Ex-Ilva: la bomba sta per scoppiare

di Marco de' Francesco ♦︎ Forse già oggi, o magari fra qualche settimana, ArcelorMittal leverà le tende, producendo un danno enorme per l'industria, l'economia, l'occupazione. Colpa di un Governo privo di tattica in questa partita ma soprattutto di strategia e di politica industriale tout court. Sarà un disastro, che bisognerà riparare con miliardi di fondi pubblici e senza che ci sia un'idea di fondo, che sarebbe fondamentale. Oltre a questa, ci sono altre 150 crisi industriali che attendono di essere affrontate. Anatomia di una crisi tutta italiana

Oggi, forse, ci potrebbe essere la resa finale dei conti sull’ex-Ilva. È prevista una conference call tra ArcelorMittal, la società franco-indiana che gestisce l’acciaieria più grande d’Europa, i sindacati, l’amministrazione straordinaria e il Governo, rappresentato nell’occasione dal ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli e da quello per il Lavoro Nunzia Catalfo. Tutti contro tutti armati, ma solo un partecipante con carte vincenti in mano: la multinazionale guidata in Italia dall’ad Lucia Morselli, famosa per la sua estrema durezza. Che si prepara a richieste monstre: 5mila esuberi, prestiti garantiti dallo Stato, dimezzato costo di acquisto dell’impianto di Taranto. È, con tutta probabilità, una tattica per far saltare il tavolo negoziale in vista della smobilitazione.

ArcelorMittal può permettersi tanta determinazione nella partita perché le carte buone gliele ha passate lo Stato: a marzo scorso si è stabilito che può abbandonare il campo di battaglia aprendo il portafoglio per solo mezzo miliardo di euro di penale. Niente, se si considerano le perdite italiane pari a oltre 100 milioni al mese o le spese miliardarie per il risanamento ambientale del sito di Taranto.







Tanta generosità dell’esecutivo Conte II si spiega con i disastrosi errori strategici degli ultimi due governi: per accarezzare l’elettorato giustizialista, si sono esibiti in insensate manifestazioni muscolari a proposito dello scudo penale, che pure era parte di accordi pregressi. E che avrebbe potuto essere usato come utile scusa per levare le tende. Poi, sapendo che di fronte alla magistratura poteva finire male, si è cercato di metterci una pezza in extremis, con laute concessioni ancora più controproducenti per il sito e per i lavoratori. Di fatto, si è definita per ArcelorMittal una chance di andarsene che negli accordi di due anni fa non esisteva, e ora toccherà inventarsi una nazionalizzazione obtorto collo in un mercato difficile e declinante. Può darsi che oggi non accada nulla, e che finisca tutto con frasi di circostanza: ArcelorMittal non ha fretta, avendo ancora sei mesi davanti a sé per mollare la presa. Per il Governo, invece, si tratta di disegnare al più presto un piano B. Per ora, però, non ce n’è traccia. La crisi del Covid-19 ha oscurato completamente la maxi-partita dell’Ilva, che ha un valore strategico enorme per l’industria nazionale, per l’economia italiana e per l’occupazione al Sud. La si è accantonata, come se non esistesse. Eppure sta li, mostruosamente immobile e dannatamente seria.

Come serie sono le ben 150 crisi sul tavolo della Presidenza del Consiglio e del Ministero dello Sviluppo Economico. Li ferme, pratiche inevase di un Governo che non ha nessuna idea di politica industriale, nessun programma per il futuro economico dell’Italia, nessun piano. Si son trovati tre miliardi per salvare l’Alitalia (che per l’industria e l’economia italiana ha valore strategico pari a ZERO). Si sono trovati 6,3 miliardi per garantire un prestito a Fca, che pure avrebbe fondi propri per far fronte alle sue esigenze e che comunque sta per essere venduta a Psa che molto probabilmente in Italia la ridurrà e/o lascerà declinare. Ma per Ilva e le 150 crisi industriali si è preferito, per un po’, far finta di nulla. E soprattutto, manca un’idea. Anzi, forse la mancanza di un’idea, di un piano, e del coraggio di fare le scelte conseguenti, è proprio il motivo per cui si è preferito far finta di nulla. Fino a quando il bubbone non esploderà, e allora bisognerà fare altri debiti per contenere i costi sociali ed economici. Pur continuando a non avere un’idea che sia una.

