Che cosa c’è dietro la ritirata di Fiat dall’Italia, l’acquisizione di Chrysler e molte delle scelte condotte da Sergio Marchionne

di Filippo Astone ♦ L’ex Ceo Fca è controverso. Salvatore dell’azienda o colpevole dell’abbandono del Paese? Occorre un ragionamento articolato, tenendo presenti le responsabilità degli azionisti. Il direttore di Industria Italiana lo aveva fatto ne «La Disfatta del Nord», un libro pubblicato (2013) da Longanesi, del quale riproduciamo qui alcuni passaggi (cap.9)

Sergio Marchionne è stato uno dei migliori manager del mondo contemporaneo. E’ riuscito a mantenere Fca protagonista del mercato automobilistico, a risanarla, a continuare a produrre auto pur in assenza di investimenti da parte degli azionisti Agnelli-Elkann e partendo da una situazione fallimentare. I primi reali investimenti dell’era Marchionne, infatti, sono stati annunciati solo un paio di mesi fa, con la pubblicazione di un maxi-piano industriale da alcuni miliardi di euro per l’auto elettrica (che fino ad allora sembrava addirittura esclusa dai piani Fiat), la guida autonoma, la digital transformation e altre importanti e ineludibili innovazioni. Prima di questo, sostanzialmente niente. L’analisi della sua figura – e di scelte che sono costate tantissimo a un Paese che tanto ha dato prima a Fiat e poi a Fca – deve partire da tali dati di fatto. La loro disaminaa era stata condotta da chi scrive nel 2013, all’epoca della pubblicazione per Longanesi de “La Disfatta del Nord. Corruzione, clientelismo, malagestione“.

Qui di seguito riproduciamo il capitolo Nove, che racconta le motivazioni dell’annullamento del piano “Fabbrica Italia” (che doveva portare nel nostro Paese ben 20 miliardi di investimenti, un vero e proprio Piano Marshall, che se fosse stato attuato avrebbe cambiato le sorti dell’Italia), i retroscena dell’acquisizione di Chrysler a un prezzo sostanzialmente azzerato (il vero prezzo, infatti, era portare il cuore di Fiat in America) e la tragedia del capitalismo italiano privo di grandi imprenditori. Quanto scritto qui, ovviamente, è datato al 2013, e quindi può contenere qualche fatto o numero ormai superato. Però, a nostro avviso, è ancora assai utile per capire. Il libro, per chi fosse interessato, è ovviamente introvabile in libreria. Però è facilmente acquistabile su Amazon, Ibs e altri siti analoghi.







 

 

Fiat abbandona il Piemonte e i vecchi sogni industriali

«Noi fabbrichiamo automobili, le fabbrichiamo in Italia e rappresentiamo Torino.» Parola di Gianni Agnelli, l’Avvocato. Era il 1988, ma sembrano passati secoli. All’epoca, gli Agnelli erano imprenditori che, pur essendo generosamente aiutati dallo Stato, comunque investivano veri capitali in autentiche fabbriche, assumendosi rischi e producendo occupazione e sviluppo. Poi sono diventati finanzieri globali, abili nel maneggiare affari e compravendite. Sempre più indifferenti alle sorti del territorio e degli italiani che per tutta la loro storia li hanno sempre sostenuti e sovvenzionati. E indifferenti alle sorti del Piemonte e di Torino, che da quando è cominciata la ritirata di Fiat (almeno 15 anni prima dell’avvento di Marchionne) sono entrati in una spirale di decadenza, di impoverimento, economico e culturale. I tentativi di trovare strade diverse (turismo, elettronica) si sono dimostrati vani. Persino gli enormi investimenti fatti in occasione delle Olimpiadi invernali non hanno avuto nessun effetto moltiplicatore del turismo. Torino – che un tempo era una ricca e gloriosa città manifatturiera – oggi sta diventando una sorta di appendice dormitorio di Milano. E si svuota progressivamente di popolazione.

