Dati: è l’uomo la macchina di riferimento

di Gaia Fiertler ♦ Il rapporto con i dispositivi intelligenti – personal assistent smart, chatbot e robot collaborativi – al centro della Digital week di Milano. Chi saprà sfruttare al meglio, acquisendo le competenze, la relazione con la macchina, sarà favorito nella data driven society del futuro. Un futuro comunque lontano per le Pmi, secondo i dati di Assolombarda e Mecspe sull’alfabetizzazione digitale delle imprese

È stato l’uomo il vero protagonista della Digital week di Milano, (vedi qui) la kermesse che dal 13 al 16 marzo ha portato in città oltre 500 eventi dedicati al mondo digitale, promossi dai principali operatori, provider e consulenti in campo digitale. Di fronte a dispositivi sempre più intelligenti, come personal assistent smart, chatbot e robot collaborativi, è comunque l’uomo che guida, che programma e che costruisce gli algoritmi sottostanti. E non può non tener conto delle esigenze e della complessità dell’umano nella costruzione del sistema che interagirà con lui, pena l’insuccesso della macchina e la sua non adozione.

Sembra di parlare di una relazione fra persone ma, anche nell’interazione dell’umano con un sistema che impara (machine learning), si creano dinamiche relazionali. Così, i designer di sistemi intelligenti iniziano a fare un mea culpa lungo questo digital journey inedito per tutti. In sostanza, sceglierli e adottarli non è solo un problema di cultura digitale e di abitudine, ma di antropologia, di psicologia e di intelligenza emotiva, componenti che vanno considerate in fase di programmazione. Le macchine per poter collaborare prima di tutto devono essere accettate e per essere accettate devono diventare più flessibili e “disponibili”, in modo da creare una relazione di fiducia con l’umano.







 

Chatbot

 

Assistenti personali di fiducia

Questa focalizzazione sulla centralità dell’uomo nell’interazione con la macchina, intesa come funzionale e supportiva e quindi adottata nelle organizzazioni del lavoro, oltre alla sperimentazione del progetto pilota, l’ha spiegata bene durante la Digital week Luca Mascaro, founder e ceo di Sketchin, società di strategia digitale del Gruppo di consulenza Bip Business Integration Partners. «Quando costruisci una relazione crei un sistema dinamico, che deve sapersi adattare al comportamento mutevole dell’altro. Il Gps, per esempio, il navigatore satellitare, ricalcola la strada se tu umano decidi di non seguire il suo percorso. Il sistema è programmato sul try and train e non su un comando rigido. E questo lo rende accettabile.»

 

Luca Mascaro, Ceo Sketchin

 

«Bisogna progettare e costruire sistemi che proteggano il libero arbitrio, che costruiscano fiducia attraverso la sperimentazione, sistemi insomma di cui siamo disposti a riconoscere l’intelligenza se si adattano a noi. Un altro aspetto delicato è quello della privacy. Se non si sta attenti nella progettazione, si rischia che assistenti personali vengano vissuti come “spioni” e, di conseguenza, non vengano accettati né adottati. A volte l’errore di progettazione consiste nell’impiegare il potenziale della tecnologia come interfaccia semplice, anziché sfruttarlo per creare una relazione fra i due interlocutori, l’uomo e l’intelligenza artificiale, e fornire un servizio davvero utile.»

Poiché le percentuali di adozione estesa di questi sistemi nelle aziende, oltre un primo progetto pilota, sono ancora basse, Sketchin ha messo a punto sei principi di design per non incorrere in errori che potrebbero dimostrarsi fatali  per la macchina: garantire apertura e completezza dell’informazione, lasciare il diritto di libertà dell’umano, permettere all’utente di creare fiducia attraverso la sperimentazione, creare una relazione dialettica e collaborativa tra umani e intelligenza artificiale, quantificare il valore del suggerimento, assicurare davvero la privacy. Tutto questo oggi la tecnologia può farlo, sta all’uomo che programma tenerne conto.