 

Perdite, crollo produttivo e rapporti «ad alzo zero» con i sindacati

Giuseppe Conte, Presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica Italiana

Le perdite dell’ex-Ilva, ricorda peraltro Il Sole 24 Ore, erano esplose già prima della crisi globale innescata dal Covid-19. L’anno scorso, infatti, l’azienda ne aveva fatte registrare, in Italia, per 700 milioni di euro, pari a 1,9 milioni al giorno. A novembre e a dicembre 2019, queste ultime erano aumentate sino a toccare quota 100 milioni al mese; e ciò con una produzione pari a circa 10.500 tonnellate al giorno. Ora che questa è scesa a quota 7.500 tonnellate, è presumibile che le perdite abbiamo subito un ulteriore rialzo; anche se l’emorragia potrebbe essere stata parzialmente contenuta dalla chiusura delle produzioni a freddo e da altre forme di contenimento dei costi come il taglio delle manutenzioni. Il grosso problema è che la produzione non è sufficiente a fare quadrare i bilanci. La crisi dell’acciaio è un riflesso di quella che investe i mercati di sbocco: prima del Covid-19, l’automotive; ora, a quest’ultimo si sono aggiunti i tondini d’acciaio per l’edilizia, il Bianco (per il quale, afferma il docente al Master della Business School Cuoa Maurizio Castro, si può stimare un crollo del 30%), e la cantieristica navale, sia per flotte passeggeri che per quelle dei trasporti commerciali. Tutti questi comparti sono stati ferocemente ridimensionati dal lockdown, dall’interruzione delle filiere e dai limiti posti al commercio interno e internazionale.

Com’è noto, l’ultimo accordo tra governo, amministrazione controllata e AM è stato siglato senza un confronto, neppure preventivo, con i sindacati. «È il patto del 4 marzo di quest’anno, che noi non abbiamo mai visto» – chiosa il segretario generale della Fiom Cgil di Taranto e Puglia Giuseppe Romano. Di questa intesa, parleremo più avanti. Per ora va sottolineato che il mancato concorso dei sindacati non ha rappresentato soltanto una carenza in termini di grammatica istituzionale (poco conosciuta dagli esecutivi Conte I e II): di fatto, i rappresentanti dei lavoratori si sono sentiti doppiamente delegittimati, sia dal governo che dalla multinazionale. Quest’ultima, poi, ha assunto di recente, secondo i sindacati, atteggiamenti incompatibili con un contesto di normali rapporti tra le parti sociali. Prima del Covid-19, a Taranto si contavano 1.273 lavoratori in cassa integrazione ordinaria. «Ma con il virus, è stata aperta una Cig straordinaria per 8.173, dipendenti, tutti quelli diretti dell’azienda – afferma il segretario generale della Fim Cisl Taranto Brindisi Biagio Prisciano – Va detto che si faticava a monitorare il rispetto delle misure di sicurezza, date le dimensioni e la complessità dello stabilimento. In tutti i casi, il prefetto di Taranto, Demetrio Martino, aveva adottato, con un decreto valido dal 26 marzo al 3 aprile, il divieto di commercializzare l’acciaio, bloccando Arcelor Mittal. Il 4 aprile Martino ha emesso un nuovo decreto, in base al quale l’ex-Ilva poteva impiegare una forza lavoro pari a 3.500 dipendenti diretti e 2mila indiretti, cioè delle aziende di filiera». Si arriva dunque alla Fase 2. «A quel punto – continua Prisciano – ci si attendeva un’apertura da parte dell’azienda. Che ci fa sapere che alcune attività sarebbero tornate operative, come la laminazione, e che 636 lavoratori sarebbero rientrati. Bene, diciamo noi. E invece l’azienda mette altri mille lavoratori in cassa. Senza dirci niente. Questi lo scoprono all’ingresso in fabbrica, che gli è inibito. Una situazione incresciosa». Attualmente, secondo Prisciano, il 90% dei dipendenti della manutenzione non lavora. Sono state praticamente sospese le opere di recupero ambientale, «cosa gravissima». Inoltre, da qualunque parte si guardi la situazione «è comunque un flop. L’indotto vanta crediti scaduti per 37 milioni di euro. Chi è in cassa campa con 700 euro, ma non è vero che campa. Molti hanno mutui per 500 euro. Le relazioni tra sindacati ed azienda sono del tutto inesistenti».

