Dazi amari di Trump: fan più male all’industria italiana quelli alla Cina che non i diretti

di Laura Magna ♦︎ L'impatto della trade war sull'export italiano nel 2020 dovrebbe far registrare un calo dell'1,1% per le vendite verso gli Usa e dell'1% per quelle verso la Germania. Mentre a livello globale la frenata varierebbe tra lo 0,5 e l'1,7%. L'ipotesi più realistica è che il tycoon tirerà la corda, ma alla fine davanti all'Europa cederà...

L’Europa e l’Italia? Più che i dazi sul parmigiano devono temere quelli che Trump minaccia di imporre unilateralmente verso la Cina. I primi – concessi dal Wto per compensare gli aiuti di Stato europei ad Airbus, considerati una mossa scorretta verso l’industria Usa di Boeing – sono in qualche modo programmabili, i secondi creano incertezza e l’incertezza riduce gli investimenti, gli ordini, la produzione industriale. E questo può dare il colpo di grazia alle già ferite economie del Vecchio Continente, soprattutto alle più deboli, come quella italiana.

A maggior ragione se la trade war di Trump si dimostrerà più una strategia elettorale – e dunque durerà fino alle elezioni del 2020 con tira e molla continui che contribuiscono a tenere alta l’attenzione sul potere contrattuale del tycoon ma anche l’incertezza, nemica giurata della crescita. Qualcuno, tra gli osservatori del mercato, inizia a ritenere che questo scontro potrebbe trasformarsi in un new normal, capace di dare la direzione ai mercati battaglia dopo battaglia. Ne abbiamo parlato con Francesco Daveri, Professore di macroeconomia presso la School of Management della Sda Bocconi e con Patrizio Bianchi, ordinario di economia industriale e già rettore dell’Università degli Studi di Ferrara.







La domanda cruciale per capire dove porterà questa guerra, che Industria Italiana ha posto ai due economisti, è: a chi conviene dunque aumentare i dazi verso tutti e proseguire sul sentiero ritorsione dopo ritorsione? A nessuno, tantomeno a Trump che sta negoziando in maniera spregiudicata come è abituato a fare e che vuole presentarsi nei confronti del suo elettorato (gli abitanti della fascia centrale degli Usa con una prevalenza di agricoltura e il più colpito dal recente rallentamento macro), come il difensore della patria, per essere rieletto.

Questo gioco di potere sta facendo colare a picco le economie emergenti, che stavano trainando la crescita nel 2018; l’export che è la principale voce del Pil tedesco (che esporta il 48% del proprio Pil e non a caso è vicino alla recessione tecnica) e, per l’Italia, almeno dal 2010, l’unico fattore che cresce, mentre tutti gli altri contributori del Pil, ovvero consumi, investimenti pubblici e privati, registrano un netto segno meno. Tradotto in numeri, l’impatto della guerra commerciale sull’export italiano nel 2020 sarebbe dello 0,6% in meno; dell’1,1% in calo per le vendite verso gli Usa e di -1% per quelle verso la Germania, secondo i calcoli di Sace.

Esportazioni italiane. Fonte Sace Simest

Insomma, c’è poco da stare allegri. Anche perché in un recente incontro avvenuto nello Studio Ovale tra Sergio Mattarella e Donald Trump la tensione è stata palpabile, in particolar modo sulla vicenda dazi. Alla richiesta di una tregua dalla trade war da parte di Mattarella, che sta solamente danneggiando l’economia globale, il tycoon ha respinto la proposta. Gli Stati Uniti cercheranno un modo per andare incontro all’Italia, ma sui dazi Trump non sembra intenzionato, almeno per ora, a cedere.

Le ultime mosse della guerra commerciale: pace con la Cina?

Prima di sentire le tesi degli esperti che Industria Italiana ha contattato, facciamo un po’ di cronaca. I fronti di guerra aperti da Trump sul fronte del commercio sono diversi: il più importante è quello verso la Cina. Che pare giunto a una nuova tregua dopo la due giorni di negoziati a Washington che si è chiusa il 12 ottobre scorso. Trump, in quell’occasione ha congelato gli aumenti tariffari del 5% su 250 miliardi di beni cinesi importati negli Usa che sarebbero dovuti scattare il 15 ottobre. La Cina dal canto suo ha accettato di acquistare prodotti agricoli prodotti in Usa per 40-50 miliardi di dollari, come parte dell’accordo che sarà dettagliato nelle prossime settimane e che potrebbe essere firmato nel corso del vertice Apec previsto a novembre in Cile. Non si discuterà in questa sede della questione Huawei e resta incerto anche l’esito degli altri aumenti del 15% previsti da metà dicembre su 156 miliardi di dollari di importazioni dalla Cina.

