La transizione green? Un suicidio industriale! Che fare?

di Marco de' Francesco ♦︎ L’Europa non può sostenere questa trasformazione perché mancano capitali e materie prime. Di cui abbonda la Cina, che venderà i suoi beni finiti a prezzi inferiori. Le soluzioni? Re-manufacturing e de-manufacturing, investimenti in r&s e mappatura delle risorse. Ma la Commissione deve aspettare che il progresso tecnologico sia reale, o si rischia la morte di intere filiere. Ne parliamo con Flavio Tonelli

Sulla Transizione Green occorre un bagno di realismo. Di per sé la decarbonizzazione, l’energia pulita, l’auto elettrica – sono tutti fenomeni potenzialmente positivi, che non possono che migliorare il mondo in cui viviamo. Potenzialmente, però: è la modalità, la strada imboccata dalla Commissione Europea a renderla deleteria, ai limiti del suicidio industriale. Travolto da una visione messianica e salvifica, l’ente guidato da Ursula Von Der Leyen ha trascurato di accertarsi che esistessero le basi, i fondamentali per una simile transizione: le materie prime – ad esempio i metalli per le batterie green ma anche le terre rare per i dispositivi high-tech – e i capitali. Per poi scoprire che delle prime (soprattutto le terre rare) non c’è traccia nel Vecchio Continente, e che quanto ai secondi nessun Paese europeo ne dispone abbastanza – visto che solo per l’Italia si parla di trilioni di euro.

L’Europa, così, si consegna alla Cina, che astutamente ha fatto incetta delle materie che serviranno alla transizione mondiale e quindi “europea”, e che saranno messe sul mercato a carissimo prezzo. Al contempo, la Cina venderà i suoi beni finiti a prezzi inferiori, disponendo dei fattori produttivi primari. Una follia che rischia di cancellare intere filiere industriali. Che si può fare, a questo punto? È difficile superare l’isterismo ambientale che ha ormai tratti millenaristici e che ha permeato gran parte della società del Vecchio Continente. La Commissione Europea dovrebbe prendere atto della propria incompetenza quanto a visione strategica e fare un passo indietro. Rallentare il maccanismo consentendo all’industria di mettere in moto innovazione tecnologica sostenibile economicamente e socialmente – come per esempio i processi di re-manufacturing e de-manufacturing – per recuperare e riutilizzare sistematicamente almeno una parte delle materie di cui l’Europa ha bisogno sotto forma di materie prime seconde.







Occorre, soprattutto, tempo – perché le transizioni, laddove vi sono implicazioni sociali, richiedono tempo. Il non aver agito per tempo (e questo vale per tutti i Paesi) non legittima l’agire di fretta e in maniera insostenibile di oggi: accelerare sì, ma laddove siano palesi infattibilità rallentare e aspettare che un progresso tecnologico reale si possa sviluppare. Pensare che dall’oggi al domani si possano sciogliere tutti i ghiacci della Groenlandia non agevola un pensiero critico e realistico di quella che si annuncia una transizione caratterizzata più da rischi che opportunità, almeno per l’Europa. Così la pensa anche Flavio Tonelli, docente al Dipartimento di ingegneria meccanica, energetica, gestionale e dei trasporti dell’Università di Genova; è il professore ordinario di Ingegneria per la Sostenibilità Industriale e Impianti Meccanici che nel 2007 (cioè 15 anni fa) presentava a studenti e aziende le prime, preoccupanti, risultanze di studi raccolti sul tema nell’ambito di una collaborazione di ricerca con l’Università di Cranfield prima e con quella di Cambridge qualche anno dopo – insieme al collega Prof. Steve Evans (che a Cambridge dirige il Centro per la Sostenibilità Industriale). Lo abbiamo intervistato.            

 

D: Qual è il lato debole della strategia europea per la transizione sostenibile (energetica)?

Flavio Tonelli, Università di Genova

R: La strategia europea sulla transizione sostenibile (di cui l’energetica è una fondamentale componente), quella che si può sintetizzare con il ‘Green Deal’, è anzitutto su molti aspetti critici infondata: non si sono fatti i conti che sarebbe stato necessario svolgere prima di definirla e metterla nero su bianco. Ci sono errori basilari, che ci costeranno parecchio. Si è iniziato a pianificarla venti anni fa, partendo da assunzioni opinabili: le materie prime si sarebbero potute acquistare in quanto commodity e perché presenti in ‘infinita quantità’ sulla Terra. Oggi sappiamo che questo non è vero; ma già nel 2005 vi erano studi che dimostravano la scarsità emergente di molte materie prime fondamentali. Le materie prime, le terre rare erano e sono sempre state asset strategici per l’industria di un Paese o di un Continente – anche se da poco più di un anno l’opinione pubblica si sorprende per questo. Lo sa bene la Cina ma lo sapeva anche la Commissione Europea nel 2018 quando ha pubblicato il report “European Commission, Report on Critical Raw Materials in the Circular Economy, 2018” .

