Da Whirlpool a Blutec, passando per Italcomp: tutti i grattacapi di Giorgetti

di Marco de' Francesco ♦︎ Sono oltre 100 i casi di crisi industriale che deve affrontare il Mise. Ed è in via di definizione (finalmente!) una struttura apposita. Ci soffermiamo sui tre più urgenti e diamo i numeri disponibili. Che si farà con le imprese zombie? Quali saranno le direttrici di politica industriale? Ah saperlo...

Il titolare del ministero dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti

Sono almeno 100 i dossier aperti al Ministero dello sviluppo economico relativi alla crisi di grandi aziende. Il numero potrebbe aumentare rapidamente, perché il Covid-19 ha aggravato la posizione finanziaria di tante imprese: sono 81mila, secondo il Cerved Goup Score, quelle ad alto rischio di fallimento. E al Mise temono che, una volta terminato il divieto di licenziamento, si assisterà al boom delle vertenze.  Peraltro, in vista di ciò, si accende il dibattito sul destino delle “aziende zombie”, quelle che, ormai improduttive, si mantengono in vita solo grazie all’intervento dello Stato Fra le grandi imprese in crisi, nove hanno chiesto l’intervento urgente del titolare del Mise Giancarlo Giorgetti. Ad esempio la ligure Piaggio Aerospace, la piemontese Officine Meccaniche CeruttiJsw Piombino, Ast Terni e l’ex Ilva di Taranto. Ma, oltre a queste, ci sono tre crisi industriali che abbiamo scelto di raccontare perché vanno affrontate immediatamente: per diversi motivi, i tempi per la risoluzione dei problemi scadranno fra pochi giorni. Se ciò è possibile, va trovata una “quadra” in “zona cesarini”. Di quali casi stiamo parlando?

Anzitutto della Whirlpool di Napoli.  Lo stabilimento ha già smesso la produzione, che sarà probabilmente delocalizzata all’estero. L’unica speranza è la riapertura di un tavolo. Poi di ItalComp, progetto strategico per il settore degli elettrodomestici, ma che rischia di rimanere sulla carta a causa della mancata concessione di un prestito ad una delle aziende che dovrebbe farne parte. Infine di Blutec: c’è un piano di riconversione del sito dell’ex Fiat di Palermo, che può partire solo se finanziato dallo Stato e da Palazzo dei Normanni.  Le sovvenzioni, però, sarebbero “in forse”. Per questi tre casi, i rappresentanti sindacali la Regioni coinvolte e altri fra Province, Comuni e parlamentari “locali”, stanno esercitando un pressing fortissimo nei confronti del neo ministro, che si è insediato poco più di un mese fa. Che cosa farà? Per ora Giorgetti non ha risposto.







Si sa che Giorgetti sta pensando di realizzare una nuova “Struttura per le crisi di impresa”: ne farebbero parte i rappresentanti del Mise, del ministero delle Politiche sociali e di Unioncamere. Il problema è che, prima che il tavolo interministeriale sia operativo, i casi più gravi, come i tre che andremo ad approfondire, potrebbero essere divenuti irrecuperabili.

 

I tavoli di crisi e le “aziende zombie”

Aessandra Todde, viceministro dello sviluppo economico

Solo un anno e mezzo fa, i tavoli di crisi aperti al Mise erano circa 150, un terzo in più degli attuali. Il calo è avvenuto durante il mandato del sottosegretario di Stato al Mise Alessandra Todde (M5S), che in effetti ha contribuito alla risoluzione di molti casi. La Todde ha preso in mano l’Unità di crisi nel settembre del 2019, a seguito di un periodo di rallentamento delle attività dovuto, probabilmente, allo scioglimento (febbraio 2019) della task force guidata da Giampiero Castano. In generale, nel periodo del primo e del secondo governo Conte, l’unità di crisi ha goduto di poca attenzione da parte degli esecutivi; nonostante ciò, la Todde ha avuto occasione di fare la sua parte. Ora, come si è detto all’inizio, Giorgetti pensa ad una rivisitazione completa dell’unità, perfino nel nome. E non è detto che la Todde, benché sia stata nominata viceministro allo Sviluppo economico, conservi la sua delega. Anzi, è probabile che quest’ultima venga assunta da Anna Ascani del Pd, per via del gioco di equilibri fra le diverse componenti politiche del governo Draghi.

