Il Decreto Crescita non potrà fare miracoli

di Laura Magna♦Nel Paese dove  l’attività del settore manifatturiero ha toccato i  nuovi minimi da quasi sei anni (dati Ihs Markit), con un calo drammatico degli investimenti delle Pmi, risaltano delle anomalie, come la stasi del mercato immobiliare e la crescita dell’occupazione. Difficile ridare slancio alla manifattura. L’analisi e la ricetta del professor Francesco Daveri della Bocconi

I dati sono freschi freschi. A marzo, secondo Ihs Markit  l’attività del settore manifatturiero in Italia ha toccato i  nuovi minimi da quasi sei anni, con un ribasso a 47,4 punti da 47,7 di febbraio. I nuovi ordinativi hanno evidenziato un ribasso 44,9 da 46,1 di febbraio, toccando il livello più basso da aprile 2013. «La produzione è diminuita per l’ottavo mese consecutivo – sottolinea la multinazionale che si occupa dell’analisi dei dati di mercato – che rileva  come « i nuovi ordini si sono contratti al tasso più veloce in quasi sei anni. L ‘ottimismo, pur rimanendo positivo è sceso leggermente rispetto a febbraio». In europa le cose non vanno molto meglio. Sempre lo stesso istituto rileva come « A marzo il quadro negativo del settore manifatturiero, in realtà, riguarda anche la “locomotiva” tedesca – in netto calo a 44,1 – e tutta l’Eurozona dove l’indice Pmi è crollato a 47,5 a marzo, dal 49,3 di febbraio, attestandosi al livello più basso da aprile 2013 (47,5)». Tutti questi dati vanno a confermare un quadro che vede l’industria in difficoltà nel quadro complessivamente negativo dell’economia nazionale.

«Non parlerei di recessione e non la vedo all’orizzonte nel breve periodo: l’evidenza è che per due trimestri l’Italia ha segnato un calo dello 0,1% e un’inversione di tendenza rispetto a un percorso di ripresa innescato tre anni e mezzo prima. Siamo tornati sul sentiero dello zero virgola, inserito peraltro in un contesto di generale debolezza: per uscirne è necessario ripristinare la fiducia sui mercati, il fattore scatenante degli investimenti. Ma non esistono ricette miracolistiche». A dirlo a Industria Italiana è Francesco Daveri, Professore di macroeconomia presso la School of Management della Sda Bocconi. Che spiega come nella fase precedente all’attuale stagnazione ci siano alcune anomalie (per esempio la mancata risalita dei prezzi immobiliari che normalmente caratterizza ogni ripresa) e perché il mercato del lavoro, in maniera apparentemente del tutto incoerente con il contesto, si mostri in tenuta mentre tutti gli altri fattori chiave, dall’industria agli investimenti colano a picco.







 

Francesco Daveri, Professore di macroeconomia presso la School of Management della Sda Bocconi, foto di Niccolò Caranti

I numeri del disastro italiano e la crisi dell’industria

Ma partiamo dai numeri che disegnano lo scenario attuale. Ovvero quelli previsionali di Confindustria, ma anche i recenti aggiornamenti dell’Istat: il Pil, che nell’ultimo trimestre del 2018 ha segnato un calo dello 0,1% sul trimestre precedente ed è risultato flat anno su anno  (e si attende che stazioni a -0,2% anche nel primo trimestre 2019). Intanto anche il Centro Studi di Confindustria  ha rivisto al ribasso le stime sul Pil per il 2019: zero rispetto al +0,9 indicato lo scorso ottobre.

 

Le previsioni di Confindustria

 

Cosa c’è dietro questo peggioramento? Il dato, innanzitutto, si inserisce in un trend che coinvolge tutta l’Europa (nel quarto trimestre la crescita di Eurolandia si è attestata a +0,2%) e discende direttamente dal crollo della produzione industriale che ha visto il valore aggiunto segnare una diminuzione congiunturale di mezzo punto mentre  l’Indice Pmi è entrato in territorio negativo, sotto la soglia di 50 che indica decrescita. In controtendenza, i servizi che crescono moderatamente (+0,1%), l’export che segna un incremento dell’1,3%. E, soprattutto, il lavoro: l’occupazione italiana, sempre secondo Istat, ha mostrato una sostanziale tenuta nel 2018, che prosegue anche a gennaio 2019. L’aumento dello 0,1% si riferisce a 21 mila nuovi posti di lavoro: sono i dipendenti permanenti (+56 mila) ad aver trainato la crescita, mentre si osserva un calo dei dipendenti a termine (-16 mila) e degli indipendenti (-19 mila).