Ma torniamo alla questione Fiat

Questa metamorfosi degli azionisti Fiat segna la crisi del vecchio Piemonte manifatturiero e il definitivo declino dell’identificazione del Nord con l’idea di sviluppo e di grande industria. Non a caso negli ultimi cinque anni la manifattura nazionale (centrale per ogni speranza di ripresa economica) ha perso il 20% della capacità produttiva. Le fabbriche che cinque anni fa valevano il 21% del Pil italiano, ora valgono appena il 16%. Purtroppo in Italia, i settori industriali importanti sono morti o ridotti al minimo per colpa di una classe dirigente miope, incapace di fare politica industriale o progetti a lungo termine. E di una élite dirigente economica che si finge migliore, ma che rappresenta solo l’altra faccia della stessa medaglia.

La ritirata del piano “Fabbrica Italia” che prevedeva investimenti per 20 miliardi di euro, un piano Marshall in grado di cambiare le sorti del paese

Settembre 2012: la metamorfosi è pubblica

La metamorfosi è diventata pubblica nel settembre 2012, quando Fiat è stata costretta a dichiarare che il mitico piano «Fabbrica Italia» (20 miliardi di investimenti che, se fossero stati veri, per l’economia italiana sarebbero stati meglio del Piano Marshall) non sarebbe mai diventato realtà, che non c’era alcuna intenzione di fare investimenti significativi e che forse in futuro uno o più dei cinque stabilimenti superstiti sarebbero stati chiusi.2 Con queste dichiarazioni, per la prima volta in oltre un secolo di storia, avveniva la separazione unilaterale ed esplicita fra gli interessi dell’azienda e quelli del Paese. Questo nonostante il gruppo fosse tutt’altro che in crisi: Fiat spa ha chiuso il 2011 con 59,6 miliardi di ricavi; 1,65 miliardi di utile netto e ben 20 miliardi di liquidità disponibile in cassa (ironia della sorte: proprio la stessa cifra che sarebbe servita per finanziare Fabbrica Italia). Ancora più brillanti i risultati 2012, primo anno di consolidamento di Fiat e Chrysler insieme.

Un tracollo tutto europeo

Le vendite Fiat in Europa sono scese del 17%, a fronte del 9% perduto dal mercato auto nel suo complesso. E in Italia la produzione è crollata. Se nel 2011, infatti, nel nostro Paese sono state fabbricate 485 mila autovetture, nel 2012 il numero è sceso a 408 mila. Il dato più impressionante è però sull’arco dei cinque anni: dal 2007 al 2012 la produzione italiana si è più che dimezzata, scendendoda 910 mila a 408 mila pezzi. Con questi numeri, l’Italia si posiziona al ventiduesimo posto nella classifica mondiale dei produttori di automobili. Nel 2004, quando Marchionne si è insediato, l’Italia era all’undicesimo posto.E non basta. Ritornando ai dati di vendita la Fiat rivela una particolare debolezza in Europa. Se non si considera l’Italia, infatti, la quota di mercato di Fiat nel Vecchio Continente è appena del 3%.

 

La palazzina del Lingotto
Fiat sta levando le tende dall’Italia

Messa ufficialmente una croce sopra Fabbrica Italia, i più hanno compreso che il gruppo Fiat stava levando le tende dal Paese. Un abbandono non repentino e non totale, certo. Ma di certo progressivo e inarrestabile. Nel momento in cui stiamo chiudendo le bozze di questo libro, Marchionne sta negoziando col Fondo Sanitario Veba (legato al sindacato americano Uaw) il prezzo da pagare per rilevare il 41,5% di azioni necessarie a conquistare la maggioranza assoluta di Chrysler. Che poi diventerà Chrysler-Fiat e sarà quotata alla borsa di New York. Poco tempo dopo, nel 2015, Marchionne (così almeno ha annunciato) cederà la guida di Chrysler-Fiat. Compiuto il suo capolavoro finanziario, il manager lascerà nelle mani di altri le questioni che seguiranno: la ritirata dall’Italia, i grandi investimenti necessari per rinnovare i modelli Chrysler, ancora oggi frutto di investimenti quando la casa automobilistica americana apparteneva ai tedeschi di Daimler. È molto probabile che la sede legale del nuovo gruppo venga portata fuori Italia (la sede più gettonata sembra essere l’Olanda). E che gran parte delle uscite fiscali del nuovo gruppo vada in Stati diversi dall’Italia.
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La decisione di abbandonare l’italia si spiega in buona parte con gli accordi “americani” per l’acquisizione di Chrysler