 

L’ex-Ilva, creatura Frankenstein sfuggita dalle mani dei governi Conte I e II

ora stabilimento ArcelorMittal Italia di Taranto|Lavori all'ex Ilva
L’ex Ilva di Taranto, ora ArcelorMittal Italia

La recente vicenda dell’ex-Ilva sembra un romanzo gotico, un horror fantascientifico. Ed è, al contempo, una parte degli affreschi di Ambrogio Lorenzetti al Palazzo Pubblico di Siena, quella che si riferisce agli Effetti del Cattivo Governo. Dare la colpa al Covid-19 per il disastro in corso è ipocrita per il semplice fatto che non rappresenta la realtà: il virus è stato un potente catalizzatore della fine della partecipazione di AM in Puglia, un vessillifero del tramonto. Ma ciò che sta accadendo sarebbe avvenuto comunque, prima o poi. Perché i governi Conte I e II hanno liberato la creatura Frankenstein che ora scorrazza tra le praterie incustodite della siderurgia italiana. È solo colpa loro. I comportamenti irrazionali degli esecutivi hanno inoculato il virus dell’irragionevolezza nella creatura – che non è AM o l’azienda in sé, ma la situazione che si è venuta a creare. Contesto che non è più governabile. Partiamo dalla fine. Il 4 marzo 2020, governo, amministrazione straordinaria e AM definiscono un patto. Che ferma l’atto di citazione presentato il 4 novembre 2019 con cui la multinazionale voleva dare l’addio all’ex Ilva e spegnere i forni di Taranto. Si chiude la controversia giudiziaria. E si scrive un testo che rappresenta una sostanziale vittoria per ArcelorMittal – che porta a casa la possibilità di abbandonare il campo legalmente, senza conseguenze, pagando una penale di soli 500 milioni. Circostanza che per la società franco-indiana, che fattura più di 70 miliardi nel mondo e che, come abbiamo visto perde più di 100 milioni al mese in Italia, non rappresenta un incubo. Potrebbe anzi essere una liberazione, lasciando allo Stato la magagna degli esuberi e tutto il peso dei corposi investimenti per il recupero ambientale dell’area.

AM potrà esercitare il recesso entro il 31 dicembre 2020, qualora entro il 30 novembre non sia stato sottoscritto il nuovo contratto di investimento. Quest’ultimo si riferisce ad un costituendo nuovo assetto sociale, con lo Stato che entra nell’operazione e affianca il privato Mittal. Attualmente, non è chiaro chi dovrebbe occuparsene – Invitalia? La Cassa Depositi e Prestiti? Non si sa. Sembra che sia stata messa nero su bianco una mera ipotesi, senza troppa convinzione.  Nell’accordo si legge infatti che i termini del contratto di investimento devono essere negoziati tra gli investitori e AmIvestco, società veicolo con cui AM ha realizzato l’operazione Ilva nel 2017. Si rimanda tutto al futuro. Per il resto il patto è altrettanto fumoso. I 10.700 addetti di cui si parla sono riferibili al 2025, con un’occupazione ipotizzata a regime; da qui a quell’anno, si prevede meno personale con ricorso alla Cig straordinaria. La quantificazione degli ammortizzatori sociali dovrebbe essere definita nel piano che AM dovrebbe presentare ai sindacati entro il 31 maggio; ma i rappresentanti dei lavoratori, informa Romano, non hanno ancora visto niente e dubitano che vedranno qualcosa. È poi previsto un contentino per il governo, che contempla, come vedremo, anche la fazione ambientalista: l’adozione di tecnologie green, come il forno elettrico.  Ma sono cose che ormai sembrano appartenere ad un ambito fantastico. I sindacati, che di accordi se ne intendono, hanno subito “sgamato” l’indeterminatezza del patto; che in effetti appare per quello che è, e cioè una pezza in zona cesarini per rimediare agli errori strategici, se così si può dire, degli ultimi due governi.

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Veduta dello stabilimento dell’ex Ilva, ora ArcelorMittal Italia

Insomma, il governo Conte II ha siglato un accordo perdente, soprattutto rispetto a quello precedente, del 6 settembre 2018, firmato dall’esecutivo Conte I: questo patto prevedeva occupazione per 10.700 dipendenti, oltre 4 miliardi di investimenti in tecnologie, lavori importanti per il recupero ambientale, e aumento della produttività. «Teneva tutto insieme, in un contesto difficile dove lavoro, sicurezza e innovazione devono coesistere e procedere di pari passo, altrimenti la cosa non funziona» – chiarisce Prisciano. Sembrava tutto procedere con tranquillità, i primi mesi. ArcelorMittal nel giugno del 2019, aveva già investito 1,15 miliardi di euro nella realizzazione a Taranto di una gigantesca copertura per evitare la diffusione di polveri nocive. Ma proprio in quel periodo Montecitorio approvava il Decreto Crescita, poi confermato al Senato, che di fatto azzerava lo scudo penale e amministrativo previsto nel 2017 per chi si fosse preso carico della situazione ambientale dello stabilimento siderurgico. AM minaccia di andarsene. La misura viene reintrodotta con il successivo “decreto salva imprese”, ma poi è di nuovo abolita a seguito di una riunione di maggioranza M5S-Pd. Di qui le iniziative giudiziarie di AM, cui si è accennato all’inizio.

