Il Ceo contemporaneo deve agire anche in base alla geopolitica, altrimenti…

di Filippo Astone e Luigi Dell’Olio ♦ Michele Parisatto, capo di Kpmg Advisory, spiega perché vanno considerati i fattori politici e internazionali, e come muoversi per integrarli nel business plan e nelle decisioni da prendere ogni giorno. A margine del progetto Macrotrends 2018 di Hbr

«Per il Ceo contemporaneo non è sufficiente la concentrazione totale sul proprio business. Per garantire competitività alla sua struttura deve interpretare i segnali che arrivano sul fronte geopolitico e decidere anche in base ad essi». Michele Parisatto, managing partner di Kpmg Advisory, delinea così l’evoluzione in atto tra i capi azienda. Evoluzione di cui è indispensabile prendere atto, pena l’esposizione a rischi che potrebbero essere difficilmente sopportabili. Certo, il ricorso a tematiche extra manageriali non è nuovo nel mondo della consulenza, basti pensare alle numerose riletture di Sun Tzu  “L’arte della guerra”, e anche il binomio tra geopolitica e business non è una novità assoluta. Però, sottolineare la centralità della prima per chi ha come priorità far funzionare una grande organizzazione orientata al profitto cambia la prospettiva rispetto a quanto si è visto finora.

Del resto, negli ultimi tempi il mondo del business si è misurato con la Brexit, con i dazi e le sanzioni di Donald Trump, con i sovranismi europei e i mutamenti politici in Asia, con i cambiamenti climatici (sono di soli pochissimi giorni fa le piogge torrenziali in Veneto, con conseguenze gravi per molte imprese). Il tema è stato discusso nell’ambito della presentazione del terzo rapporto sui macrotrend dell’Harvard Business Reviews Italia, avvenuta presso The Ruling Companies, a Milano. L’incontro di Industria Italiana con il capo della consulenza di Kpmg è avvenuto in quel contesto. Il rapporto, di cui diremo più approfonditamente nei riquadri al fondo di questa pagina, vede quattro drivers principali nell’ambito dei macrotrend 2019. Il primo e più importante è quello tecnologico. Poi ce ne sono altri tre, intrecciati fra loro. Si tratta dei cambiamenti climatici, del quadro economico (crescita meno dinamica, maggiori conflitti commerciali, più che probabili turbolenze in campo finanziario e borsistico) e del quadro internazionale (crescenti tensioni fra grandi potenze, minacce di disintegrazione di accordi sovranazionali e alleanze, rischio di tenuta dell’Unione Europea).







 

Michele Parisatto
Michele Parisatto, managing partner di Kpmg Advisory

Molte aziende stanno soffrendo o potrebbero farlo a causa di una gestione dei rischi inefficiente

«Il contesto attuale è completamente diverso rispetto a quello passato», spiega l’esperto. Che cita due tra gli esempi più lampanti dei cambiamenti in atto. «Pensiamo all’impatto in termini di reputazione che ha avuto il crollo di un ponte a Genova su una nota azienda di concessioni autostradali. Complice la crescita dei canali di comunicazione, con un ruolo sempre più centrale rivestito dai social network, si è creata una campagna molto negativa che ha evidenziato i limiti della metodologia di risk management messa in piedi dalla stessa aziende. Sicuramente un piano di questo tipo sarà stato approntato, ma non tale da poter minimizzare l’impatto in caso di eventi drammatici come questo».

 

ll Ponte Morandi dopo il crollo, visto da Est, panoramica ( foto di Michele Ferraris). Per Parisatto l’evento con le sue conseguenze in termini di reputazione per l’azienda coinvolta è un esempio dei cambiamenti in atto di cui tenere conto

 

Cambiano gli equilibri a livello globale e i ceo ne devono necessariamente tener conto

Il secondo esempio citato da Parisatto riguarda invece i sistemi politici. «Per lungo tempo siamo stati abituati a credere che lo sviluppo economico procedesse in parallelo con quello delle democrazie liberali e invece oggi notiamo come lo sviluppo della Cina stia mettendo in crisi queste convinzioni». Nello scenario attuale, sottolinea il numero uno di Kpmg Advisory, «si affermano personaggi politici dotati di un’identità e con idee forti, che mettono in discussione i pilastri della globalizzazione contemporanea, incentrata sull’abbattimento delle barriere come strada maestra per sviluppare i commerci e il benessere».