 

Istat: nota mensile febbraio 2019

Nel 2019? Impensabile spostarsi dallo zero virgola

«Credo che nel 2019 la crescita sarà un po’ più positiva di quanto si attende oggi. Le banche centrali hanno corretto il tiro sulla politica monetaria, orientandola in chiave dovish, e questo ha già ripristinato la fiducia sui mercati e dovrebbe controbilanciare i venti negativi. Ma per l’Italia non si va oltre il +0,2%, che è una variazione prossima allo 0: è impensabile che possiamo produrre un +1%. Il governo dovrebbe fare un Def prudente, non lanciarsi in promesse avventurose e cercare di adottare una posizione attendista nei prossimi mesi. Senza illudersi che le elezioni europee, anche se dovessero prevalere i partiti euroscettici, possano avere un effetto dirompente sulle linee degli Stati», dice Daveri, intendendo che nessun partito anti-establishment tedesco consentirebbe mai, per esempio, all’Italia o alla Grecia, quelli che erano stati definiti in maniera eloquente i Pigs, sconti sul deficit.

 

Istat, nota mensile di febbraio 2019

La recessione industriale e l’anomalia immobiliare

I numeri dunque dicono molto di quello che sta accadendo, ma non tutto. Rileva, senza dubbio, che la frenata della crescita derivi dall’industria che è ancora la seconda più importante d’Europa, nonostante la perdita di un quarto del proprio valore dall’inizio della crisi. «La produzione industriale è andata male per vari mesi, c’è stato un segno positivo in gennaio ma in realtà i dati sono stati decisamente negativi da luglio 2018: quindi abbiamo archiviato un semestre di recessione industriale. A controbilanciare ci sono i servizi che continuano a essere moderatamente positivi. La stagnazione del Pil è il risultato di queste due forze contrapposte». Ma per spiegare la parabola attuale, secondo Daveri, si deve ricorrere anche quelle che nel ciclo che si avvia a conclusione almeno per il nostro Paese, sono delle anomalie.

«In tutte le fasi di ripresa, il mercato immobiliare accompagna il ciclo economico, infatti i prezzi delle case sono i primi a ripartire. In questo caso questi numeri positivi nono sono mai arrivati. Sono ripartite le compravendite e i mutui a confortare il trend di ripresa. Ma i dati dicono che dal 2015 a tutto il 2017 i prezzi sono rimasti costanti e nel 2018 sono addirittura scesi. Le compravendite attuali si realizzano a prezzi inferiori rispetto a quelli di cinque anni fa: ma, in conclusione, l’immobiliare non ha fatto la sua parte nella fase precedente di crescita della congiuntura e questo ha impedito che la ripresa si consolidasse. Inoltre, ha trainato al ribasso anche il settore delle costruzioni, che all’immobiliare è ovviamente legato e che insieme alla manifattura è stato il peggiore nell’ultimo semestre».

 

Milano, skyline
L’andamento del mercato immobiliare ha influito negativamente sul ciclo economico. Milano, skyline
Manca all’appello il 20% degli investimenti pre-crisi

E, se non bastasse, persiste il problema della carenza di investimenti diretti: «Fatti pari a 100 gli investimenti prima della crisi, dopo le due recessioni del 2009 e del 2013 il loro valore era di 70, ovvero si registrava un calo del 30%. Tra il 2015 e la prima metà del 2018 hanno invece recuperato il 16%. Per recuperare per intero il 30% ci sarebbero voluti altre 2 o 3 anni di ripresa che potrebbero non esserci. Da un lato perché, per esempio, stavano ripartendo gli investimenti in macchinari, grazie al piano industria 4.0 che ha lasciato un segno importante in termini di modernizzazione degli impianti, ma che è stato interrotto dal nuovo governo più sulla base di una volontà di creare discontinuità rispetto al passato che per una convinzione. Adesso il Decreto Crescita mira a rabberciare misure che possano aiutare a fare ripartire investimenti pubblici o privati. Ma è difficile con l’economia indebolita e i consumi che scendono che gli imprenditori si mettano a investire».