Perché questo accanimento contro lo scudo penale? Si fatica a reperire una risposta razionale. Com’è noto, a causa di questioni ambientali, l’enorme impianto, il più grande d’Europa, è stato sequestrato nel 2012. La misura è stata studiata anni dopo non solo per tutelare l’operato dei gestori, ma anche quello dei commissari straordinari, visto che non era tecnicamente impossibile finire nei guai, e in guai seri (disastro ambientale, ad esempio), per attività pregresse. E il contratto siglato da ArcelorMittal due anni e mezzo fa contemplava espressamente la possibilità di ritirarsi nel caso in cui lo Stato definisse leggi incompatibili con il piano di risanamento ambientale che l’azienda si è impegnata a realizzare. Appunto perché AM aveva ragione e operava nel pieno diritto, appunto perché l’iniziativa del governo era insensata e controproducente, quest’ultimo si è trovato nella condizione di siglare un patto, a marzo, ancora più sbilanciato, più a favore della multinazionale. Ma rimaniamo alla domanda: perché? Forse perché sia nel Conte I che nel Conte II confluiscono forze che sono, al contempo, “di lotta e di governo”; fazioni che paiono rispondere a logiche di giustizialismo non troppo raffinato e pré-lumières; e che necessitano di periodiche esibizioni muscolari per accontentare un elettorato imbarbarito da 13 anni di crisi economica e dalla conseguente marginalizzazione sociale. C’è sempre bisogno di un nemico, e AM ha le dimensioni per essere riconosciuta come tale.

Le stesse forze hanno una percezione alterata della rilevanza del settore manifatturiero. Ciò spiega la mancanza di dialogo con i rappresentanti dell’industria e del mondo del lavoro; l’equiparazione tra acciaio e cozze, di miliardi e di milioni; o la divulgazione di idee grottesche, come quella della trasformazione della più importante acciaieria del Vecchio Continente in un gigantesco parco di archeologia industriale, con le ciminiere finalmente attrezzate per le scalate degli alpinisti – che, come tutti sanno, affollano la Puglia.  Non va trascurata anche la tendenza a considerare il fattore produttivo “lavoro” come secondario rispetto alla distribuzione del reddito. Nella mente di taluni, quest’ultimo va conseguito comunque, a prescindere dallo svolgimento di una qualche attività. Il reddito di cittadinanza doveva rappresentare il primo passo verso la società parassitaria di massa. C’è infine la questione della nazionalizzazione. Come si è già detto, lo Stato può accordarsi con AmIvestco per essere della partita. O può prendere in mano tutta la faccenda nel caso in cui AM se ne vada. Si sono fatti dei nomi, in questi mesi: Snam, Invitalia, Cassa Depositi e Prestiti. Di per sé, l’idea non è una buffonata come quella del parco archeologico: potrebbe anzi essere l’inizio di una nuova politica industriale, con lo Stato che presidia direttamente i settori strategici. Non ci sarebbe nulla di male, anzi. Ma ogni ragionamento in materia non può che scaturire che da dati oggettivi: il settore dell’acciaio era in crisi anche prima del Covid-19; per essere competitivi, occorre puntare sulla qualità, sull’innovazione, sulla tecnologia, sull’automazione dei processi, sul minimo impatto ambientale. Si tratta di spendere molti soldi; e di concepire un progetto sapendo che un’industria avanzata ha meno bisogno di personale non specializzato. Dunque, se lo Stato fosse capace di un ragionamento non populista, anche la nazionalizzazione potrebbe essere un’idea.

 

La conferenza stampa tenuta dal premier Conte dopo l’incontro con i vertici di ArcelorMittal

 

E ora? Nuovo round negoziale o abbandono definitivo da parte di AM? La seconda ipotesi è più probabile

