Stefano Venturi, Hpe: il Next Generation Cloud tra filiera italiana delle tecnologie e pubblica amministrazione

di Filippo Astone e Renzo Zonin ♦︎ Seconda parte dell'approfondita conversazione con il numero uno di Hpe Italia sul tema della gestione dei dati in un mondo in cui sono il motore di tutto. Proposto un cambiamento organizzativo che renda possibile dislocarli on edge, presso il proprio data center o in un data center esterno. Le tre possibilità possono convivere, pagare solo quanta capacità elaborativa si consuma: l'everything as a service è anche questo. Lato aziende, vuole evitare il legacy lock imposto da grandi cloud centralizzati, che soffocherebbe la filiera italiana dell'it. Lato Pa, si coniugherebbe l'efficienza con la necessità di mantenere la proprietà dei dati sensibili

Stefano Venturi, presidente di Cefriel

Nella prima parte di questa conversazione (che potete trovare qui) abbiamo esordito con una notizia di poche settimane fa: Hewlett Packard Enterprise ha potenziato il supercomputer Hpc4 di Eni, utilizzato per accelerare la scoperta di nuove fonti di energia e altre attività strategiche per il colosso guidato da Claudio Descalzi. Al di là del raddoppio della capacità di storage e dell’aumento di prestazioni, consentito dai 1.500 nodi Hpe ProLiant DL385 Gen10 Plus equipaggiati con Cpu AMD Epyc III, è interessante notare che il nuovo supercomputer è usato da Eni in modalità “as-a-service”, tramite la piattaforma edge-to-cloud Hpe GreenLake.

«Cloud vuol dire che le infrastrutture vengono fruite in modalità “as-a-service”, pagando solo ciò che si utilizza. Fino a ieri, l’unico modo per fare questo era il public cloud. Noi invece proponiamo una modalità che abbiamo chiamato “Next Generation Cloud”: una modalità as-a-service che prevede che le infrastrutture per un determinato cliente possano essere installate presso di lui, o dovunque egli voglia», ha commentato Venturi. «Questo apre degli scenari molto interessanti, perché dove stanno i dati lo decide ogni amministrazione, ogni azienda, pubblica o privata che sia. Questo risolve problemi di latenza delle piattaforme tecnologiche, consente di essere sempre al passo con le ultime tecnologie, e ciascuno si personalizza ciò di cui ha bisogno».







Nello studio lanciato con Ambrosetti vengono messe sotto la lente la “intangible economy” (per il suo rapporto stretto con la produttività e la crescita) e la “data economy”, nella quale siamo quarti in Europa per valore complessivo, ma appena 17esimi se ne consideriamo il peso sul Pil (2,3%, media europea 3%). Ma non è solo questo. «Con Ambrosetti vogliamo anche fare un discorso di sistema, della validità di questa modalità “as-a-service” per tutto l’ecosistema italiano» ha precisato Venturi.

Secondo Venturi, è importante che aziende e amministrazioni comprendano l’importanza di affidarsi ad architetture cloud aperte: occorre evitare in il ritorno a un lock-in simile a quello dei vecchi sistemi legacy, e il depauperamento della filiera Ict italiana, che conta 100.000 aziende. Ed è ancora più importante che capiscano i vantaggi di un “as-a-service” generalizzato, come quello proposto nel Next Generation Cloud di Hpe. Un cloud ibrido e federato che è conforme alle raccomandazioni europee di Gaia X e che quindi fornisce, al centro come all’edge, strumenti per gestire in sicurezza e nel rispetto della privacy i Big Data che – strutturati e non – sono l’asset fondamentale delle aziende. E nel tempo lo saranno sempre di più.

Alla base dell’attività di analisi della survey prodotta ci sono tre assunzioni che hanno permesso di individuare le necessità di sviluppo del Sistema-Paese

D. I clienti si sono accorti di queste trasformazioni? In particolare, Pmi e Pubblica Amministrazione sono al corrente delle tecnologie in grado di gestirle? E se no, gliele state spiegando?

Il supercalcolatore Hpc4 di Eni

R. Sono esigenze che molti di loro sanno di avere, e quindi quando gli raccontiamo quali risultati si possono ottenere, troviamo grande disponibilità per discuterne. Non dobbiamo convincerli che il futuro è lì, molti lo stanno già vivendo e lo comprendono molto bene. Anche nella Pubblica Amministrazione, dove ci sono tante sfaccettature, molte amministrazioni distribuite. Quelle più vicine ai cittadini e agli utenti, che sicuramente lo vivono, lo vedono e lo hanno capito, cercano di risolvere questo problema, ovviamente con budget limitati. Poi bisogna sempre scontrarsi con le strutture e le modalità di acquisto che sono attualmente disponibili; devo dire che io sono molto ottimista, vedo persone molto preparate anche a livello regionale, comunale, in tutte le società e amministrazioni, sia centrali che quelle più piccole. Ci sono delle ottime competenze. Noi stiamo facendo una grande attività e stiamo avendo un ottimo riscontro.