Si diceva dei dati del Cerved Group Score. Va sottolineato che quelle ad alto rischio di fallimento rappresentano il 7,8% degli affidati (circa un milione di imprese) al Fondo centrale di garanzia (che offre, appunto, una garanzia pubblica in sostituzione di quelle assai più costose per le Pmi per ottenere credito bancario) e che altre 166mila aziende (16%), già vulnerabili prima della pandemia, ora sono entrate nell’area di rischio. Nella zona di vulnerabilità ci sono altre 284mila società (27,5%). Il fatto è che l’Italia, come altri Paesi d’Europa, ha sostenuto le aziende con la cassa integrazione e con forti iniezioni di liquidità. Si parla di un importo finanziato di 115 miliardi (dati di fine gennaio 2021) e di uno garantito di 98 miliardi. Al di là della spesa, resta da vedere se operazioni di questo genere siano fruttuose. Il rischio è quello di mantenere artificialmente in vita realtà inefficienti e improduttive, compromettendo quella naturale selezione che in tempi medi rende l’economia di un Paese più solida. Sul punto, si è sviluppato un vivace dibattito.

 

Whirlpool, ultima chiamata in zona cesarini

Il primo novembre del 2020 i 420 dipendenti dello stabilimento Whirlpool di Napoli sono rimasti a casa. Lo stabilimento ha cessato le sue attività produttive. Dopo qualche mese di cassa, il mese scorso l’azienda ha confermato l’intenzione di procedere con i licenziamenti collettivi a Napoli, non appena la fine del blocco lo consentirà

C’è stato un tempo in cui l’attuale ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, si occupava delle cose dell’industria. Alla fine di ottobre 2018, circa un mese dopo i festeggiamenti sul balcone di palazzo Chigi per “l’abolizione della povertà”, l’allora ministro dello Sviluppo economico scriveva su Facebook: «Whirlpool non licenzierà nessuno e, anzi, riporterà in Italia parte della sua produzione che aveva spostato in Polonia. Questo è il frutto di una lunga contrattazione che siamo riusciti a chiudere al ministero dello Sviluppo Economico. Sono quindi orgoglioso di dire che ce l’abbiamo fatta: stiamo riportando lavoro in Italia!». Il riferimento era alla sede napoletana della multinazionale americana del Bianco. Si era tenuto un tavolo di confronto tra il ministero e l’azienda, sulla quale ricadeva il sospetto che intendesse delocalizzare la produzione. Come nel caso dell’abolizione della povertà, i fatti si sono incaricati di smentire il ministro. Il primo novembre del 2020 i 420 dipendenti sono rimasti a casa. Lo stabilimento ha cessato le sue attività produttive. Dopo qualche mese di cassa, il mese scorso l’azienda ha confermato l’intenzione di procedere con i licenziamenti collettivi a Napoli, non appena la fine del blocco lo consentirà.

Si prevedono conseguenze molto pesanti anche per i 534 lavoratori dell’indotto: ad esempio quelli di Scame MediterraneaCellublok e Passel, aziende quasi del tutto “dedicate” alla fornitura per Whirlpool. Lo stabilimento di Napoli è stata la prima fabbrica di lavatrici in Italia: è stata fondata, infatti, nel 1949 da Giovanni Borghi, con il nome di Serit (Smalterie Elettriche Riunite Ignis Tirreniche). La famiglia milanese Borghi aveva dato vita, tre anni prima, alla Officine Elettrodomestiche Ignis Guido Borghi e Figli, e cioè all’Ignis, che al tempo produceva scaldabagni elettrici e frigoriferi. L’impianto partenopeo doveva rifornire le concessionarie di vendita nel Mezzogiorno; nel 1950 l’azienda fu trasformata in società per azioni divenendo così SiriSocietà Industriale Refrigeranti Ignis, con sede e stabilimento a Gavirate e capitale sociale di 1 miliardo di lire.