Da dove nasce la decisione: il Contrattone

Tuttavia la vera svolta non è avvenuta con l’aborto ufficiale di Fabbrica Italia, bambino che non era mai stato veramente concepito. No, la vera svolta è stata messa nero su bianco tre anni prima. Ovvero il 10 giugno 2009, quando è stato firmato il contratto di acquisizione (da qui in poi il Contrattone) di Chrysler da parte di Fiat. In quel contratto – passato sotto silenzio – era già prevista la progressiva e inarrestabile fuga dall’Italia da parte di Fiat. In quel giorno, il 10 giugno 2009, la vecchia e gloriosa fabbrica automobilistica italiana ha stabilito di ridurre al minimo la sua presenza nel Paese di origine, dove ancora oggi dà lavoro a 62.000 dipendenti, meno di un terzo dei 197.000 dell’intero gruppo Fiat-Chrysler.

La scelta non è stata fatta solo per le motivazioni che verranno dichiarate ufficialmente, e cioè il crollo del mercato automobilistico, la globalizzazione, l’alto costo del lavoro, le assurde pretese di sindacati poco inclini alla flessibilità, la Confindustria cattiva, l’assenteismo nelle fabbriche meridionali durante le partite di calcio e via dicendo. Non si è trattato di una decisione figlia della crisi (un comodissimo pretesto) ma di una scelta di convenienza nell’ambito di un negoziato. La decisione di levare le tende dall’Italia è stata presa in virtù delle clausole del contratto firmato dalla Fiat, dai sindacati americani (all’epoca azionisti di maggioranza di Chrysler) e dai governi di Usa e Canada. Quel contratto dava a Marchionne la possibilità di acquisire Chrysler quasi senza versare denaro nella prima fase, e spendendo una cifra contenuta nella seconda. In cambio, veniva chiesto di portare il più possibile negli Stati Uniti.

Il Contrattone tenuto lontano dai riflettori

Come vedremo più avanti con maggiori dettagli, la terza fabbrica automobilistica americana è stata conferita a Fiat in due fasi. Nella prima (tranche del 35% del capitale), Fiat non ha versato contanti (come avviene di solito) ma ha conferito motori e tecnologie e una serie di privilegi concessi ai veicoli e ai lavoratori Chrysler a discapito delle auto e dei dipendenti Fiat. Leggendo il contratto, si vedrà che tra le condizioni previste c’è l’apertura della rete commerciale di Fiat in Brasile ai veicoli Chrysler, riducendo le vendite di quelli italiani, il sostanziale impegno a favorire i lavoratori e le fabbriche americani rispetto a quelli italiani, la garanzia di massima occupazione delle fabbriche americane a discapito di quelle italiane.

Nella seconda fase (tranche del 21%), il prezzo pagato da Fiat per le azioni è inversamente proporzionale alle auto prodotte in Italia e direttamente proporzionale a quelle fabbricate in America. Detto in altri termini: meno vetture si fabbricano in Italia, meno denaro spendono gli Agnelli per comprare Chrysler. Non a caso, a partire dalla firma dell’accordo sui modelli Fiat, la politica di prodotto è stata quasi zero, meno del minimo indispensabile. Mentre sui modelli americani Chrysler è stata fatta la massima politica di prodotto possibile. E infatti, come si vedrà con maggiori dettagli più avanti, alla fine l’operazione di acquisizione del controllo di maggioranza di Chrysler sarà costata, in denaro contante, poco meno di due miliardi di euro. Poca cosa rispetto alla posta in gioco (la terza casa automobilistica americana, in sinergia con quel che resta di Fiat), e al valore dell’azienda, stimato fra i dieci e i quindici miliardi di euro. Un valore che i nuovi azionisti potranno monetizzare quando – al primo momento propizio – riquoteranno in Borsa Chrysler. A quel punto, incasseranno fra cinque e dieci miliardi di euro. Un ottimo affare. Per gli azionisti.

