Il manifesto della Business Roundtable sulle aziende che non devono solo far guadagnare gli azionisti: sciocchezze pericolose

di Filippo Astone ♦︎ L'associazione di ceo presieduta da Jamie Dimon di JpMorgan Chase ha emesso una serie di dichiarazioni salutate dai più come rivoluzionarie, ma in realtà banalissime, vuote di senso e di impegni. Non è solo marketing: c'è dietro l'idea che le aziende possano auto-governarsi e auto-controllarsi, facendo a meno di politica e Stati. Uno stimolo a rileggere "L'estensione del dominio della manipolazione", un ottimo saggio (Mondadori, 2008) di Michela Marzano

di Filippo Astone ♦︎ L’associazione di ceo presieduta da Jamie Dimon di JpMorgan Chase ha emesso una serie di dichiarazioni salutate dai più come rivoluzionarie, ma in realtà banalissime, vuote di senso e di impegni. Non è solo marketing: c’è dietro l’idea che le aziende possano auto-governarsi e auto-controllarsi, facendo a meno di politica e Stati. Uno stimolo a rileggere “L’estensione del dominio della manipolazione”, un ottimo saggio (Mondadori, 2008) di Michela Marzano

Lo scorso 19 agosto i media di tutto il mondo riferivano con la massima evidenza e serietà di una presunta rivoluzione aziendale ed economica contenuta in un manifesto della Business Roundtable, un think tank di 200 Ceo nordamericani presieduto da Jamie Dimon, numero uno di JpMorgan Chase. Della Business Roundtable (fondata nel 1972 dagli allora ceo di Alcoa e General Electric) fanno parte, tra gli altri, Jeff Bezos di Amazon; Tim Cook di Apple; Mary Barra di General Motors; Dennis Rollenber di Boeing; Larry Fink di BlackRock, Ginni Rometty di Ibm; Arne Morris Sorenson di Marriott; Randall Lynn di AT&T e un notorio filantropo come Doug McMillon, ceo di Walmart.

La rivoluzione della Business Roundtable (come si può leggere in originale qui) consisterebbe in questo: la creazione di valore per gli azionisti non deve più essere l’unico fine delle aziende. Le imprese, invece, devono anche “investire nei loro dipendenti, proteggere l’ambiente, comportarsi correttamente ed eticamente con i fornitori, creare valore di lungo termine per gli azionisti”.







E concentrarsi sulla qualità dei prodotti e dei servizi offerti. E “impegnarsi per continuare a generare valore per tutti questi soggetti, per il futuro successo delle nostre aziende, delle nostre comunità e della nostra nazione”. Tutto questo è stato presentato da Jamie Dimon come in antitesi a quanto dichiarato dalla Business Roundtable nel 1997 quando, sposando le teorie di Milton Friedman e della scuola di Chicago, il think tank aveva messo nero su bianco come l’unico fine dell’esistenza delle aziende consista nel creare valore per gli azionisti.

Il logo della Business Roundtable

Il manifesto della Business Roundtable è la fiera delle ovvietà: non esiste alcuna azienda al mondo che dichiari di inquinare, sfruttare e bistrattare i dipendenti, spremendo fino alla morte i fornitori. O di voler perseguire solo il valore a breve termine, infischiandosene di che cosa accadrà alla propria attività nel medio o lungo periodo. Oltre che banali, queste affermazioni (fatte da signori che in media guadagnano 254 volte quanto un loro dipendente) sono prive di qualsiasi impegno concreto in termini di obiettivi, strumenti, tempi, azioni. Stupisce come giornali e opinion maker di tutto il mondo abbiano accreditato questo nulla come se fosse qualcosa di concreto, un reale cambiamento, addirittura una rivoluzione.

In realtà, i generici impegni presi dai ceo della Business Roundtable sono solo le basi elementari (e non del tutto sufficienti) per creare valore a lungo termine per gli azionisti. Se esiste un contrasto, non è tra le presunte finalità “sociali” del manifesto e il mero guadagno degli azionisti, ma tra la distruttiva ottica di breve periodo (alla quale molti capi azienda sono tentati di aderire) e la costruttiva strategia orientata a una crescita solida e continua nel medio-lungo periodo. Oppure tra l’interesse a far crescere le dimensioni dell’azienda, cosa che tenta maggiormente i Ceo (è meglio guidare una società da 100 miliardi che di una da 10 miliardi) e l’interesse ad aumentare la redditività, che è più degli azionisti (è meglio una società da 10 miliardi che ne guadagna 2 che una da 100 miliardi che ne guadagna uno).