Il governatore della Campania Vincenzo De Luca

Nel 1970 la multinazionale Philips acquisì il 50% del capitale della Ignis; nel 1972 la gestione passò in mani olandesi. In quegli anni la Ignis fu il secondo produttore nazionale (dopo la Zanussi) e dava lavoro a 10mila persone. Il nome della società fu mutato in Ire Spa; nel 1988 questa divenne una joint venture tra la Philips e l’americana Whirlpool, che entrò nel capitale sociale con il 53% delle azioni. La Whirpool nel 1991 rilevò per intero la Ignis, che assumense la denominazione di Whirlpool Italia s.r.l. La Whirlpool ha Napoli ha rappresentato, nei primi anni Duemila, uno dei fiori all’occhiello dell’industria campana, con una produzione di oltre un milione di lavatrici all’anno. L’azienda, che ha speso decine di milioni per trasformarla in un sito molto avanzato, dal punto di vista digitale, ora dice che non ci sono più prospettive. La produzione napoletana sarà probabilmente assorbita dagli stabilimenti cinesi, polacchi, slovacchi e turchi della multinazionale. Qualche giorno fa una delegazione sindacale è stata ricevuta dal neoministro della Lega Giorgetti. I rappresentanti dei lavoratori chiedono, in zona cesarini, la riconvocazione del tavolo permanente, il rispetto dell’accordo del 25 ottobre 2018 (quello siglato ai tempi di Di Maio; Ndr) e la proroga del divieto di licenziamento, così da poter individuare soluzioni concrete che scongiurino la chiusura definitiva (che però è già sostanzialmente avvenuta). Il dossier è estremamente complicato. Giorgetti si è per ora limitato a inoltrare una lettera al governatore della Campania, Vincenzo De Luca, assicurandogli che «non appena ci sarà un segnale tangibile» provvederà a dargliene notizia e a convocare il tavolo di crisi.

 

Italcomp, l’araba fenice della filiera del freddo che rischia di non prendere il volo

Sarebbe stato il primo grande progetto di politica industriale, argomento tabù nel dibattito pubblico dalla metà degli anni Ottanta. L’idea, partorita dal governo Conte II, era quella di superare, una volta per tutte, la logica dell’emergenza, del salvataggio reiterato.  Si intendeva unire le forze di uno stabilimento in difficoltà finanziaria, l’Acc di Borgo Valbelluna (Belluno) e di uno fermo, l’ex-Embraco di Riva di Chieri (Torino), per dar vita a realtà manifatturiera (ItalComp) con una massa critica sufficiente ad affrontare il mercato.  In un contesto strategico per l’industria italiana e continentale: quella del compressore per frigoriferi. È una tecnologia è essenziale per il “Bianco”. Non è un caso che Acc abbia, tra i clienti, colossi dell’elettrodomestico come ElectroluxBoshSiemensWhirlpool. Oggi il 90% dei compressori è realizzato in Asia. La Jiaxipera di Zhejiang (Cina) e la Nidec di Kyoto (Giappone) producono ogni anno 35 milioni di pezzi ciascuna, mentre Gmcc di Shenzen (Cina) e Donper di Jiujiang (Cina), rispettivamente altri 25 e 20 milioni. Fare concorrenza a questi giganti con prodotti standard è impossibile, per una questione di costi; perciò si voleva dar vita ad un’azienda specializzata nel segmento premium, quello del compressore “intelligente” e a velocità variabile, con una produzione di sei milioni di pezzi all’anno. Dal momento che con questo strumento l’utente finale risparmia, e poiché i big europei dell’elettrodomestico non vogliono dipendere dalla Cina (soprattutto a seguito del Covid-19) l’idea aveva subito raccolto il plauso di molti Paesi del Vecchio Continente.