Se in passato gli equilibri politici erano frutto di scelte di compromesso con tempi di gestazione lunghi e delicate attività diplomatiche, ricorda ancora l’esperto, oggi la politica è “istantanea” e riflette sempre più spesso gli umori contingenti. Ne consegue che, come dimostra la ricerca internazionale di Kpmg “2018 Global Ceo Outlook”, confrontarsi con la geopolitica è divenuta tra le priorità strategiche dei chief executive officer. Nella consapevolezza che questo non significa solo entrare in contatto con i rappresentanti delle istituzioni, ma soprattutto adeguare il business plan al contesto, gestire adeguatamente il risk management e avere risposte pronte al verificarsi di emergenze e imprevisti.

 

Parisatto: oggi la politica è “istantanea” e riflette sempre più spesso gli umori contingenti. Nella foto un tweet del Presidente Usa a commento delle affermazioni del suo omologo francese

 

Le aziende sono divenute attori protagonisti della geopolitica

Come emerge dai dati raccolti da Global Justice Now, ormai il 69% delle entità economiche più ricche al mondo non è rappresentato da Stati, bensì da grandi aziende. In sostanza, è il ragionamento di Parisatto, le aziende sono divenute attori protagonisti della geopolitica e sono chiamate a muoversi di conseguenza. «Sempre più spesso si assiste a porte girevoli tra business e politica», sottolinea. «Molti business leader di frequente commentano in tempo reale le loro idee sui temi politici del momento e poi va rimarcato che molti cda hanno ormai maturato competenze nella gestione di rischi non convenzionali». La geopolitica è una variabile fondamentale con cui misurarsi, soprattutto nelle scelte di investimento. Quindi occorre un approccio diverso nella gestione delle aziende, «per cui la politica entra nella stanza dei bottoni dei consigli di amministrazione, insieme alle scelte più importanti e strategiche per il business».

Parisatto ricorda che i capi azienda sono chiamati a prendere la leadership di questa trasformazione e a ricoprire personalmente il ruolo di chief geopolitical officer (cgo), «azionando le leve opportune come il ricorso ad approfondimenti e pareri di specialisti e ad analisi di stress test per focalizzare l’attenzione dell’organizzazione su un tema sempre più rilevante come la gestione dell’incertezza politica». Se questo è il percorso da seguire, l’esperto riconosce che le aziende e i consigli di amministrazione sono storicamente poco inclini ad accettare che i cambiamenti nelle condizioni di contesto esterne possano essere all’origine del mancato raggiungimento di obiettivi e risultati, e questo frena la presa delle decisioni necessarie. «Molte aziende, ad esempio, i cui profitti sono stati negativamente influenzati dalla volatilità della sterlina inglese a seguito dell’esito del referendum sulla Brexit riferiscono di aver discusso a lungo, a livello di consiglio di amministrazione, su come avrebbero potuto prepararsi e proteggersi meglio rispetto a questo evento«, spiega. Evidentemente, quindi, le discussioni non hanno prodotto le scelte giuste.

 

Il testo di Sun Tzu, “L’arte della guerra”, ha ispirato molte riletture nellp0 ambito del mondo della consulenza manageriale

 

Strategie da attuare

Numero uno: dotarsi di un Chief geopolitical officer (Cgo) che potrebbe coincidere col Ceo.