L’allora Presidente degli Stati Uniti Barack Obama tiene un discorso durante la Business Roundtable al BRT in Washington, D.C., Dec. 5, 2012. (Official White House Photo by Pete Souza)

L’azienda non può che massimizzare il valore per gli azionisti: se non lo fa, cessa di esistere. Il rispetto di dipendenti, clienti e fornitori è indispensabile per raggiungere questo obiettivo anche a medio-lungo termine. L’azienda, nel perseguire questa finalità, svolge già una importante missione sociale, perché crea lavoro, distribuisce ricchezza, investe in ricerca e sviluppo, paga (o dovrebbe pagare) tasse che servono a mantenere il welfare, cioé scuole, sanità, tutela dell’ambiente e sussidi ai più deboli. Inoltre, nel caso americano, azionisti importanti di queste large corporation sono fondi pensione dei lavoratori e fondi di investimento che investono i risparmi della classe media. L’azienda non può e non deve pensare al benessere dell’umanità, altrimenti andrebbe contro ai fondamentali ed etici interessi dei suoi azionisti, spendendo i loro soldi senza il loro consenso. La filantropia spetta i singoli azionisti, e infatti Bill Gates e Warren Buffett sono tra i più grandi benefattori dell’umanità, ma lo fanno con i loro soldi privati, e non con i fondi di Microsoft o di Berkshire Hathaway.

Il miliardario e filantropo Warren Buffett, numero uno del fondo Berkshire Hathaway

Le regole e gli atti di controllo sul comportamento delle aziende, il rispetto dei diritti di lavoratori e fornitori, la tutela dell’ambiente, il pagamento delle imposte che mantengono i servizi sociali indispensabili spettano solo alle autorità statali (o delle associazioni di Stati, che in un mondo globalizzato sono indispensabili per garantire il rispetto delle regole minime) e quindi alla politica. Che deve anche farsi carico delle sanzioni civili e penali per chi sgarra. Lo Stato è quel Leviatano che, per citare Thomas Hobbes, con il monopolio della forza deve garantire l’ordine, rendendo così possibili attività economiche e prosperità. E devono essere in larghissima parte gli Stati e le associazioni di Stati a farsi carico dei grandi problemi climatici e delle emergenze sociali e internazionali, a cominciare da alimentazione, istruzione, sanità, conseguenze di guerre e catastrofi naturali.

Che cos’è dunque il manifesto della Business Roundtable? Un banale papiello di pubblicità aziendale inoffensiva con la scusa dell’etica? Una campagna di pubbliche relazioni? Marketing delle banalità? Non solo, purtroppo. Dietro queste iniziative, e altre che si celano sotto la comoda e popolare coperta della “Corporate social responsibility” c’è l’idea, in sé assai pericolosa, che le aziende e gli operatori economici possano auto-governarsi, perché in fondo “conviene”. E che quindi non ci sia bisogno di scomode autorità statali, leggi, sanzioni, che, in fondo, frenano lo sviluppo economico e l’arricchimento. C’è tutta una retorica manageriale-aziendalista che va in questa direzione, e che negli ultimi 20 anni ha delegittimato la politica, con risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Si pensi ai grandi colossi del web e della tecnologia (alcuni dei quali sono soci della Business Rountable) che, in virtù della loro potenza multinazionale, si sottraggono a una equa contribuzione fiscale, contribuendo all’impoverimento generale.

Jamie Dimon, chairman e ceo di JpMorgan Chase e della Business Roundtable

A questo proposito, può essere di grande interesse riscoprire un grande libro della filosofa Michela Marzano, “L’estensione del dominio della manipolazione. Dall’azienda alla vita privata“, pubblicato da Mondadori nel 2008. Ne riproduciamo una selezione di estratti, per far capire meglio a tutti i nostri lettori – che sono in larga parte imprenditori, manager e dipendenti di aziende – la realtà in cui vivono.