Grafico di Oxford Economics che stima i cali per le economie globali. Fonte Oxford Economics

… e dazi sui prodotti europei

Nel frattempo, precisamente dal 18 ottobre, si è intensificato un secondo fronte di battaglia che riguarda direttamente l’Europa: da quella data scatteranno infatti i dazi Usa su beni di importazione dell’Ue per 7,5 miliardi di dollari. Dazi che sono stati autorizzati dal Wto in rappresaglia per gli aiuti di Stato concessi dall’Europa ad Airbus, che ha danneggiato in maniera seria l’industria aeronautica Usa rappresentata in particolare da Boeing. Una guerra quella tra Airbus e Boeing che dura da 15 anni: la sentenza arriva in un momento delicato e rischia di rendere più tese le relazioni commerciali tra gli Stati Uniti e l’Unione europea. Ma non ha un potente effetto in termini economici, almeno per l’Italia, perché non ha impatti sull’industria ma riguarda solo alcuni beni alimentari. Intanto Parigi ha già annunciato che metterà a punto, in concertazione con l’Unione europea, “misure di ritorsione” contro i dazi americani.

 

Il costo dei dazi per l’economia globale

In generale, il costo della trade war per le diverse economie è variabile in base alle tariffe che saranno effettivamente applicate e alle ritorsioni che gli Stati faranno verso gli Usa, ma in ogni caso è pesante e potenzialmente insostenibile, in particolare per gli Usa. Secondo Oxford Economics, per il Paese che ha dato il via alle aggressioni il costo, nel 2020, può variare dallo 0,3% del Pil nella situazione attuale allo 0,5% in caso di applicazione delle maggiori tariffe su tutti i beni importati dalla Cina, fino al 2,1% nello scenario Armageddon, in cui la guerra si estenda a tutto il mondo. Per la Cina il prezzo da pagare varia tra lo 0,8% al 2,5%, passando per l’1,3% dello scenario intermedio. La frenata per l’economia globale varierebbe tra lo 0,5% e l’1,7%.

Francesco Daveri, Professore di macroeconomia presso la School of Management della Sda Bocconi. Foto di Niccolò Caranti

Trump fa la voce grossa per raccogliere voti in vista delle elezioni 2020 

«Le previsioni sull’andamento economico ci dicono che il tasso di crescita degli Usa sia crollato in tre anni dal 3% all’1%», dice a Industria Italiana Patrizio Bianchi, ordinario di economia industriale e rettore dell’Università degli Studi di Ferrara. «Molti sostengono che il rallentamento sia dovuto alla politica di Trump che ha spinto lo scontro con la Cina, poi di fatto estendendolo a tutti i Paesi asiatici e oggi anche verso l’Europa, e questo ha avuto effetti di rallentamento complessivo dell’economia Usa, che come tutte le economie mondiali è spaccata in due. Da un lato ci sono imprese che continuano a guadagnare dalla globalizzazione e hanno decentrato la produzione e dall’atro quelle che hanno perso terreno, in sostanza la Costa orientale versus quella occidentale. Il corpo centrale americano, a prevalenza agricolo, che ha votato ed eletto Trump ed è legato a un’economia vecchia è quello che ha perso di più. Rispetto a questa sua platea, ora il presidente si trova, nel 2020, anno di nuove elezioni, con un’economia in decelerazione, con una fortissima critica da parte degli ambienti politici avanzati e con la necessità di far vedere che sta facendo la voce grossa». La battaglia ingaggiata contro l’Europa e che colpisce l’agricoltura è diretta in realtà verso un altro e più sensibile obiettivo. «L’attacco ai prodotti alimentari colpisce di più l’opinione pubblica, ma è il settore aeronautico l’obiettivo, come dimostra il fatto che gli effetti negativi maggiori sono su Germania e Francia e dunque Paesi che sono esposti su fronte aereo. Insomma, Trump sta semplicemente dando un segnale di protezione verso gli elettori con una componente molto violenta di campagna elettorale, che è tipica dei populisti. Lui si pone come difensore dei poveri, ma l’economia Usa è in forte crisi».

