puntare sugli Istituti Tecnici Superiori (ITS), che in Germania vanno fortissimo e che costituiscono un ottimo canale per l’occupazione: oltre l’80% dei diplomati trova lavoro ad un anno dal titolo.

 

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Un momento della presentazione del programma alle Assise di Verona
Terzo asse, investimenti assicurazione sul futuro.

È la partita più importante del programma. Quella degli investimenti. Quella della dotazione infrastrutturale che costituisce, secondo Confindustria, una precondizione per la crescita – oltre che un forte elemento di inclusione, collegando territori, le periferie ai centri, le città tra di loro, l’Italia al mondo. È rilevante per la coesione del Paese. Comunque sia, secondo Confindustria gli investimenti vanno realizzati con «un’azione coordinata tra settore privato, istituzioni europee, governo nazionale, regioni ed enti locali e basata su: programmazione e valutazione di effettive priorità di intervento; certezza di risorse pubbliche per investimenti e coinvolgimento di investitori privati di lungo termine; semplificazione delle procedure decisionali e di acquisizione del consenso; adeguamento della regolamentazione della domanda pubblica e della regolazione dei mercati dei servizi generati dalle infrastrutture».

Quarto asse, l’impresa che cambia e si muove nel mondo

Una parte delle imprese italiane è avanzata sulla strada della globalizzazione e della digitalizzazione. I risultati dimostrano il dinamismo di aziende che hanno aggredito i mercati con decisione: si pensi che negli ultimi tre anni l’export italiano è cresciuto del 7% nominale, a quota 450 miliardi. In termini percentuali, meglio della Germania e della Francia. Il piano Calenda, poi, sta producendo i suoi frutti. Ora però «il processo di trasformazione va accelerato e generalizzato, estendendone la portata al maggior numero di imprese per ridurre la divaricazione tra il 20% di imprese globali e il 60% di imprese pronte a fare il salto di qualità ma ancora non pienamente attrezzate. Alla politica spetta di individuare meccanismi di accelerazione di questi cambiamenti, per incentivarli e premiare le imprese virtuose e che rischiano nella trasformazione».

Quinto asse, un fisco a supporto di investimenti e crescita.

Bisogna rinnovare le relazioni tra fisco e impresa, anche in termini qualitativi, attinenti, cioè alla tutela dei diritti del contribuente e alla semplificazione del sistema erariale in genere. E poi la politica, in materia, deve essere coerente, immune da manovre volte solo a captare consenso politico. Ma soprattutto il fisco deve premiare i virtuosi, le imprese che investono, assumono, innovano e crescono, diventando sempre più strumento di competitività del Paese e leva di sviluppo per l’intera economia. Secondo Confindustria «l’ottica premiale va applicata anche ai lavoratori, che devono poter beneficiare adeguatamente degli aumenti di produttività e dei risultati economici positivi. I fattori di produzione devono essere lasciati quanto più possibili esenti da tassazione, per evitare distorsioni nelle scelte e per favorire quanto più possibile l’occupazione».

 

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Un momento delle Assise di Verona
Sesto asse, Europa miglior luogo per fare impresa.

Secondo Confindustria, nel Vecchio Continente si fronteggiano due posizioni opposte: da una parte Paesi europeisti come Francia e Germania, dall’altra i Paesi sovranisti dell’Est, che tendono a svuotare di significati il progetto comune. Bisogna, per Confindustria, ridurre al minimo le politiche caratterizzate un ambito di competenza mista. Inoltre, la governance di Bruxelles va ripensata in vista della crescita. «Si tratta allora di usare efficacemente le risorse disponibili nella logica della politica dei fattori, sostenendo ricerca, capitale umano, infrastrutture».

Gli attori. Perché il progetto riesca, serve il coinvolgimento attivo di imprese, Europa e le istituzioni nazionali.

Quanto alle prime, per Confindustria «per diventare primo Paese industriale d’Europa, è innanzitutto necessario raddoppiare la quota delle imprese esportatrici, visto che la parte più dinamica della domanda proviene oggi dai mercati esteri». E poi va colmato il divario tra il 20% di aziende dinamiche, digitalizzate e globalizzate, il 60% di aziende “galleggianti” e il 20% delle cosiddette “spiaggiate”. Quanto all’Europa, «la proposta di Confindustria non può non chiamarla in causa, perché le politiche europee condizionano direttamente e indirettamente il Paese. E poi, in un mondo che diventerà sempre più globalizzato e multipolare, solo nell’ambito dell’Europa si può aspirare a mantenere ruolo e influenza negli affari internazionali di fronte ai colossi (USA, Cina, India, Russia) che già si fronteggiano». All’Europa, peraltro, si chiede di contribuire alle infrastrutture. Quanto infine all’esecutivo e al Parlamento, «sono chiamati a accelerare i cambiamenti per fare dell’Italia una locomotiva e non un vagone del treno europeo».

 

Un momento delle Assise di Verona
Le risorse

Con l’emissione di eurobond, fino ad uno stock del 3% del Pil dell’Eurozona, si potrebbero liberare risorse per 93 miliardi di euro in cinque anni.Servirebbero a investire in infrastrutture, ricerca e innovazione, formazione. Introducendo l’obbligo per fondi pensione e casse di previdenza di investire dal 5% al 10% delle risorse in economia reale e ricalibrando i requisiti patrimoniali delle compagnie di assicurazione perché investano in titoli di capitale e debito delle imprese, nonché con altre operazioni, si potrebbero recuperare sino a 38 miliardi di euro. Infine, aumentando la compartecipazione al costo dei servizi pubblici dei contribuenti sulla base di fasce di reddito (per trasporti pubblici locali, sanità, scuola, università); introducendo l’obbligo di spending review di legislatura, con obiettivi pluriennali; e contrastando l’evasione fiscale, si potrebbero ottenere sino a 120 miliardi. Il primo anno, si recupererebbero 16,1 miliardi, il secondo 35,3, il terzo 52,7, il quarto 66,4 e il quinto 81.

Gli effetti

Quanto al Pil, aumenterebbe dell’1,9% il primo anno, del 2,1% il secondo; del 2,3% il terzo; del 2,4% il quarto e del 2,5% il quinto; per un totale dell’11,7% in cinque anni. Quanto agli occupati, la serie degli occupati, in migliaia, sarebbe questa: 23.316; 23.666; 24.021; 24.405; e 24.845 – con un aumento pari a 1.827,6. Quanto al debito pubblico, la percentuale sul Pil passerebbe dal 129,6% al 126,5; al 122,2%; al 117%; e infine al 110,5% – con una riduzione del 21,1%. Quanto all’export, crescerebbe del 4,3%, del 4%; del 4%, del 4,3% e del 4,4%, per un totale del 22,7%. Si parte dal presupposto, si legge sul documento, che «continuino ad operare gli strumenti che hanno favorito la crescita nell’ultimo anno, come il piano Calenda e il jobs Act».

 














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