Come muoversi, quindi, per cavalcare e non subire i cambiamenti in atto nel mercato che vedono un legame sempre più stretto tra business e geopolitica? Il managing partner di Kpmg Advisory indica tre regole da attivare. La prima è «individuare un chief geopolitical officer, cioè un membro della leadership aziendale, che abbia al massimo un solo riporto gerarchico all’interno dell’azienda per quel che riguarda gli impatti della politica sugli interessi del business». Lavorando a stretto contatto con gli esperti (i membri degli uffici delle relazioni pubbliche/istituzionali) e gli analisti (in particolare, quelli di rischio e di strategia), potrebbe avere una visione olistica dell’azienda. «È un ruolo che dovrebbe essere ricoperto dal ceo in persona», aggiunge. Dunque non basta più dotarsi di un ufficio di relazioni pubbliche/istituzionali. «Ormai questa struttura è solo un pre-requisito, perché i professionisti del settore sono molto efficaci quando i temi sono ben definiti, le linee di ingaggio con il governo sono chiare e le controparti governative si mostrano collaborative. In situazioni non lineari, è fondamentale l’intervento del capo azienda».

Strategia numero due : analisi di stress test di geopolitica

La seconda strada da seguire è realizzare analisi di stress test di geopolitica. «Avere il polso della situazione sui livelli di attività ed esposizione aziendale rispetto agli avvenimenti geopolitici è uno strumento importante, oltre che utile. L’unico modo per ottenerlo è realizzare analisi di stress test di geopolitica sulla strategia e sulle attività pianificate», dice l’esperto. Un esempio per comprendere meglio il concetto? «Potenzialmente tutte le aziende sarebbero pesantemente impattate da un’interruzione della rete dei trasporti e delle comunicazioni, che è uno scenario anche piuttosto verosimile in un contesto di aumentata tensione geopolitica. L’analisi di stress test potrebbe contribuire a valutare puntualmente l’impatto di questo evento disruptive». Nella ricetta di Kpmg il ceo potrebbe prendere in considerazione il business plan triennale e creare un modello che contempla i diversi scenari possibili per avere una migliore consapevolezza sull’esposizione e la resilienza dell’azienda a questi scenari, sia a livello finanziario, sia di business.

Strategia numero tre : implementare un modello di previsione e monitoraggio geopolitico

Il terzo passaggio consiste nell’implementare un modello di previsione e monitoraggio geopolitico, in modo da andare al di là delle informazioni disponibili dai mass media e investire in previsioni specializzate in geopolitica e competenze di monitoraggio. «Anche se può sembrare vantaggioso avere copertura stampa, informazioni e analisi di facile accesso e gratuite, è proprio il flusso continuo di notizie e commenti a rendere complessa l’attività di analisi per capire l’autenticità e la rilevanza delle informazioni», spiega Parisatto. «Per questo sono disponibili sul mercato strumenti che aiutano le aziende a tradurre le issue politiche in implicazioni aziendali». Quindi, in sostanza una serie di cambiamenti che impongono di rivedere a fondo i modelli organizzativi aziendali, a cominciare dal Ceo che deve rimettersi in gioco e pensare diversamente, puntando a mettersi in connessione con soggetti interni ed esterni alla sua struttura per agire in modo efficace.

 

I cambiamenti climatici sono sempre più da tenere in considerazione nell’individuazione dei fattori di rischio per il business

 

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Ceo e top manager alle prese con l’incertezza globale nel mondo dei Big Data

I fenomi atmosferici delle ultime settimane sono un avvertimento. Parlano Lamborghini e Stefano Venier, che commentano i dieci macrotrend individuati da Hbr

L’era dell’incertezza si riflette sull’operato quotidiano dei manager, e quindi sulle scelte delle imprese, imponendo un ripensamento delle strategie fin qui seguite per non restare schiacciati nella competizione globale. E’ questo il dato di fatto emerso dal rapporto sui macrotrend, dagli articoli pubblicati da Hbr per commentarlo e dal ricco dibattito presso The Ruling Companies. Per esempio Bruno Lamborghini, economista industriale, già dirigente Olivetti, presidente di Nomisma e past president di Aica, dice: «I fenomeni atmosferici violenti delle ultime settimane sono un avvertimento: ignorare ancora le conseguenze del surriscaldamento globale significa esporre la società in generale, e anche le aziende, a uno scenario in cui l’incertezza diventa la norma».