Le vendite crollano

L’annuncio di Marchionne cade in un momento propizio: dopo un periodo di forte crisi per tutto il comparto automobilistico europeo. La forte recessione ha reso le famiglie più povere e molto meno propense a destinare le loro disponibilità a beni come le auto. Ma, nell’ambito di una torta che momentaneamente si è fatta più piccola per tutti, Fiat ha perso più degli altri.

 

Agnelli,_Gawronski_e_Montezemolo_(Torino,_1990)
Gianni Agnelli, Jas Gawronski e Luca Cordero di Montezemolo assistono ad un incontro della squadra di famiglia, la Juventus (Torino, 1990)
Agnelli, l’unica dinastia europea dell’auto a non volere investire nel proprio prodotto

Come ha scritto Luciano Gallino su Repubblica lasciando l’Italia la famiglia Agnelli-Elkann conquista un singolare primato: è l’unica dinastia europea dell’automotive a non voler investire più nel proprio prodotto e a non preoccuparsi di perdere il controllo della propria casa automobilistica. La famiglia Porsche controlla tuttora il marchio di auto sportive, ed è robustamente presente nel cda della Volkswagen. La Bmw è da sessant’anni controllata dai Quandt. I Peugeot contano ancora nell’azionariato della fabbrica che fondarono generazioni fa. Anche negli Stati Uniti, la Ford è tuttora presieduta da William Ford junior.

Va riconosciuto che la responsabilità di questa scelta non è solo degli Agnelli-Elkann di oggi. La difficoltà di Fiat nel competere con i concorrenti europei, la mancanza di modelli adeguati a coprire determinate fasce di mercato (sono anni, ad esempio, che non esiste una gamma di modelli per la fascia media. Tra la Panda e la Thema c’è un deserto. Che per essere riempito comporterebbe miliardi di euro di investimenti e con moltissimi rischi), gli scarsi e ridicoli investimenti in ricerca e sviluppo sono dati di fatto da oltre un ventennio. Dati di fatto spiegabili con scelte sbagliate dell’avvocato Gianni Agnelli, che nella seconda metà della sua vita aveva preferito creare una holding diversificata in vari settori invece di concentrarsi sull’auto. Nel 2012, per recuperare tutti questi errori, gli ultimi Agnelli avrebbero dovuto investire cifre astronomiche, assumendo un elevato rischio d’impresa: l’investimento, infatti, avrebbe potuto fare la fortuna della famiglia, ma anche, facilmente, diventare l’ennesima perdita, questa volta devastante.

Alla luce di questi e altri gravi errori, e di numerosi comportamenti discutibili (si pensi soltanto alle enormi cifre sottratte al fisco italiano proprio mentre si chiedevano aiuti di Stato, come ha rivelato Margherita Agnelli durante la sua querelle ereditaria), forse sarebbe opportuna una revisione storica della figura dell’avvocato Gianni Agnelli, ancora oggi ricordato con enfasi e devozione. Secondo la Procura di Milano – che indaga sui fatti legati all’eredità – la cifra sottratta al fisco e nascosta da Gianni Agnelli tra Svizzera e Liechtenstein sarebbe di circa un miliardo di euro. L’economista Salvatore Bragantini, in un articolo sulla Voce.info del 27 marzo 2013, ha stimato che quella cifra sia probabilmente il frutto di poco eleganti estrazioni private dei benefici del controllo e ha proposto di far sì che quella cifra venga obbligatoriamente destinata a investimenti produttivi. A noi sembra un’idea eccellente.