 

D. Perché avvalersi di Ambrosetti? Non potevate condurre lo studio in autonomia?

R. Lo studio con Ambrosetti aiuta a diffondere la consapevolezza di un modo nuovo di fare Information Technology, come tipologia di fruizione, andando a misurare diversi parametri. Lo studio è basato su dati analizzati da un’entità terza, che è Ambrosetti, ma soprattutto validati dalle persone dell’advisory board, che sono di altissimo livello, con esperienza anche internazionale. Con Ambrosetti vogliamo inoltre approfondire l’analisi di sistema, per confermare la validità di questo nuovo modello di cloud per tutto l’ecosistema italiano. Cosa accadrebbe se domani una parte importante dell’industria o dell’amministrazione italiana andasse in cloud con i grandi cloud service provider? Avverrebbe il cosiddetto “legacy lock-in” a causa delle difficoltà tecniche ed economiche nel caso in cui si volesse cambiare cloud service provider, con conseguenze importanti su tutto il sistema Paese. Ma c’è un altro elemento importante: si correrebbe il rischio di desertificare la filiera italiana delle centomila aziende che oggi fanno informatica. In queste aziende ci sono consulenti che conoscono le piccole medie aziende e le piccole amministrazioni, sono al loro fianco e le aiutano a risolvere i problemi meglio di qualsiasi grande firma internazionale, cui le Pmi non potrebbero nemmeno accedere. Quindi il rischio, con questi modelli cloud centralizzati, è di desertificare questo ecosistema. Il nostro modello invece lo include, perché permette a queste aziende di continuare ad erogare i loro servizi usando pero’ una soluzione cloud completamente open che recepisce immediatamente le specifiche Gaia-X di federazione dei dati e dei cloud.

Le proposte nate dalla survey di The European House – Ambrosetti con Hpe per favorire una maggiore competitività del sistema imprenditoriale italiano (fonte The European House – Ambrosetti)

D. I cittadini oggi “sentono” molto il problema della privacy e della sicurezza dei loro dati sensibili. Come si fa a garantire la security e la riservatezza su sistemi di questo tipo? Chi la potrà gestire e con quali strumenti e risorse umane?

Vittorio Colao, ministro per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale

R. Il Ministro Vittorio Colao, lanciando il suo piano, ha già distinto fra dati più e meno sensibili, e ha detto che quelli più sensibili dovranno rimanere sui server della Pubblica Amministrazione. Noi possiamo offrire una soluzione che, pur gestita come cloud, consente di mantenere i dati nel proprio data center. Quindi ottengo i vantaggi del cloud, ovvero pago solo per quello che uso, mi premunisco contro i picchi – in quanto mettiamo a disposizione le risorse per superarlo – e i dati rimangono in loco. In più, la modalità aperta di Gaia-X consente di separare dove i dati vengono memorizzati da dove vengono elaborati, quindi si possono sfruttare in modalità federata le capacità di altri data center, senza spostare i dati. Dobbiamo anche dire che le soluzioni cloud Hpe includono tutte le nostre soluzioni di sicurezza. Ad esempio per quanto riguarda la protezione del dato abbiamo soluzioni che impediscono la criptazione dei dati in caso di attacco ransomware o che permettono il ripristino dei dati in modo estremamente veloce nel caso di problemi. Non parliamo di mesi o settimane, ma di pochi minuti.

 

D. Quindi il nuovo modello di cloud, su tecnologia Hpe GreenLake potrebbe aiutare a mitigare il problema di sovraccarico che si ha per esempio nei vari “click day”?

R. Certamente. Qualsiasi sistema di cloud può risolvere il problema dei picchi di carico, perché di fatto esso viene scaricato sul fornitore. Quindi anche GreenLake può farlo. E lo facciamo da tempo. Per esempio fra i nostri clienti c’è Yoox (Gruppo Net-A-Porter), leader mondiale dell’e-commerce del fashion, che quando fa i suoi “black friday” ha picchi elevatissimi. E noi gli forniamo l’infrastruttura da anni in modalità as-a-service. Una cosa importante che spesso si trascura, quando ci sono i “click day”, è la latenza. È importante dare risposte immediate, far sapere chi è arrivato davvero prima, gestire queste cose. Farlo in modalità completamente centralizzata aggiunge elementi di latenza che non aiutano ad avere una chiara corrispondenza fra chi è arrivato davvero prima e chi è stato servito prima. Il cloud di tipo distribuito risolve anche questo problema. Comunque il click day è in un certo senso un problema culturale. Le amministrazioni sarebbe importante lavorassero per un uso più costante dell’accesso ai servizi digitali. Un po’ lo stanno facendo, la digitalizzazione dei servizi sta diventando una realtà. Basti pensare all’uso dello Spid per firmare per i referendum, che ha fatto vedere non solo che tantissimi cittadini hanno fatto lo Spid, ma che sono pronti a usarlo, e non solo per cose obbligatorie.