Modello industriale progetto ItalComp

Secondo lo schema immaginato del precedente esecutivo, ItalComp dovrebbe nascere la primavera dell’anno in corso (cosa ormai improbabile) con la partecipazione di Invitalia, l’agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e per lo sviluppo di impresa, che deterrebbe una quota massima del 49,9% del capitale, con un tetto massimo di dieci milioni di euro. Le Regioni, che peraltro si sono già dette interessate, potrebbero essere della partita per un massimo del 20%, equivalenti a 4 milioni. Il restante 30% delle quote (6 milioni) spetterebbe ai privati. Dopo cinque anni, gli enti pubblici cederebbero le proprie azioni al mercato. A regime (nel 2025) e secondo le proiezioni, ItalComp avrebbe un fatturato di oltre 150 milioni di euro, con un margine operativo lordo di quasi nove milioni. Solo che le cose si stanno mettendo molto male. Mesi fa il commissario straordinario di Acc Maurizio Castro, che ha raccolto tantissimi ordini ma che lavora con le casse quasi vuote, aveva chiesto ad un pool di banche un prestito di quasi 13 milioni; queste si erano dette disposte a concederlo, ma avevano subordinato il finanziamento alla autorizzazione della Commissione Europea all’aiuto di Stato. L’ente guidato da Ursula Von Der Leyen, invece, ha chiesto spiegazioni più volte, rimandando la questione alle calende greche. I “ni” della Commissione valgono più come “no” che come “sì”, e a fine marzo Acc non avrà più liquidità. Il governo Conte II aveva anzitutto cercato di risolvere la questione schierando alti esponenti dello Stato: il ministro per gli affari europei Vincenzo Amendola nonché gli ambasciatori Maurizio Massari e Enzo Marongiu della rappresentanza italiana a Bruxelles. Tuttavia, questa azione diplomatica non ha portato alcun frutto. Pertanto l’Esecutivo ha sciolto la riserva sul salvataggio attivando la “Garanzia Italia”, misura straordinaria a supporto delle imprese colpite dall’emergenza Covid. Il finanziamento dovrebbe essere erogato alle banche e garantito da Sace, finanziaria della Cassa depositi e prestiti, e contro-garantito dallo Stato.

Tutto a posto? Neanche per idea. Anzitutto il governo è caduto, e nessuno sa cosa pensi l’esecutivo Draghi del progetto ItalComp; inoltre le banche sostengono che le garanzie non sono sufficienti (non è sicura, secondo loro, quella Sace) e pertanto non si sono mosse. Il risultato è che la parte attiva del progetto, Acc, rischia di morire di inedia, nonostante i volumi in crescita del 38% nell’anno in corso. Attualmente, ha 315 dipendenti. Un mese fa, peraltro, è stato attivato il licenziamento collettivo per i 400 lavoratori dell’ex Embraco: verso la fine di aprile la misura diventerà definitiva. Ieri l’altro è emersa la bozza del decreto Sostegni: l’articolo 34 prevede l’istituzione di un fondo di 200 milioni di euro finalizzato alla concessione di finanziamenti a grandi imprese (con più di 250 dipendenti e un fatturato superiore a 50 milioni di euro) anche in amministrazione controllata ma operative dal punto di vista industriale e in temporanea difficoltà di cassa. Sembra scritto apposta per salvare Acc. I sindacati, però, non ci credono. «Il decreto – dicono – sarà efficace tra tre mesi: troppo tardi». In questo contesto, hanno chiesto l’intervento immediato del ministro Giorgetti, oltre ai sindacati, anche presidenti delle Regioni Veneto e Piemonte Luca Zaia e Alberto Cirio, diversi parlamentari originari delle due Regioni (anche con un’interrogazione a Montecitorio), e tanti altri.