I dettagli dell’accordo per l’acquisizione di Chrysler

Dove trovare il Contrattone

Anche se classificato come confidential, il Contrattone che segna l’abbandono dell’Italia da parte della Fiat è accessibile dal sito Internet del Tesoro Usa. Mentre scriviamo questo libro, il documento si trova ancora online, con il titolo Amended and restated limited liability company operating agreement of Chrysler Group Llc. Il Contrattone avrebbe dovuto suscitare uno scandalo a livello politico, sindacale ed economico. Invece, è rimasto semisconosciuto. A quanto ci risulta, se ne è occupato solo il giornalista Filippo Barone in un articolo saggio su MicroMega, una rivista culturale che raggiunge un pubblico circoscritto. Gli altri hanno preferito discutere di Fabbrica Italia e dei 20 miliardi di investimenti promessi da Marchionne, soffermandosi sulle motivazioni addotte ufficialmente. Peccato che Fabbrica Italia avrebbe contraddetto il Contrattone, firmato ben prima di annunciare Fabbrica Italia e ben più vincolante. Il Contrattone, infatti, è un accordo rigido, con valore legale, con la garanzia dei governi americano e canadese, con penali pesantissime da una parte, ed enormi opportunità di guadagno dall’altra. Fabbrica Italia non è stato altro che un pacco di slide in PowerPoint e uno spot televisivo con Ricky Tognazzi.

Un dibattito inconsistente

Nell’autunno del 2012, quando la Fiat è stata costretta a dichiarare pubblicamente che le promesse di Fabbrica Italia non si sarebbero mai concretizzate, la realtà è apparsa chiara a tutti. Nemmeno allora però si è parlato del Contrattone. Il dibattito politico, sindacale e giornalistico, ha preferito ignorare questo documento e disquisire sulle motivazioni ufficiali che abbiamo citato all’inizio e sulle quali ritorneremo. Va notato che, in generale, tutto il dibattito politico-giornalistico su questa questione di enorme portata ha ruotato attorno ad argomenti irrilevanti nel contesto. Temi come le relazioni industriali e la produttività, certamente importanti dal punto di vista teorico e per gli esiti sul Paese, sono in realtà inconsistenti in Fiat. Il costo del lavoro incide infatti per il 7-8% del totale dei costi di produzione di una vettura. Produrre 200.000 Panda in Italia costa quarantotto milioni, in Polonia diciotto. Trenta milioni di differenza spostano poco. Il vero grande tema – e cioè la presenza industriale di Fiat in Italia – è stato praticamente ignorato. A questo proposito qualcuno sostiene che colorire politicamente e sindacalmente il dibattito sia stato una gigantesca arma di distrazione di massa. Se così fosse, la manovra è stata condotta in maniera eccellente.

Per la Fiat, l’Italia è il passato

Secondo Luciano Gallino, la Fiat oramai ha deciso: l’Italia è il passato. «Gli indicatori disponibili depongono in favore di un progressivo e inarrestabile ritiro della fabbricazione di auto in Italia», ci dice.
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Gallino non crede a Marchionne quando afferma che in caso di recessione economica non ha senso investire in nuovi modelli per il futuro. Per il sociologo, anzi, è proprio nei momenti di recessione che si progettano i nuovi prodotti da lanciare quando la congiuntura sarà favorevole. «Anche perché dal momento dell’inizio della progettazione a quello del lancio commerciale vero e proprio passano dai quattro ai sei anni», spiega Gallino, che sul motivo per cui il corso degli eventi ha preso la piega americana ha idee molto chiare. «Il governo degli Stati Uniti ha investito somme importanti per salvare Chrysler. In Italia, sul tavolo la famiglia Agnelli non ha messo nulla, e tantomeno lo ha fatto il governo.» Oltre al fatto di essere la prima storica dinastia dell’automotive a non voler investire più nel settore di appartenenza, per Gallino, gli Agnelli-Elkann vanterebbero anche un secondo singolare primato: lo sradicamento territoriale del proprio brand.

 

Sergio Marchionne e il brand Fiat ©Mauro Scrobogna /LaPresse<
Perdere il brand del made in Italy distrugge valore

«Penso che questo, oltre a un delitto etico, sia una distruzione di valore in termini economici. Contrariamente a ciò che si crede, nell’oligopolio dell’auto la competizione non avviene tanto sul prezzo, ma soprattutto sul brand. Sulla capacità di un marchio di avere fascino, di evocare valori storici», sostiene con forza il sociologo. «Chi compra Bmw o Volkswagen, compra la solidità e l’affidabilità tipicamente tedesche. Chi compra Fiat o Alfa acquista, o dovrebbe acquistare, anche il made in Italy con tutto il suo fascino, che nel mondo ha ancora livelli molto elevati, ben più alti di quanto credano gli stessi italiani. Temo che sradicare Fiat dall’Italia, a lungo andare, rappresenti anche un danno di natura economica.»

