Etica per l’intelligenza artificiale e l’impresa

di Filippo Astone∗ ♦ Seconda parte dell’approfondita intervista col filosofo di Oxford Luciano Floridi, fra i guru mondiali dell’Ai. Parliamo di etica, intesa in senso profondo e non certo come difesa dai “pericoli” che alcuni attribuiscono a questa straordinaria opportunità di crescita per l’umanità. L’etica permette all’Ai di creare il massimo sviluppo e anche valore economico. La teoria dell’Infosfera

«Quando parliamo di etica dell’intelligenza artificiale ci stiamo concentrando su una serie di temi che riguardano il futuro dell’umanità. Ad esempio, il tema enorme della responsabilità. Se un aereo cade perché il sistema riceve dati errati, di chi è la colpa? Di più: il software rafforza le mie scelte e io divento sempre di più quella persona lì. Ma rimane anche un concetto di etica tout-court, a livello aziendale, che mai come ora sta tornando prepotentemente alla ribalta». Luciano Floridi, professore ordinario di filosofia ed etica dell’informazione all’Università di Oxford presso l’Oxford Internet Institute, dove dirige il Digital Ethics Lab, (già intervistato da noi su questi temi qui)  racconta in un’ampia intervista con Industria Italiana come il discorso riguardante l’intelligenza artificiale sia intimamente collegato a quello dell’etica e della responsabilità. E, soprattutto, di come l’etica possa produrre valore economico.

 







Luciano Floridi, filosofo, docente a Oxford, tra i massimi studiosi mondiali dell’Intelligenza Artificiale

D. Professore, partiamo dall’inizio: che cos’è l’etica?

R. Siamo in un contesto in cui ci sono moltissime definizioni. In generale, si può dire che per Etica intendiamo tutto l’insieme degli accorgimenti necessari per fare in modo che le “cose” vadano bene. Ma se vogliamo essere filosoficamente corretti, dobbiamo prima di tutto distinguere tra bene e male. E questo, senza soffermarci su millenni di storia del pensiero umano, ci porta direttamente alle nuove tecnologie. Perché alcune di esse possono portare a maggiore discriminazione o a minore opacità nelle decisioni. Ad esempio, se non viene concesso un mutuo in banca e la decisione è stata presa da un software, serve un umano che renda trasparente questa scelta. E un altro che la verifichi.

D. Ora saliamo di un gradino: come si applica l’etica all’intelligenza artificiale?

R. In questo momento, studio una branca dell’etica che dovrebbe occuparsi di alcuni problemi abbastanza semplici da definire ma molto complessi da risolvere. Il primo è l’opacità delle decisioni prese dai sistemi artificiali. Un altro è la diffusione distribuita della responsabilità: quando grandi sistemi sempre più complessi vivono anche di intelligenza artificiale, di chi è la responsabilità? Il Boeing che si è recentemente schiantato in Etiopia ha davvero avuto soltanto un problema di software? E in quel caso la colpa è dei piloti, di chi ha fatto il loro training, di chi ha autorizzato l’uso di quel software, di chi l’ha disegnato? Questi sono problemi più eclatanti. Poi ci sono quelli più silenziosi che sono due: il primo è quello della “spintarella”, ovvero il fatto che un software possa tranquillamente essere programmato per consigliare sempre di andare verso una determinata direzione, andando a cozzare con la nostra autonomia. Pensiamo a chi nasce oggi e che avrà a che fare per decenni con l’intelligenza artificiale. Si tratta di soggetti che vengono spintonati gentilmente dall’intelligenza artificiale, silenziosamente ma costantemente.

 

Floridi: “Il Boeing che si è recentemente schiantato in Etiopia ha davvero avuto soltanto un problema di software?”

 

D. Il secondo problema silenzioso?

R. È quello di chi si sta adattando a chi. A un certo punto ci troviamo a inventare delle tecnologie che fanno le cose al posto nostro, magari anche meglio e in maniera più efficiente. E lentamente siamo noi che ci adattiamo alla macchina e non viceversa. Questa è la tecnologia passata, ma se devo impiegare un piccolo software di intelligenza artificiale per fare delle operazioni e per fare in modo che tutto fili liscio e magari devo usare un linguaggio più semplice, o evitare determinate parole, allora il risultato è che la tecnologia mi ha cambiato “in peggio”, mi ha reso un po’ più stupido. Questo è un rischio che stiamo correndo, anche se non lo vedo come un pericolo gravissimo. Serve però mettere un punto fermo all’interazione con l’intelligenza artificiale, ed è qui che entra in gioco l’etica.

D. A che punto è la discussione su questo tema?

Possiamo essere ottimisti se prendiamo in considerazione spazi temporali ampi, meno se ci soffermiamo sull’immediato. Oggi la politica, i media, tutti se ne stanno occupando, e questo è entusiasmante. Però se guardiamo a quello che è stato fatto negli ultimi cinque anni, abbiamo dei risultati più frustranti: scarsi progressi, il tema dell’intelligenza artificiale è ancora affrontato per stereotipi triti e ritriti. E per allarmismi inutili o dannosi, come abbiamo avuto modo di dire in un’altra conversazione. La verità è che è giunto il momento di fare qualcosa a livello europeo, per esempio istituire un’agenzia che faccia auditing a livello serio del settore dei software così come ora viene fatto per i medicinali o per l’agroalimentare.