 

D: Cos’ha capito la Cina, che noi non abbiamo compreso?

R: La Cina ha capito due decenni prima di noi (almeno) l’importanza delle materie prime e di quelle critiche. Possiede infatti circa il 35% delle terre rare esistenti al mondo; altri Paesi importanti sono il Brasile, il Vietnam, la Russia, l’India, l’Australia e gli Stati Uniti. Tuttavia, la Cina è responsabile di oltre il 70% della fornitura globale di questi elementi, grazie ad una ventennale e accorta politica di accaparramento (soprattutto in Africa) e di estromissione della concorrenza (soprattutto statunitense) con la saturazione del mercato.  Che attualmente la Cina Domina. E che l’Europa subisce. Ma il punto è che la teoria europea sulla transizione era già discutibile  di per sé.

Le critical raw material non sono in Europa. La Cina domina questo scenario

D: In che senso la teoria europea che ha portato alla transizione sostenibile era discutibile?

R: La transizione sostenibile, così come studiata dall’Europa, non è sostenibile sotto un profilo industriale, economico e sociale. Non è un gioco di parole: per realizzarla in linea con le aspettative europee a livello planetario e con le correnti tecnologie occorrerebbe probabilmente cinque o sei volte la quantità di terre rare e metalli scarsi disponibile sul pianeta. È un concetto che la Commissione Europea fatica a mettere insieme, perché è long distance e perciò esula dal pensiero cognitivo immediato e soprattutto mal si concilia con un blocco economico che di fatto dipende da altri per le materie prime, i metalli e le terre rare. Per esempio lo Zinco a prezzo sostenibile di fatto si esaurirà tra sette anni. Materiali ferro-magnetici necessari alle pale eoliche scarseggiano. Litio, Cobalto e Stronzio non costerebbero così tanto se abbondassero – e non parliamo dei metodi estrattivi utilizzati nei Paesi in cui sono presenti. L’obiezione a questa verità di fatto è che si potrebbe scavare di più. Certo, ma a quali costi? E se un giorno un Kg di Litio costasse 100mila euro, chi lo acquisterebbe mai – soprattutto in vista di una transizione di massa? Un processo trasformativo di massa dovrebbe considerare la capacità disponibile di materia prima a prezzo economico; non aver pensato a ciò ha determinato quindi due importanti conseguenze. 

Lista delle raw materia critiche per l’Europa (dati commissione europea)

D: Quali importanti conseguenze?

R: Anzitutto che la transizione “sostenibile green” sarà fruibile per una piccola porzione della popolazione; per le persone con importanti risorse economiche  che sì e no potranno esser il 2% dell’umanità – e quindi sarà implicitamente “non di massa”.  Sarà in grado di impattare sui problemi mondiali solo in minima parte. In secondo luogo, che questa rivoluzione non è sostenibile neppure a livello ambientale: se devo trattare tonnellate di materiale  per estrarre materie prime scarse, critiche o rare, ciò comporta, specie nei luoghi di estrazione,  un fabbisogno energetico cui si sopperisce utilizzando combustibili tradizionali. Ad esempio, per realizzare una batteria per auto green, che pesa anche più di mezza tonnellata, bisogna lavorare 10 tonnellate di sali per il Litio, 12 di minerale per il Rame, 2 per il Nichel, 15 per il Cobalto e così via, movimentando 200 tonnellate di terreno. E tutto ciò attualmente si verifica dove ci sono le miniere, con vecchie attrezzature a gasolio o alimentate da elettricità ottenuta da centrali a carbone. Insomma: si sposta l’inquinamento dall’autovettura in Europa all’attrezzatura in Asia o in Africa. Di fatto, considerando l’intero ciclo di vita, attualmente un veicolo “green” inquina più o meno come un veicolo euro 6b-7 senza contare che con l’attuale scenario energetico la ricarica viene effettuata utilizzando energia prodotta in larga parte con combustibili fossili. Come scrissi in un precedente articolo diversi mesi fa è una truffa ai danni del consumatore oltre ad un danno sociale ed economico. L’attuale configurazione che si sta tentando di mettere in atto non è basata su un pensiero razionale tecnologico e temporale realistico.