All’uomo resta la capacità decisionale, relazionale e interpretativa

Conversazioni, dimostrazioni pratiche, scenari futuristici non più neanche troppo futuristici, snocciolamento di dati sui ritardi italiani e sulle opportunità da cogliere grazie ai nuovi ecosistemi digitali, aperti e intelligenti, hanno invaso Milano. Con un unico filo rosso lungo tutti gli eventi: se non si restituisce all’uomo la sua centralità, preparandolo alla gestione del digitale e delle sue implicazioni, la tecnologia potrà poco nello sviluppo del business e delle opportunità future, e anzi potrà ritorcersi contro. Alla fine è sempre l’uomo che governa i dati, che programma la macchine, che costruisce algoritmi e che mette e toglie pregiudizi (i cosiddetti “bias”) dai sistemi automatici.

Le competenze tecnico-digitali devono diventare patrimonio diffuso, ma da sole non bastano per far funzionare la fabbrica digitale. Resta all’uomo il potere delle capacità interpretative e decisionali, della relazione, della visione, dell’indirizzo da dare alle tante tecnologie a disposizione. Ma queste facoltà  umane vanno allenate nel nuovo contesto economico che ha nuove regole, perché è interconnesso, aperto e velocissimo, con nuovi modi di fare business e di trarne profitto, per esempio sempre più dal servizio derivato dalla macchina, che non dalla produzione e vendita della macchina stessa. È dunque l’approccio mentale che deve cambiare, il modo di formare le competenze che muta, perché cambiano le stesse skill richieste, sempre più combinatorie e trasversali, non solo specialistico-verticali.

 

Stefano Venturi, vicepresidente Assolombarda e amministratore delegato Hpe Italia

 

Il potere del dato, ma con la persona al centro

Dopo la nascita del world wide web (w-w-w) alla metà degli anni Novanta, creato al Cern di Ginevra, e dopo i social che, più di recente, hanno disintermediato buona parte dei rapporti economici, ora è l’epoca dei dati destrutturati da interpretare correttamente. Mette sull’avviso Stefano Venturi, vicepresidente Assolombarda e amministratore delegato Hpe Italia, in apertura dell’evento “Digital Jump, quando il digitale rivoluziona il modo di fare business”: «Siamo entrati nell’era delle data driven organization e una terza tempesta è in arrivo, quella di una moltitudine di dati da raccogliere, leggere, interpretare e usare in modo diverso, con una nuova cultura e competenze adeguate. Tutti dovranno possedere una base di skill digitali, dal biologo che dovrà saper fare coding all’avvocato che dovrà usare bene la rete per ricercare le informazioni che gli servono, ma sarà sempre più centrale l’uomo nell’utilizzo che farà dei dati stessi (si veda ad esempio qui per la vision di Hpe).»

«Chi saprà padroneggiare questa scienza avrà il super potere e il suo business sarà premiato, con il cyber crime come minaccia costante da combattere. La trasformazione è velocissima e richiede persone “digitali”, che non sono per forza nativi digitali, possono essere anche digitali “adottati”. Non c’è età per la propensione all’innovazione, servono curiosità, apertura e resilienza. Senza queste qualità gli stessi nativi digitali tra cinque anni rischiano di essere obsoleti.» In questo scenario di cambiamento veloce e continuo, le professionalità saranno sempre più «combinatorie», con skill miste, ibride, fatte di un sapere verticale per technicality, ma anche orizzontali per gestione, connessione con il contesto e con l’open innovation.

 

Ernesto Marinelli, Svp, Global Hr business partner for Emea, Mee, Greater China Region di Sap

 

Siamo già oltre la multidisciplinarietà

Nell’incontro “Augmented Humanity, talento e lavoro nella società digitale”, organizzato da Sap, si è ribadita la centralità dell’uomo nella dinamica con macchine e sistemi automatici nella gestione aziendale, puntando a digital skill più soft che hard, dove quelle hard sono ormai date per scontato. «Sono tre le caratteristiche che deve avere oggi il candidato ideale – commenta Ernesto Marinelli, Svp, Global Hr business partner for Emea, Mee, Greater China Region di Sap – la capacità di comprendere e riconoscere l’impatto della tecnologia sul contesto e sulla qualità della vita delle persone; la capacità di intuire i trend, di anticiparli e di cavalcarli e infine l’intelligenza emotiva, il sapersi mettere nei panni degli altri. Il nostro vantaggio competitivo sulle macchine è proprio la nostra capacità di provare empatia».