 

start up
Floridi: “le startup, si poggiano in maniera molto solida sull’etica e l’hanno compresa fin da subito”

D. L’etica favorisce la creazione di valore economico?

R. Se utilizzata correttamente, sì. E almeno per due motivi. Prima di tutto permette di creare un mondo leggermente migliore, in cui il business cresce perché la gente sta meglio. Una frase che può sembrare quasi banale ma che in realtà cela il secondo motivo: l’azienda che vuole crescere rapidamente e magari farsi comprare dal grande acquirente in poco tempo è naturale che non abbia l’etica tra i propri argomenti principali. Ma l’azienda matura, grande e internazionale, che vuole stare sul mercato per i prossimi 50 anni, deve investire anche in valore sociale, in responsabilità aziendale, per migliorare l’ambiente e via dicendo.

Applicando questi concetti al digitale, vedo che ci sono le aziende “storiche” che non hanno bisogno di essere convinte che l’etica sia parte integrante del business. Poi invece ci sono le aziende più giovani che hanno invece bisogno di essere convinte. Infine, ci sono le startup, che si poggiano in maniera molto solida sull’etica e che l’hanno compresa fin da subito. Insomma, i vecchi e i giovani hanno introiettato questi temi, la generazione di mezzo decisamente no. E se vuole crescere e prosperare, deve farlo. L’etica, inoltre, rendendo trasparenti i meccanismi decisionali e i processi di funzionamento, rende l’azienda attraente per il suo ecosistema di riferimento e ne assicura la sostenibilità nel tempo.

D. Ma non sarà anche un po’ una moda, un sistema per farsi un’immagine positiva con poco sforzo? In fin dei conti un’azienda che opera conformemente alla legge e che produce ricavi è per se stessa etica perché garantisce un beneficio alla società e a chi ci lavora…

R. Anche questo è vero, soprattutto perché abbiamo un sistema di leggi in Europa che permette un controllo accurato di eventuali scorciatoie. Però c’è anche da aggiungere che non esiste un limite al fare bene le cose: farle secondo le regole è il minimo, poi c’è un livello superiore che è quello etico. C’è un minimo salariale stabilito dalla legge? Certo, ma nessuno vieta di dare uno stipendio più alto del livello base. Nessuno vieta a un imprenditore di realizzare una mensa per i dipendenti. Per questo vorrei vedere questi giganti del digitale fare molto di più, mi dispiacerebbe se pensassero di limitarsi a quello che è legale perché potrebbero fare molto di più. Ad esempio, per la buona informazione e per limitare il proliferare delle fake news online. L’etica si può e si deve applicare sempre. Anche in Italia, dove il profitto viene sempre visto come qualcosa di negativo.

 

Il Ministro del lavoro e dello Sviluppo Economico, Luigi Di Maio (foto di Mattia Luigi Nappi), sostenitore del reddito di cittadinanza

 

D. A questo proposito, come vede il reddito di cittadinanza?

R. Partiamo da un assunto: che viviamo meglio di quanto non vivessero le quattro o cinque generazioni che ci hanno preceduto. E non sarebbe forse meglio che questo surplus venisse distribuito tra tutti? Allo stesso modo ho studiato il reddito di cittadinanza ben prima che diventasse il vessillo politico di una certa parte politica e mi sembrava una soluzione interessante ma con qualche controindicazione che può portare a disincentivare il desiderio di trovare lavoro.

D. Però in Germania funziona…

R. Forse. Ma non è proprio il reddito di cittadinanza. In Finlandia hanno provato a testarlo e non ha funzionato molto bene. E alla fine non è la panacea a tutti i mali. Bisogna capire come e dove si può fare e con che modalità. Nel nostro paese, ad esempio, è un po’ pericoloso, avrei preferito investimenti in infrastrutture, in supporto sociale, in un abbattimento della tassazione per i redditi più bassi, in formazione di base e avanzata. Qui in Gran Bretagna abbiamo un social welfare che è stato un importante lascito dei governi pre-Thatcher. Ed è rimasta l’idea che ci debba essere una sorta di tessuto sociale che sostiene quelli che finiscono per essere meno privilegiati. Ma è stato via via smantellato. In contesti comunque privilegiati come i paesi in cui viviamo, un minimo di redistribuzione della ricchezza è doveroso. Sono favorevole ad alzare le tasse per i ceti più alti, ad esempio, se questo si trasforma in una riduzione delle imposte per i meno abbienti. E qui torna in gioco l’intelligenza artificiale, che potrebbe essere sfruttata anche per scoprire gli evasori.

D. Ammesso che li si voglia davvero prendere…

R. Naturale, anche perché l’emersione di tutto il nero in Italia porterebbe nell’immediato a chiusure di massa e gente per le strade, con un saldo negativo per le casse italiane. Magari basterebbe fare una sorta di amnistia che renda conveniente uscire dal sommerso. E un ruolo fondamentale, comunque, lo deve giocare lo Stato.