Economia circolare e critical raw material

D: Quindi la transizione green, nella versione EU, è insensata?

R: Al netto della Germania, tutto il resto dell’EU produce emissioni per il 4,5-4,8%%. Con la Germania, facciamo meno del 10%. L’Italia fa lo 0,8%. Se in EU, con un investimento multi-trilionario diminuissimo la CO2 del 50%, cambierebbe poco a livello globale, perché nel frattempo i la Cina e l’India, avrebbero comunque non solo compensato il nostro calo percentuale, ma complessivamente aumentato le emissioni globali. Basti pensare, a titolo di esempio, che sulla scorta dell’attuale ritmo di crescita delle emissioni indiane (attualmente a quota 13% su scala globale), New Delhi impiegherà meno di un anno per colmare gli sforzi tricolori al 2050. E nel frattempo la nostra industria sarebbe in ginocchio e nelle mani dei pochi paesi che possiedono ‘energia’ e ‘materie prime, critiche e rare’.

 

D: Quindi l’Europa finirà nelle mani di Pechino?

R: Non solo di Pechino. Riflettiamo sul meccanismo in atto: da una parte noi dobbiamo indebitarci per una transizione costosissima in tempi, modi e tecnologie che non sono razionalmente fondati, il che mette seriamente a repentaglio nel breve orizzonte l’intero tessuto industriale europeo. Dall’altra non possediamo le basi per questa trasformazione: le materie prime (soprattutto critiche e rare) e i capitali. Abbiamo appena detto che le prime sono nelle mani di pochissimi paesi al mondo, che ovviamente penseranno anzitutto a rifornire la propria industria, cedendo eventuali surplus  al mercato a prezzo altissimo, per annientare la concorrenza. L’attuale instabilità geopolitica gioca ulteriormente a sfavore di questa strategia per l’EU. Supponiamo che la questione di Taiwan giunga a tensione estrema: Usa e Cina sarebbero ai ferri corti, più di quanto non lo siano adesso; a quel punto, in ottemperanza ai nostri accordi l’EU si schiererebbe con gli alleati, e patirebbe la riduzione dei flussi dei fattori produttivi primari dai quali è dipendente. Abbiamo la capacità tecnologica (che per altro stanno recuperando anche gli altri paesi) ma a mancare saranno i fattori di produzione a monte. In questo o in altri casi simili cosa si farà? Si chiuderà tutto il sistema industriale? 

I prezzi delle raw material preoccupano le aziende (consultancy.uk, 2021)

D: Perché possiamo dire che la transizione sostenibile (green) è costosissima?

R: Probabilmente è così costosa da non potercela permettere, almeno per alcuni paesi EU. Secondo un recente studio Ambrosetti, occorre un miliardo di euro per ogni giga di potenza installata con le rinnovabili; e secondo un’altra analisi dello stesso gruppo professionale di consulenza, per la decarbonizzazione del Paese al 2050 servono almeno 3,3 trilioni di euro in termini di investimenti. Una somma enorme, pari a circa il doppio del Pil dell’Italia. Insomma, per mettere a terra il green sostenibile occorrerebbe indebitarsi con un “debito insostenibile”. È una follia totale.

 

D: E allora qual è la soluzione? 

R: Anzitutto bisognerebbe chiedere alla Commissione Europea un bagno di realismo: dal momento che l’EU è un blocco economico tra i più virtuosi su questi temi, possiamo adesso puntare ad una trasformazione del modello economico e produttivo con i tempi richiesti dall’industria e non dal fanatismo – salvaguardando l’altra nostra grande conquista, e cioè lo stato sociale evoluto. E questo sarebbe già un primo passo importante. 

L’Europa ha quote di fornitura molto besse in termini di critical raw material

D: E quale sarebbe il secondo passo?

R: Occorrerebbe fare un’analisi seria, una mappatura delle risorse che abbiamo a disposizione, come EU e come Italia, ragionando in termini di differenziazione: non necessariamente al costo più basso ma al minor rischio di dipendenza geo-strategica. Su questo il Mise ha recentemente stimolato una Azione. Portare avanti la transizione senza uno studio di questo genere è assolutamente imprudente e pericoloso. Ancora, bisognerebbe mettere in piedi i processi in grado di sopperire alla nostra cronica carenza di terre rare e materie prime, metalli almeno in quella minima parte da poterci garantire sopravvivenza economica e industriale – e poter ricercare, in caso di problemi, soluzioni alternative senza esser costretti a interventi radicali o a dover fermare o dismettere il nostro patrimonio industriale, economico e sociale.