Progetto ItalComp proiezioni al 2025

Blutec, storia di una riconversione difficile

Sergio Marchionne definè Termini Imerese lo “stabilimento modello”.  La Fiat lo abbandona definitivamente nel 2011, a seguito di una ulteriore diminuzione del personale, ridotto a poco più di mille dipendenti

A Termini Imerese (Palermo), dove un tempo c’era la Fiat, davanti allo “stabilimento modello” (così lo definì Sergio Marchionne) ora c’è un presidio permanente di qualche centinaia di lavoratori, la cui cassa integrazione scadrà a giugno. L’esperienza industriale imerese inizia nel 1967 con la “Sicilfiat”: una società a partecipazione pubblica, di cui la Fiat deteneva il pacchetto di maggioranza con il 60% delle azioni e la Regione Siciliana il restante 40%. Nel 1977 il Lingotto acquista la totalità delle azioni. Nello stabilimento, che nella seconda metà degli anni Ottanta ha 3.200 operai e che “occupa” altri 1.200 lavoratori con l’indotto, vengono prodotte diverse versioni della 500, la 126, la Panda, più serie della Punto e la Ypsilon. Il lavoro è articolato su tre turni. Negli anni Novanta, con la contrazione delle vendite, il personale viene costantemente ridotto. Scende a poco più di 2mila dipendenti. L’interesse del Lingotto per Termini Imerese scema, perché lo stabilimento è strutturato per produrre un modello alla volta, mentre le esigenze del mercato richiedono una maggiore flessibilità. Lo “stabilimento modello” non è più un modello, e la Fiat lo abbandona definitivamente nel 2011, a seguito di una ulteriore diminuzione del personale, ridotto a poco più di mille dipendenti. Non è un fulmine a ciel sereno: già nel gennaio 2010, durante il suo intervento all’Automotive News World Congress organizzato al Renaissance Center di Detroit, Marchionne aveva affermato categoricamente l’irrevocabilità dei piani di chiusura della fabbrica siciliana.

A questo punto, si è aperta la strada della riconversione, per evitare la chiusura definitiva. Su fa avanti la newco Blutec, del gruppo Metec, azienda di componentistica per auto. Si ottiene il sostegno finanziario della citata Invitalia. Si riassumono 90 operai, e vengono acquistati macchinari: l’idea (dichiarata) è quella di realizzare auto elettriche e ibride. Ma nessuna attività ha inizio. Poi iniziano i guai giudiziari. La guardia di finanza, nel settembre 2019, esegue un sequestro preventivo del 100% delle azioni di Metec Spa (secondo l’accusa, per la distrazione dei fondi di Invitalia); Blutec finisce in amministrazione straordinaria ai sensi della legge Marzano. I commissari (Giuseppe Glorioso, Fabrizio Grassi e Andrea Bucarelli) lavorano ad una nuova ipotesi: trasferire l’impianto a una newco controllata dai creditori pubblici di Blutec; la newco lo affitterebbe ad aziende in grado di attuare la riconversione industriale. qIntanto viene avanzato un progetto dal consorzio Smart City Group: si punta sull’economia circolare ed in particolare sul riciclo dei materiali, sulla mobilità sostenibile, sull’intelligenza artificiale e sulle energie rinnovabili. Il consorzio viene rinominato S.u.d. (Smart Utility District) e il progetto viene approvato dai commissari.  Il programma, cofinanziato dal Mise e dalla Regione Sicilia, mette sul piatto 260 milioni di euro di investimenti e oltre 600 posti di lavoro. Tutto liscio? No. Secondo la Fiom, il Mise avrebbe disimpegnato 170 milioni previsti per la reindustrializzazione di Termini Imerese, e anche la quota della Regione non sarebbe certa. Gli operai Blutec sono 635, altri 300 sono dell’ex indotto Fiat. Come si diceva, la fine della cassa, già prorogata, incombe. Tra gli altri, hanno chiesto l’intervento di Giorgetti il presidente della Regione Siciliana, Nello Musumeci e il sindaco di Palermo Leoluca Orlando.














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