Gallino contesta anche un’altra affermazione di Marchionne, e cioè che la Fiat sia ormai una casa produttrice globale, e che pertanto non abbia senso un eccessivo radicamento in Italia. «Ma come si fa a sostenere che per essere globali sia indispensabile abbandonare il proprio Paese? L’argomentazione suona male, e alla prova dei fatti resta difficilmente condivisibile. Volkswagen è ormai globale più della Fiat, produce otto milioni di veicoli nel mondo. Ma 2,4 milioni di questi vengono fabbricati in Germania, dove rimane il cuore pulsante del marchio tedesco.»
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Giulio Sapelli e la geopolitica dietro Marchionne

Giulio Sapelli, il Contrattone, la geopolitica

Giulio Sapelli, come Gallino di origine torinese, è forse l’unico intellettuale di spessore ad aver preso sul serio il Contrattone. Docente di storia economica alla Statale di Milano, Sapelli è da sempre un personaggio non classificabile politicamente, un battitore libero con le armi dell’intelligenza, dell’enorme cultura e dell’ironia. Quando lo abbiamo incontrato, è subito entrato nel merito della questione: «Fiat è sempre stata una grande impresa motoristica. Ora però è stata ceduta alla Chrysler per mezzo di un contratto che prevede condizioni tanto più favorevoli quanto meno si produce in Italia. Da lì in poi è stato evidente che sarebbero usciti dall’Italia. Non è possibile stipulare un contratto così e poi dichiarare che si vuole restare in Italia».Quanto alla congiura del silenzio, dipende dall’importanza che Fiat ha avuto nella vita politica ed economica in Italia.

«Fiat è parte della costituzione materiale italiana. Sul suo addio all’Italia c’è una sorta di rimozione inconscia collettiva», sostiene Sapelli. Il quale ricorda anche le implicazioni geopolitiche della vicenda. «Sotto alcuni aspetti, il declino di Fiat è un prezzo dell’allontanamento dell’Italia dagli Stati Uniti. La Fiat è prosperata come azienda meccanica e come multinazionale durante un periodo storico in cui gli Stati Uniti avevano un forte interesse in Italia.» Sapelli ricorda come John Kennedy e Henry Kissinger fossero molto vicini a Gianni Agnelli anche perché lo consideravano uno strumento adatto a mantenere la presa degli Stati Uniti sull’Italia.

Ma già nel 1924 il fascismo ottiene il famoso prestito Morgan (la banca Morgan concede a Mussolini un prestito di 50 milioni di dollari, raddoppiandolo subito dopo, e alla Fiat ne concede uno da 10 milioni) grazie alla mediazione del senatore Giovanni Agnelli senior. «Quel prestito sarà fondamentale per la ricostruzione e il rilancio del Paese dopo la prima guerra mondiale», racconta Sapelli. Che prosegue: «Col venir meno del bipolarismo mondiale, gli Stati Uniti hanno perso interesse nei confronti dell’Italia. Non c’è stato più bisogno di avere una potenza industriale a quattrocento km dall’avamposto comunista iugoslavo. Allo stesso modo, è diminuito l’interesse verso l’Europa».

Ormai il ritardo rispetto alle altre case automobilistiche è irrecuperabile

Sapelli ammette che «nell’ultima fase della sua storia, la famiglia Agnelli è venuta meno al suo dovere di capitalista e di azionista, investendo molto meno di quanto sarebbe stato necessario per garantire non solo lo sviluppo, ma anche la semplice sopravvivenza delle sue aziende». E questo come si concilia con gli enormi finanziamenti ricevuti dallo Stato? Qui Sapelli risponde da storico dell’economia: «Per i primi ottant’anni di vita dell’azienda, lo Stato italiano e la Fiat sono andati di pari passo. Lo Stato sosteneva economicamente la Fiat, e la Fiat trainava la crescita dell’economia italiana, assumeva personale e pagava molte tasse. Questo sostegno, insomma, si poteva considerare alla stregua di un investimento. Peraltro ben remunerato. È negli ultimi vent’anni che il rapporto ha preso una piega patologica. L’investimento dello Stato in Fiat era sempre meno remunerato, o addirittura lo era negativamente, in termini di valore per il territorio».