 

 

La tenuta del mercato del lavoro? Effimera

Il mercato del lavoro, in controtendenza rispetto a tutti i dati rilevanti, ha segnato un valore positivo: nel corso del 2018, è proseguita la crescita delle unità di lavoro totali (+0,8% da +0,9% dell’anno precedente) ancora una volta trainata da quelle dipendenti (+1,3% rispetto a +2,0% del 2017). Inoltre, nel 2018 il miglioramento dell’occupazione è stato accompagnato da un sensibile aumento delle retribuzioni lorde per unità dipendente rispetto all’anno precedente (+1,7% e +0,3% nel 2017), superiore alla crescita del deflatore della spesa delle famiglie residenti (+1,1% sia nel 2018 sia l’anno precedente).

«Però il mercato del lavoro, per quanto sia più importante dal punto di vista sociale rispetto al Pil, viene dal punto di vista logico dopo», spiega Daveri: «Se c’è produzione industriale, i fatturati aumentano e arrivano gli utili e questo induce a investire e ad assumere gente. Questo vale sia nelle espansioni sia nelle recessioni. Quindi, c’è uno stop dell’economia, ma il mercato del lavoro va bene perché le assunzioni fatte oggi erano state programmate in precedenza. Allora il dato non può essere interpretato come un trend: non può durare se non ripartono i fatturati e la produzione industriale. Per far sì che diventi qualcosa di strutturale è necessario agire per consolidare la crescita economica. Né si può pensare che il Decreto Dignità sia sufficiente: avrà effetti piccoli, potrà marginalmente indurre qualche azienda a convertire tempi determinati in indeterminati e avere un affetto negativo sull’attivazioni di tempi determinati. Da qui a parlare di consolidamento del mercato del lavoro ce ne passa».

 

Istat: l’andamento del mercato del lavoro

Ripristinare la fiducia per dare gas alla crescita

In assenza di crescita economica, insomma, non c’è sviluppo. E senza fiducia non c’è crescita economica perché vengono meno gli investimenti, le assunzioni, i consumi. Come se ne esce? «Non esistono ricette miracolistiche:se dovessi suggerire una linea, comincerei a non creare nuovi dissidi con l’Europa e con mercati, presentando manovre fiscali che indicano che il deficit non aumenta il debito. Laddove le regole dell’economia possono rompersi, l’algebra al contrario funziona sempre allo stesso modo. Se il Paese ha già il 132% di deficit nel 2018, se faccio debito alla fine del 2019 avrà il 133% o di più. Dobbiamo evitare di infilarci in tunnel simili a quelli già sperimentati a ottobre-dicembre, poi sistemati con l’approvazione di una Legge di bilancio molto più prudente di quella presentata all’elettorato. Già questo eviterebbe un aumento dell’incertezza che fa male a consumi durevoli e a investimenti. Se invece non sanno bene cosa succederà, le famiglie e le aziende risparmiano per stare al riparo da eventuali scenari negativi. Bisogna offrire una visibilità a medio termine per fare i budget».

 

Attesa per il Decreto Crescita. Il Ministro del lavoro e dello Sviluppo Economico, Luigi Di Maio (foto di Mattia Luigi Nappi)
La necessità di riforme strutturali (che funzionano solo sul lungo termine)

Più strutturalmente, sarebbe invece necessario «pian piano ridurre il carico fiscale non aumentando la spesa corrente e dedicando le risorse a spese per investimenti pubblici, che sono durevoli: questo può essere un aiuto alla crescita. Ma vale la pena ribadirlo, i miracoli non si possono fare». Dunque, vale la pena sottolineare anche che le riforme «per quanto necessarie ma non hanno un effetto rapido sulla crescita economica. Parliamo di cambiamenti strutturali per indurre l’economia a intraprendere un sentiero virtuoso. Invece spesso sono presentate come misure dotate di un potere taumaturgico: hanno l’effetto, per restare nell’esempio della riduzione del carico fiscale, di peggiorare il deficit ma migliorare il funzionamento dell’economia da qui a 5-10 anni. Se invece si fanno le riforme ma non si dà sostengo all’economia si perde anche il consenso politico».














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1 commento

  1. Ho sempre l’impressione che alla nostra crescita manchi la quota prodotta dalla PA, come invece accade e si conteggia in altri Paesi, Usa, Francia, Germania, Inghilterra, Olanda e Paesi nordici su tutti. La nostra burocrazia in uno studio della Confindustria di Merloni accresceva dell’otto% i costi di impresa, invece che ridurli. E se si facesse oggi un aggiornamento a quel report che cosa ci direbbe?

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