D. Già lo Stato! Le rivoluzioni tecnologiche, e il loro impatto in termini sociali e culturali, richiedono una sua presenza importante. Ma negli ultimi 20-25 anni abbiamo cercato di demolire la sua funzione!

R. Sì, e la gente su questo argomento confonde il necessario col sufficiente, cioè lo Stato è sempre più necessario perché siamo sempre più connessi e globalizzati, ma anche sempre più insufficiente, per le stesse ragioni e nel senso che non ha forza sufficienti per soddisfare tutte le esigenze della popolazione. Da qui l’illusione che si possa vivere senza di esso. Niente di più sbagliato! Con la globalizzazione serve avere maggiore presenza dello Stato e maggiore coordinazione internazionale, cioè nel nostro caso più Unione Europea.

 

Floridi: “Ci vuole più collaborazione internazionale, nel nostro caso più Unione Europea”- Nella foto Palazzo Berlaymont, sede della Commissione Europea

 

D. Nei suoi scritti Lei parla di Quarta rivoluzione mondiale, riferendosi alla rivoluzione dell’Infosfera. Ma davvero stiamo vivendo una rivoluzione?

R. Le prime tre rivoluzioni – quella di Copernico, di Darwin e di Freud – sono di spostamento. Veniamo delocalizzati dal centro dell’universo con Copernico, dal centro del mondo animale con Darwin e dal centro del mondo mentale con Freud. Con l’Infosfera veniamo delocalizzati dal mondo dell’informazione o infosfera.

D. Ma che cos’è esattamente l’Infosfera?

R. È lo spazio delle informazioni in cui passiamo sempre più tempo. Prima veniva definito cyberspazio, oggi invece trovo che Infosfera sia più efficace per due motivi. Prima di tutto perché è sia analogica sia digitale e queste due dimensioni si mescolano senza soluzione di continuità. Inoltre, ci aiuta a superare l’idea che il cyberspazio aveva introdotto che per essere online era necessario connettersi. Oggi siamo sempre connessi. Per questo, insieme a Infosfera ho sviluppato il concetto di Onlife, cioè che un individuo che passeggia per strada convinto di non essere connesso, ha nel suo smartphone almeno una ventina di app che lo stanno geolocalizzando costantemente. L’Infosfera è uno spazio nuovo che stiamo costruendo e in cui passiamo sempre più tempo.

La politica sta avvenendo qui, così come le relazioni sociali, economiche e via dicendo. Tanto più l’Infosfera si allarga, tanto più diventiamo soggetti marginali perché gli agenti più funzionanti all’interno della struttura sono quelli digitali. Bisogna iniziare a immaginare gli individui come dei nodi, parte di una rete che a sua volta è immersa nell’Infosfera. Solo così si possono comprendere alcuni temi: il successo dei social network anche in politica, la capacità di fare business anche come piccola azienda connessa e così via.

 

Floridi: “L’Infosfera è uno spazio nuovo che stiamo costruendo e in cui passiamo sempre più tempo”

 

A un livello minimo, l’Infosfera indica l’intero ambiente informazionale costituito da tutti gli enti informazionali, le loro proprietà, interazioni, processi e reciproche relazioni. È un ambiente paragonabile al cyberspazio, ma al tempo stesso differente dal cyberspazio, che è soltanto una sua regione, dal momento che l’Infosfera include anche gli spazi d’informazione offline e analogici. A un livello massimo, l’Infosfera è un concetto che può essere utilizzato anche come sinonimo di realtà, laddove interpretiamo quest’ultima in termini informazionali. In tal caso, l’idea è che ciò che è reale è informazionale e ciò che è informazionale è reale.

D. E perché si tratta di una delocalizzazione di noi stessi?

R. Io già da qualche anno sto cercando di spiegare che le tecnologie digitali non sono soltanto straordinarie per quello che ci permettono di fare, ma anche per quello che ci permettono di capire nei confronti di noi stessi, di chi siamo, di chi vogliamo essere, di che società vogliamo costruire, delle ambizioni che possiamo soddisfare. Ho cercato di far capire che era una rivoluzione di autocomprensione, ho cominciato a guardare ad essa come se fosse una delocalizzazione di noi stessi: non siamo più neanche al centro dell’informazione, perché ci sono tanti altri oggetti che la trattano a volte anche più velocemente e in maniera più efficace.

D. Lei dice anche che le ICT stanno rendendo l’informazione sempre più responsabile…

R. Quanto più ciascuna informazione è distante appena un click, tanto meno saremo scusati dal non averla ricercata. Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione stanno rendendo l’umanità sempre più responsabile, dal punto di vista morale, per il modo in cui il mondo è, sarà e dovrebbe essere. Ciò è in qualche misura paradossale, poiché le ICT sono anche parte di un fenomeno più ampio, per cui la chiara attribuzione di responsabilità a uno specifico agente individuale è diventata più difficile e controversa.

∗ Ha collaborato Chiara Volontè














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1 commento

  1. Mi colpisce il percorso condizionante di un software. La stessa sensazione che ho avuto passando dalla foto a pellicola a quella digitale

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