La filosofa Michela Marzano

La retorica manageriale. «La nuova ideologia, ancorata alla retorica manageriale, capovolge l’ordine dei valori e consacra l’impresa, dispensatrice di lavoro, al rango di “istituzione sociale”, capace di restituire senso alla nostra società» (introduzione, pag. 15)

La strumentalizzazione dell’etica. «La parola “etica” molto spesso non è che un fiore all’occhiello, un espediente per evitare ogni autentica critica nei confronti della logica d’impresa» (pag. 78)

Le vere finalità della “Responsabilità sociale d’impresa”. La nozione di Responsabilità sociale d’impresa si basa sull’idea che le aziende debbano assumere responsabilità che vanno oltre il loro ambito diretto di azione. Rimanda quindi a una visione globale dell’azienda, il cui scopo non coinciderebbe più unicamente con l’accumulo di ricchezza, sua funzione originaria, ma con l’esigenza di trovare un equilibrio tra gli interessi degli azionisti e quelli della società. Cosa che permetterebbe – come spiegano alcuni ricercatori della rivista “Business and society” – di pensare i rapporti tra società. abiente e impresa in termini di integrazione (delle imprese nella società) e di equilibrio (tra imprese, società e ambiente), e non più in termini de legittimità e di controllo (della società sulle imprese). (pag 89)

Una scusa per sottrarsi al controllo dell’opinione pubblica. In realtà, l’argomento della responsabilità sociale delle imprese e l’etica degli affari permettono ai dirigenti d’azienda non solo di sottrarsi (o di sperar di sottrarsi) a movimenti sociali o mediatici che potrebbero rivelarsi estremamente faticosi, ma anche di garantirsi i favori dell’opinione pubblica interna (i dipendenti) ed esterna (i consumatori, le istituzioni). (pagina 90).

Si fa etica come si fa pubblicità. La maggior parte degli studi commissionati dalle aziende, del resto, si basano sul presupposto che “l’etica paghi” e danno per scontato che la buona condotta (reale o solo presunta) dell’azienda si tradurrà in un investimento redditizio. In questo quadro, l’annuncio conta di più del suo contenuto. Si “fa” etica un po come si “fa” pubblicità: si vende bene, e consente di attirare l’attenzione del grande pubblico. (pagina 91)

La copertina del libro della filosofa Michela Marzano

Sottrarsi al controllo della morale e della politica decretando le regole che si desidera seguire. «Decretando le regole che desidera seguire, la “azienda responsabile” si sottrae così in un sol gesto alla morale e alla politica. Con le sue dichiarazioni, le carte e i codici, l’azienda si pone progressivamente al di sopra di tutte le istanze esterne che potrebbero richiamarla alle sue responsabilità. Al fine di esibire l’immagine voluta, recupera una serie di concetti etici, sia perché è una “buona cosa” per i suoi prodotti, sia perché è un valido modo per sottrarsi ai vincoli imposti dalla società, la cui autorità rifiuta: la promessa di mostrarsi maggiormente responsabili verso l’ambiente, naturale e umano, può deviare l’attenzione del pubblico dalla necessità di regolamentazioni più severe». (pag 92)

Morale e politica governate dalle leggi del mercato?  «La novità di oggi è che anche la morale e la politica sembrano governate dalla legge del mercato, e non sembrano più dotate di esistenza autonoma». (pag 93)

Etica come strumento. «L’etica non diventa allora unicamente uno strumento per evitare decisioni che potrebbero spingere l’opinione pubblica a contrastare gli obiettivi dei padroni?». (pag 94).

Una retorica che fa dimenticare le regole per promuovere il bene comune. «Questa retorica dell’etica degli affari, inoltre, distoglie l’attenzione da una questione ancora più cruciale: quella di stabilire nuove regole in grado di promuovere il bene comune, impedendo così all’universo aziendale di prendere in ostaggio la politica».  (pag 95)

Alla base di queste strumentalizzazioni c’è la crisi di senso del mondo contemporaneo. «La retorica manageriale si regge sulla crisi di senso che invade il mondo contemporaneo. (pag 104).  Non si tratta più soltanto di manipolare interessi o emozioni: qui siamo in presenza di un discorso che punta a creare nuovi “significati” che avranno ricadute ben precise e conseguenti. Lo scopo è quello di persuadere che l’azione richiesta ha a che fare direttamente con la creazione di senso: senso della vita, senso dell’essere al mondo…» (pag. 136)














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