 

D: E quali sono queste soluzioni per sopperire alla carenza di terre rare e materie prime critiche e ridurre i consumi energetici per la produzione di beni?

Airbus è una delle aziende che più applica, per la sua produzione, il remanufacturing

R: Ad esempio il re-manufacturing: significa smontare un prodotto o un componente già utilizzato, rimetterlo a nuovo e riportarlo sul mercato per diversi cicli vita. E soprattutto il de-manufacturing: in genere si intende una pratica in base alla quale un prodotto viene smontato e i pezzi ancora funzionanti vengono recuperati e rigenerati, in modo da poterli riutilizzare per la produzione di uno nuovo o similare; viene immesso sul mercato anche a un prezzo più basso ovvero riciclato per mitigare la scarsità di approvvigionamento cronica nella quale siamo e saremo. Per fare un esempio, in un frigorifero rotto c’è un vero e proprio tesoro: quasi 30 kg di ferro, 3 kg di rame, e 3 di alluminio e una certa quantità di fluoro-clorocarburi. Oggi con magneti e strumentazioni vibranti si può recuperare una quota compresa tra il 50% e l’80% dei materiali, con un forte abbattimento dei costi di produzione. Processi simili possono essere immaginati per recuperare materie prime e terre rare da batterie, pannelli solari, pale eoliche. Aggiungo che l’Italia è all’avanguardia per la progettazione e realizzazione di macchinari industriali ivi inclusi quelli che effettuano questo tipo di operazioni. Quindi non solo avremmo la tecnologia in casa ma potremmo anche svilupparla in anticipo rispetto ad altri paesi più indietro, per poi poterla rivendere tra un certo numero di anni quando la transizione sostenibile diverrà una vera emergenza e priorità per tutti. Oltre a questo, la parallela “industria della demanifattura” avrebbe il merito di creare posti di lavoro “speculari” a quelli tipicamente impiegati per produrre. Come è evidente saremmo all’avanguardia tecnologica, industriale, economica e sociale con diretti benefici di tipo ambientale. Naturalmente, si tratta di discorsi che riguardano non solo la singola fabbrica, ma un’intera filiera, che deve organizzarsi per far funzionare le cose in un certo modo.  Tutti i passaggi del sistema devono essere collegati e operativi all’unisono, correre alla stessa velocità, senza che nulla sia trascurato. Perché il meccanismo funzioni, bisogna mobilitare e collegare in rete le parti interessate di tutti i settori relativi ad una certa risorsa. Va creato un “circuito chiuso” o circolare. Per questo occorre tempo, perché bisogna risolvere delle questioni di grande complessità – e per queste non esistono risposte semplici. E tutto questo forse non basterà. 

D: E cosa servirà, infine?

R: Ricerca e sviluppo oltre che su nuovi processi sui materiali. Bisogna identificare tecnologie alternative a quelle che prevedono l’utilizzo di materiali di cui non disponiamo o di cui non disporremo (e questo vale a livello mondiale). Ad esempio, al posto delle batterie agli ioni di Litio, trovare qualcos’altro. Già si pensa ad accumulatori al grafene, o a elettroliti solidi ossidi, solfuri e polimerici. Sicuramente fra qualche anno ci saranno altre novità – sia sul versante della produzione e accumulo di energia che sull’utilizzo dei materiali. Certo che anche qui, per tradurre le invenzioni in una pratica industriale occorreranno dai dieci ai 15 anni. Per questo serve rallentare con la transizione green, prendere un po’ di respiro e renderla “sostenibile”.

Elementi chimici embedded nelle batterie a ioni di litio

D: Secondo lei la Commissione Europea allenterà i tempi della transizione? Come finirà?

R: Non so, perché con il Green Deal e con il Fit for 55 la Commissione sembra entrata in una fase di demagogia ambientalista che potrebbe far fallire il sistema industriale europeo. Ascolto ogni tanto dichiarazioni circa la nostra presunta capacità di far fronte a queste sfide che contrastano con i fatti di chi di industria e manifattura si occupa da decenni – e che da decenni studia e sviluppa soluzioni dimostrando una scarsa consapevolezza della gravità della situazione: non tanto dal punto di vista del principio ma dal punto di vista delle soluzioni. Credo che stia al mondo industriale della manifattura e della produzione alzare la testa e rendere palese che, a queste condizioni, la transizione “sostenibile” presenta più rischi che opportunità. Purtroppo non sono certo che questo mondo si mobiliterà o temo che lo faccia troppo tardi rispetto alle evidenze di cui disponiamo da almeno 15 anni. 














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