I lavori iniziati da ArcelorMittal Italia all’ex Ilva di Taranto

La conference call di oggi si terrà in una atmosfera particolare. Un po’ come in una nota scena dello spaghetti western “Il buono, il brutto, il cattivo”, le parti si guardano in tralice à mutuellement.  «Non c’è una grande fiducia reciproca» – ammette Castro. Quanto a AM, secondo la Gazzetta del Mezzogiorno avrebbe già deciso di mettere le mani avanti, affidando ai legali una lettera con la quale chiede allo Stato condizioni difficilmente accettabili, se non con la completa umiliazione di chi, mesi fa, ha inutilmente messo in mostra i bicipiti: un prestito garantito di 400 milioni; il prezzo di acquisto del complesso aziendale rinegoziato a 1,8 miliardi e niente di meno che 5mila esuberi. Un piatto indigesto per il governo e per i sindacati. La base per una ulteriore trattativa al ribasso, che cancellerebbe definitivamente l’idea dalla quale si era partiti, l’accordo del settembre 2018. Ma è evidente che, dopo il patto dello scorso marzo, AM sa di avere in mano le carte più importanti: gliele ha passate il governo. Secondo Castro, non è impossibile che AM punti a questo: a trattare condizioni di assoluto favore per la multinazionale. I sindacati, d’altra parte, non ci credono, ed è assai probabile cha abbiano ragione. La mossa di AM sarebbe funzionale alla smobilitazione. Sempre secondo la Gazzetta del Mezzogiorno, il prefetto Martino, a seguito di un incontro con i rappresentanti di Fim, Fiom e Uilm, avrebbe inoltrato una lettera ai commissari straordinari e al custode giudiziario Barbara Valenzano. Al centro della missiva, il crescente disimpegno della multinazionale sul fronte della manutenzione e su quello ambientale. Si rischierebbero «effetti pericolosi». Comportamenti che andrebbero inquadrati, per i sindacati, in una più vasta strategia di abbandono di Taranto. «Che cosa dovrebbe negoziare di più favorevole, AM? – si chiede Prisciano – Ha già ottenuto il dimezzamento del canone di affitto, e una clausola di uscita a prezzo scontato. Ulteriori pretese sembrano fatte apposta per salutare tutti e chiudere la porta». I sindacati ce l’hanno parecchio con il governo. «Con la vicenda della penale ha offerto all’azienda l’alibi per andarsene – continua Prisciano -: gli accordi del 2018 erano stati scritti in modo tale per cui AM non poteva scappare; dopo tutto quel balletto sulla questione, ecco il risultato. Follia pura. Quanto a Conte, è venuto due volte a Taranto, e ci ha raccontato il mondo. E i fatti?». Romano taglia corto: «Il governo ci dica che cosa intende fare della siderurgia in Italia, e che piano ha per Taranto, se ce l’ha. Cosa si fa? Una newco con Invitalia? Ma veramente? E in quali tempi? A quali condizioni ambientali e occupazionali?». Più che sulla attività di AM in Italia, già data per terminata, l’attenzione dei rappresentanti dei lavoratori, nella call di oggi, sarà focalizzata sull’ancora di salvezza, il Piano B del governo.  Che però potrebbe rivelarsi un salvagente sgonfio. «Un Piano B? C’è solo a chiacchiere» – chiosa Prisciano.

 

Storia dell’Ilva in pillole

L’ad di ArcelorMittal Italia Lucia Morselli. Foto credits italia.arcelormittal.com

Nasce come Italsider – gruppo siderurgico derivante dalla Società altiforni e fonderie di Piombino, fondata a Firenze nel 1897 – ma già in mano pubblica (Iri) al momento della posa della prima pietra, il 9 luglio 1960.  Il primo altoforno entra in funzione quattro anni dopo. In pochi anni diventa quello che è ancora adesso: il più grande stabilimento siderurgico d’Europa, di importanza decisiva per la manifattura italiana, che è la settima al mondo e la seconda in Europa. Dopo la crisi dell’acciaio e la liquidazione di Italsider, lo stabilimento passa nel 1995 al gruppo Riva, travolto nel 2012 da un’inchiesta per reati ambientali (finita poi con un’assoluzione: classico italiano, dove la pena è il processo stesso, e non l’eventuale condanna) e comunque autore di una gestione aziendale (parere di questo giornale, del tutto opinabile) che per molti aspetti può essere ritenuta discutibile. Lo Stato avvia una procedura di commissariamento dell’azienda e una gara internazionale per la ri-assegnazione. La Am Investco, cordata formata dal colosso industriale indiano ArcelorMittal e da Marcegaglia è scelta per avviare le trattative di acquisizione. Nel novembre 2018 è ufficialmente di proprietà di ArcelorMittal e prende il nome di ArcelorMittal Italy. Il ministro Di Maio, subentrato a Carlo Calenda, era stato particolarmente critico rispetto alla regolarità della gara. Ciononostante, l’8 settembre dell’anno scorso il titolare dello Sviluppo economico chiude il procedimento a condizioni quasi identiche rispetto a quelle previste dalla proposta Calenda: 10.700 assunzioni (contro 10mila più 1.500 da parte di società per attività esternalizzate), e 250 milioni di incentivi all’esodo (contro 200). Tutto il resto della storia è nell’articolo.














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