Evoluzione prevista dei servizi Hpc di GreenLake

D. Come possiamo quindi riassumere la vostra posizione sulle architetture cloud? Qual è il punto per Hpe?

R. Il punto è: il public cloud tout court, quello fatto dai grandi operatori cloud, prevede lo spostamento al centro dei dati, che vanno messi obbligatoriamente nel data center che ti indica il provider. E nel momento in cui non si tratta di una colocation, ma si va direttamente dall’hyperscaler, vanno messi con i suoi sistemi operativi, i suoi sistemi di orchestrazione, eccetera. Quindi si entra in un “legacy” importante. L’alternativa tradizionale è comprare i propri sistemi it e gestirli. Ma entrambi gli approcci generano un problema di costi. Noi stiamo fornendo la soluzione al problema. Con il nostro nuovo modello di cloud, il cliente rimane libero, perché usa sistemi open che garantiscono la sicurezza del dato, e mette l’infrastruttura dove vuole e sostiene i costi solo per quello che utilizza. Oltre ai vantaggi funzionali i prezzi sono estremamente competitivi rispetto al cloud pubblico. A livello governativo ci stanno lavorando, nel senso che molte amministrazioni vogliono andare sul cloud pubblico, alcune non vogliono, tutte vogliono farlo a costi ridotti, con le ultimissime tecnologie. Il ministro Colao ha creato una raccomandazione con vari livelli, e quindi ci saranno alcuni dati poco sensibili che potranno essere conservati in qualsiasi data center, altri dati invece verrà richiesto di tenerli in data center in qualche modo controllati dall’amministrazione. E noi possiamo fornire questa parte. Fra l’altro, la tecnologia che sta alla base del nostro nuovo modello di cloud la abbiamo chiamata GreenLake anche perché forniamo i “certificati verdi”: quando sostituiamo le componenti dell’infrastruttura, le ricicliamo in tre nostri impianti dedicati allo scopo (uno è in Europa, Scozia per la precisione). Noi le rigeneriamo e le mettiamo in vendita come materiale ricondizionato con le stesse garanzie di un prodotto nuovo. Oggi rigeneriamo il 90% di ciò che ritiriamo. Del 9,5% ne ricicliamo i materiali e solo lo 0,5% va in discarica. Ai nostri clienti arrivano quindi i green certificate che possono essere inclusi nel proprio bilancio “green”.

Il public cloud tout court, fatto dai grandi operatori cloud, prevede lo spostamento al centro dei dati, che vanno messi obbligatoriamente nel data center che indica il provider. E nel momento in cui non si tratta di una colocation, ma si va direttamente dall’hyperscaler, vanno messi con i suoi sistemi operativi, i suoi sistemi di orchestrazione, eccetera. Quindi si entra in un “legacy” importante. L’alternativa tradizionale è comprare i propri sistemi it e gestirli. Ma entrambi gli approcci generano un problema di costi. Noi stiamo fornendo la soluzione al problema. Con il nostro nuovo modello di cloud, il cliente rimane libero, perché usa sistemi open che garantiscono la sicurezza del dato, e mette l’infrastruttura dove vuole e sostiene i costi solo per quello che utilizza

D. Torniamo allo studio con Ambrosetti. Il problema della bassa crescita economica in Italia è ultradecennale. The European House-Ambrosetti individua le cause nella scarsa produttività delle “Energie di sistema”. Ma di cosa si tratta, e in che modo le tecnologie Ict possono aiutare se non a risolvere, almeno a mitigare il problema?

R. La bassa crescita è figlia di molte cause. Una è quella che viene definita da molti la “Intangible Economy”. In Italia dobbiamo sviluppare molto di più l’economia dell’intangibile, quella legata alla proprietà intellettuale, alla ricerca ma soprattutto allo sviluppo e messa in opera di nuove modalità di business e nuove tecnologie. È l’economia delle idee. Cosa vuol dire attivare di più questa intangible economy? Per esempio, lavorare di più sui brevetti, e sulla loro messa a terra. E su questo, in termini di processi di business, nuovi prodotti, nuove tecnologie, siamo indietro. E dobbiamo lavorare molto di più proprio sui dati, sulla data economy, perché è la correlazione dei dati che rende possibile tutto questo. Dobbiamo investire in Ict ma soprattutto in education, dobbiamo lavorare sulla formazione delle persone, non solo sui giovani, ma anche su chi già lavora. Infine, se l’intangible economy è abilitata dalla data economy, il nostro nuovo modello Next Generation Cloud, basato su everything as-a-service rappresenta un acceleratore, perché mette insieme le due cose, e consente di usufruire di infrastrutture as-a-service distribuite, aperte e innovative.

In Italia dobbiamo sviluppare molto di più l’economia dell’intangibile, quella legata alla proprietà intellettuale, alla ricerca ma soprattutto allo sviluppo e messa in opera di nuove modalità di business e nuove tecnologie. È l’economia delle idee













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