Ma come si spiega la decisione della famiglia Agnelli di investire poco o nulla nel settore di origine? «La famiglia Agnelli aveva iniziato a diminuire gli investimenti nell’auto già dagli anni Novanta, quando aveva comprato partecipazioni nell’energia, nelle costruzioni e in diversi altri settori, defocalizzandosi. Inoltre, sono state fatte diverse mosse sbagliate, come l’alleanza con General Motors, con la quale non c’era una complementarietà tale da produrre valore. È stata una brutta avventura dalla quale Fiat si è salvata solo grazie all’abilità finanziaria di Paolo Fresco.» E dopo? «Dopo, il ritardo di Fiat rispetto alle altre case automobilistiche mondiali è diventato così ampio che sarebbe stato possibile recuperarlo solo con investimenti estremamente importanti, investimenti che l’azionista di riferimento, evidentemente, ha scelto di non fare.»

 

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L’ex presidente USA Barack Obama
La vicenda Chrysler e Obama…

Il contratto Fiat-Chrysler-Obama è il cuore di questo capitolo. Ma, per comprendere bene di che cosa si tratti e quali conseguenze abbia, occorre ripercorrere i passaggi storici precedenti. Siamo nel 2009, l’anno dell’accordo Fiat-Chrysler. Stati Uniti ed Europa stanno attraversando l’esplosione della crisi economica, le conseguenze dello scandalo dei mutui subprime si fanno sentire più che mai, le banche iniziano a negare gli affidamenti ad aziende e singoli individui, le Borse sono scese a picco. Fiat invece è stata appena risanata finanziariamente da Marchionne. Il manager italo-canadese ha fatto un ottimo lavoro sui conti. Ma non altrettanto si può dire a livello industriale. All’orizzonte non si vedono nuovi modelli, gli investimenti sul futuro da parte degli azionisti sono poca cosa. L’azienda ha due punti di forza. Il primo sono i motori, con alcuni modelli all’avanguardia, frutto di un sapere motoristico che nell’azienda torinese ancora resiste nonostante tutto. Il secondo è il Brasile, un’economia a forte tasso di crescita, dove Fiat è posizionata molto bene, con una rete di commercializzazione capillare.

Chrysler era morta

Nel 2009 Chrysler si trova invece in uno stato di crisi profonda, praticamente sull’orlo del fallimento: tecnologia obsoleta, modelli fuori moda e privi di appeal, consumi di carburante elevati, vendite crollate. Dietro la situazione disastrosa di Chrysler c’è una crisi lunga almeno un decennio, che è alla base del ritardo e delle carenze della casa automobilistica in tema di motori, modelli e rete commerciale. È dalla metà degli anni Novanta che Chrysler versa in uno stato comatoso. Nel 1998 i tedeschi di Daimler-Benz (la casa alla quale fanno capo Mercedes e altri prestigiosi marchi) acquistano Chrysler e la gestiscono. Fino a che, nel 2008, si stufano di gettare soldi in questa costosa avventura americana e rivendono Chrysler al fondo di private equity Cerberus Capital Management, un fondo speculativo (il nome dice tutto…) che realizza cospicue plusvalenze acquistando, ristrutturando e rivendendo aziende in crisi.

Per Chrysler si tenta la strada del rilancio, ma senza la disponibilità a investire più di tanto. Il sogno degli speculatori di Cerberus è trasformare Chrysler in un gruppo di punta nel mercato americano. Ma il piano fallisce, perché la sua realizzazione richiede molti più investimenti di quelli stimati inizialmente. Perdipiù, subito dopo l’acquisizione di Chrysler da parte di Cerberus, la recessione economica negli Stati Uniti comincia a picchiare duro. Così, dopo appena dodici mesi dall’inizio della loro avventura nel mondo dell’automotive, i Cerberi mollano la presa e se ne vanno, lasciando Chrysler in uno stato ancor più disastrato di quello in cui l’avevano trovata. Non solo si vendono poche auto, ma gli investimenti in ricerca e sviluppo negli anni precedenti sono stati praticamente pari a zero. Chrysler è indietro su tutto: nuovi modelli, motori, tecnologie.