Effetti della trade war sull’export italiano. Fonte Sace Simest

Le responsabilità dell’Europa

Bianchi è convinto che tutto sommato i maggiori dazi sul parmigiano, di cui le cronache riempiono la stampa generalista in questi giorni, gridando all’allarme, siano un falso problema: «è anche indubbio che si tratta di prodotti che sul mercato americano sono talmente posizionati in alto che verranno acquistati ugualmente: il parmigiano costa 40 euro al chilo, contro i 20 del parmesan, e l’aggravio tariffario è nell’ordine dei 4 o 5 dollari al chilo. Semmai, in un negoziato dovremmo porre l’accento sulla tutela dei marchi, evitando i fake, che sono unfair». Trump aprirà un negoziato su tutto e lo farà avendo in mente di andarci con una posizione di forza. «Quello che non è accettabile è che si proponga come un campione dell’economia di mercato, mentre fa il protezionista. A ben vedere però il problema siamo noi, l’Europa e la nostra capacità di trattare. L’irlandese Phil Hogan, che è il Commissario al trade della nuova Commissione, dovrà negoziare con Trump: gli irlandesi sono i più in difficoltà, schiacciati tra la vicenda assurda della Brexit e la situazione degli Usa che credevano potessero essere un riferimento nel momento in cui gli inglesi si fossero fatti da parte. Hanno dunque anche loro un bisogno forsennato di aprire un negoziato vincente e questo diventa cruciale nel momento in cui la partita passerà dichiaratamente nelle mani di Hogan. Non sarà facile ma è una trattativa in cui tutti si presentano con le carte truccate e l’Europa si presenta fortemente disunita. Tutto dipende da qual è la linea che l’Europa vuole giocare: la trattativa con gli Usa può essere complicata, ma se all’interno dell’Europa prevalgono i sovranismi, questo è certo, non si va da nessuna parte», conclude Bianchi.

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Patrizio Bianchi, Patrizio Bianchi, ordinario di economia industriale e già rettore dell’Università degli Studi di Ferrara

Sono i dazi unilaterali il vero problema 

Non solo l’aggravio sul parmigiano è un falso problema perché marginale, ma a danneggiare l’Europa non sono tanto i dazi compensativi, in quanto prevedibili in qualche misura, ma quelli «imposti unilateralmente dagli Usa anche sulla Cina: mettono in crisi il modello tedesco, che esporta le auto proprio verso Pechino. In un mondo di questo tipo esportare il 50% del proprio Pil è un problema», dice Francesco Daveri, Professore di macroeconomia presso la School of Management della Sda Bocconi. E non è un caso che la Commissione presieduta dalla tedesca Ursula von der Leyen sia diventata molto più attenta ai temi delle infrastrutture, della sostenibilità e degli investimenti in energia alternativa e nell’economia circolare. Una necessità che potrebbe intaccare l’attenzione maniacale dei tedeschi sull’equilibrio di bilancio in Germania e in Europa: insomma la crisi potrebbe convincere i tedeschi che la strada giusta sia fare deficit, ma soprattutto quello che emerge è un’idea comune di Europa. Che è ciò che serve anche per uscire vincente da un negoziato con Trump sull’aumento delle tariffe che riguardano direttamente l’Europa. «Trump sta negoziando, lui è uno spregiudicato che tira sul prezzo come ha sempre fatto nella vita da immobiliarista o imprenditore, quello che sa fare bene e incidentalmente lo fa da presidente degli Usa. Per riuscire a spuntarla bisogna chiedersi quali siano i suoi interessi», continua Daveri.

Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea

Ma non rischiamo un nuovo ‘29

«L’Europa dal canto suo sta imparando a difendere i suoi di interessi, anche grazie alla palestra della Brexit: ha imparato che la coesione aiuta per ottenere risultati migliori e come sta aiutando nel negoziare l’uscita del Regno Unito, può funzionare come approccio nei confronti degli Usa. Per il resto l’Europa ha bisogno degli Usa e viceversa, sono necessarie occasioni di cooperazione: che gli Usa vadano per conto loro mi sembra difficile ed è più plausibile che considerino l’Europa un partner strategico e non un concorrente da battere. Dunque alla fine si troverà un accordo e non assisteremo alla fine della globalizzazione: si tirerà la corda finché è possibile. Strategia che per Trump è andata bene con Canada e Messico ma non avrà la stessa evoluzione con Cina ed Europa che sono difficili da contrastare. La recrudescenza di effetti negativi sui mercati ci sarà finché c’è la trade war, ma non si arriverà a una condizione simile a quella sperimentata negli anni Trenta con un calo del commercio del 60% e prezzi giù del 40%, che portarono a un crollo del Pil del 25% e la disoccupazione al 25%. Per vari motivi: in quegli anni il dazio massimo era al 30% e fu portato al 40%, oggi si parla di aumenti massimi dal 10 al 25%, rilevanti ma che comunque si fermano su livelli molto più bassi. Inoltre ci sono banche centrali che conducono politiche monetarie attive e di sostegno. Alla fine Trump cederà. Non esiste un’altra possibilità».

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Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump













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