 

Gianna Martinengo, fondatrice e presidente di Didael Kts

 

Alla conversazione ha preso parte anche Gianna Martinengo, fondatrice e presidente di Didael Kts e ideatrice di Women&Technologies, che ha spiegato come oggi i team di lavoro abbiano perso la stessa più recente e incoraggiata multidisciplinarietà, perché i confini delle funzioni e delle professionalità sono sempre più labili.  Oggi nella stessa figura professionale devono convivere competenze miste, hard e soft, trasversali oltre che verticali, superando ormai per sempre la divisione a sylos dell’organizzazione del lavoro pre-digitale. «Sarà la relazione a salvarci nella competizione con le macchine che, per il resto, ci imitano benissimo, e anzi svolgono tanti compiti meglio di noi, in modo più preciso e sicuro», spiega Martinengo. Anche se c’è già chi spinge la macchina sul potenziale relazionale, forse, in questa sottile e complessa abilità manterremo la nostra distintività.

 

 

Le paure che frenano gli investimenti

 Tuttavia, rispetto alla narrazione sul digitale e sulle figure e team di lavoro che servono nelle data driven organization, i dati sull’attuale livello di digitalizzazione delle aziende lombarde sono ancora disarmanti. Dall’Osservatorio sulla digitalizzazione di Assolombarda in collaborazione con Pwc, risulta che il 96% delle aziende lombarde ha la connessione Internet, ma solo nel 26% dei casi è superiore ai 30 megabyte ed è scarso il cablaggio interno. Solo il 14% ha una piattaforma integrata con i fornitori, il 67% non ce l’ha, ma l’adozione aumenta al crescere delle dimensioni aziendali. Solo il 19% promuove o vende i propri prodotti con il canale digitale, il 24% non lo fa per scelta e il 57% dice non essere  adatto al proprio business. Il digital marketing è affidato prevalentemente al sito web (91%) e quasi uno su due usa i social, ma l’utilizzo di strumenti come il Seo, il blog e le app mobili scendono sotto il 20%.

 

 

Risulta invece maggiore la dimestichezza con gli strumenti digitali nella gestione del post vendita (72%). Quanto allo smart manufacturing, su 239 aziende manifatturiere intervistate solo il 27% è dotata di macchine a integrazione informatica, solo il 27% ha una figura interna specializzata nella digitalizzazione della produzione e solo il 22% ha implementato il paradigma di Industria 4.0. Infine, solo il 6% (14 aziende) presenta tutti questi e tre fattori rilevanti per affrontare la digital trasformation dell’industria, mentre una su quattro (24%) non ha adottato nessuna tecnologia rilevante per l’Industria 4.0.

 

 

I principali fattori di resistenza individuati dall’Osservatorio Mecspe, la fiera dell’innovazione che si terrà a Parma dal 28 al 30 marzo, che ha svolto una ricerca sulle pmi lombarde, sono i seguenti: incertezza sui benefici tra investimenti e benefici (54%), mancanza di competenze interne (28%), investimenti richiesti troppo alti (26%), mancanza di infrastruttura tecnologica di base (26%), arretratezza delle aziende con cui si collabora (14%), mancanza di una visione chiara dal board (12%), dubbi sulla sicurezza dei dati e paura di attacchi (7%). Per il 46% degli intervistati è ancora l’imprenditore a capo della trasformazione digitale in azienda, mentre solo il 10% ha una figura dedicata (direttore IT, Cio o responsabile dei sistemi informativi), l’8,9% l’affida al direttore di produzione,  per il 5% è in capo al direttore tecnico e solo il 3% ha in casa un chief digital officer. Di strada digitale ce n’è ancora tanta da fare nelle nostre pmi italiane.














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