Non si tratta, avverte, di lasciarsi andare al catastrofismo, che pure domina in alcune riflessioni degli analisti, ma di considerare quello che avviene nel mondo per prendere le decisioni di business e organizzative conseguenti. «Oggi la realtà è dominata dai dati: pensiamo ai social, ai blog e anche agli smartphone che ciascuno di noi porta in tasca», spiega Lamborghini. «Abbiamo a disposizione un patrimonio informativo straordinario, ma c’è anche il rischio di perdere il controllo sui nuovi flussi che si creano. Non dimentichiamo che la tecnologia non è mai neutra: c’è chi la utilizza per business e chi per ragioni politiche. A quest’ultimo proposito pensiamo solo al caso del governo cinese, con il suo programma di schedare i cittadini tramite sistemi di riconoscimento facciale».

Il grande problema, sottolinea l’esperto, è che «in genere come utenti siamo passivi rispetto all’evoluzione tecnologica, come lo stiamo verso gli algoritmi e i logaritmi che entrano nelle vite di tutti noi». Un insieme di novità che rientrano nel trend identificato come digital disruption, che si sta manifestando nel mezzo di quella che Lamborghini definisce come «tempesta perfetta», caratterizzata da altri fenomeni di portata storica come il processo di invecchiamento della popolazione, l’iperfinanza e la crescita di peso nella vita dei singoli e delle aziende da parte della geopolitica. «Cresce la complessità e diventa sempre più difficile muoversi in questo contesto».

Il Progetto Macrotrends 2018

Tutto queste riflessioni sono state svolte nell’ ambito della presentazione del Progetto Macrotrends 2018, curato da Harvard Business Review. La pubblicazione ha individuato dieci temi di rilievo per il 2019: gli equilibri geopolitici globali sempre più precari a fronte della crescente incertezza a livello internazionale; l’ulteriore allentamento degli accordi internazionali e dell’integrazione, oltre a quanto si è già visto negli ultimi mesi; la fine della fase di espansione monetaria, con il graduale irrigidimento delle scelte da parte delle banche centrali; lo sviluppo esponenziale delle tecnologie digitali e la crescente applicazione degli strumenti connessi; l’automazione, sotto i diversi aspetti del machine learning, dell’intelligenza artificiale, con i problemi etici legati al rapporto uomo-macchina; l’aggravamento dei temi legati a sicurezza e privacy, oltre che al cyber-crime; l’innovazione nei modelli di business abilitati dal digitale; l’impatto di robotica e intelligenza artificiale sul lavoro; gli effetti sociali e finanziari legati all’allungamento della vita media; infine le conseguenze del cambiamento climatico.

«Le criticità sono in forte aumento«, è la sintesi del direttore della rivista Enrico Sasson. «Viviamo in un contesto di bruschi cambiamenti dai quali non è certo opportuno farci sorprendere». Proprio le criticità legate ad ambiente, sostenibilità e governance sono tra i maggiori motori del cambiamento in aziende, a maggior ragione per le realtà che operano in un settore come i servizi di pubblica utilità. «Ai cambiamenti è necessario reagire in maniera proattiva, attraverso l’adozione di prassi evolute di Enterprise risk management (Erm)», è la convinzione di Stefano Venier, amministratore delegato di Hera. «Questo significa agire su due livelli: azioni di business e azioni di mitigazione. Per chi opera in un settore come il nostro, a mio avviso l’unica risposta è dar vita a un’azienda rigenerativa, che minimizzi l’impiego delle risorse naturali e si muova in direzione dell’economia circolare, dove i prodotti, una volta arrivati a fine vita, non finiscono tra i rifiuti, ma tornano nel ciclo economico». Un obiettivo che impone una revisione a fondo dei modelli organizzativi. «Il ceo ormai deve essere tante cose: sapere di finanza, essere flessibile, saper interloquire con diversi soggetti…per certi versi possiamo definirlo un chief every officer«, è la sua conclusione. «Spetta a lui governare il cambiamento in direzione di una gestione del risk management che consenta di minimizzare i rischi e l’impatto quando i danni si verificano».














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