All’inizio del 2009 Chrysler finisce in amministrazione controllata, che negli Stati Uniti si chiama Chapter 11: l’azienda viene gestita da un commissario straordinario e concorda con fornitori e debitori il pagamento di una parte delle loro spettanze. Per garantire la sopravvivenza di Chrysler e dei suoi 54.000 posti di lavoro, il governo americano e quello canadese concedono un prestito di 7,5 miliardi di dollari a condizioni agevolatissime. Praticamente un aiuto di Stato, cosa rara ed eccezionale se si considera la mentalità neoliberista e antistatalista che domina negli Stati Uniti. Inoltre, gli operai accettano di utilizzare la liquidità accumulata nel loro fondo pensione e di usarla per tirar fuori la loro impresa dai guai. Ma questo basta solo a tamponare la crisi: per uscire da guai bisogna vendere di più, offrire al mercato vetture più accattivanti e appetibili, arricchire la rete dei concessionari. Insomma, occorrono investimenti importanti, design, tecnologie. Serve un cavaliere bianco.

La bufala di Chrysler data «gratis»

E qui arriva Marchionne. Al quale, secondo la maggior parte della stampa italiana, la Chrysler sarebbe stata praticamente regalata. Concessa, in cambio dello sforzo di rilanciare la casa automobilistica grazie alle sue mirabolanti capacità manageriali. «Gratis» è la parola che ricorre più spesso. «Nel 2011 (Marchionne, N.d.R.) potrà ottenere ‘gratis’ un ulteriore 15%, poi avrà l’opzione di salire fino al 51%», scrive la Repubblica. Abbocca anche il Corriere della Sera, che titola: «Tronchetti: Fiat-Chrysler opportunità a costo zero». Che anello al naso devono avere questi americani. O che gigantesca fiducia nelle capacità manageriali degli italiani!

Filippo Barone ha sintetizzato, nel già citato articolo di MicroMega, il luogo comune dominante sui giornali italiani di allora: «Il governo americano propone a Marchionne uno scambio quote, quote di Chrysler in cambio di uno sforzo da parte di Fiat a far ripartire l’azienda, semplicemente sfruttando le sue capacità. La proprietà di Chrysler così diventa del 55% degli operai, un 20% di Fiat senza spese, e una parte tra governo canadese e americano. Il governo accorda inoltre a Fiat la possibilità diricevere un altro 15%, sempre senza spese, al verificarsi di alcuni eventi legati alla crescita di Chrysler». E chiaro che è Chrysler a comprare Fiat e non viceversa. Ancora Barone: «Nell’affare Fiat-Chrysler è Fiat che sta offrendo i suoi beni più preziosi, ossia i brevetti sui motori e la rete di vendita, per avere in cambio delle cambiali. Quindi, fino a prova contraria, sono gli americani che stanno comprando la Fiat, o quanto meno una sua parte». Pochi giorni dopo la firma dell’accordo su Chrysler, gli stabilimenti Fiat si fermano e 50.000 degli 80.000 dipendenti del gruppo (allora comprendeva anche i trattori e le macchine movimento terra, successivamente scorporate in Fiat Industrial) vanno in cassa integrazione. Cassa integrazione significa che i lavoratori restano a casa e i loro stipendi – che passano da 1200 a 850 euro al mese, non li paga più l’azienda, ma l’Inps, prendendoli da un fondo rimpinguato ogni mese dai soldi di tutti i dipendenti e di tutte le imprese italiane. In pratica, anche in questo modo la collettività continua a finanziare la Fiat.

 

Marco Visconti, Melfi, fabbrica FIat
Marco Visconti, Melfi, fabbrica FIat

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Due scelte forti

Subito dopo la firma del contratto con Chrysler, Fiat fa due scelte forti: conduce una campagna per rivedere i diritti acquisiti degli operai e allontanare il sindacato Fiom dall’azienda e promette gli investimenti di Fabbrica Italia. Inoltre, nell’autunno del 2011 Fiat abbandona Confindustria, mettendo in dubbio la sua utilità.

L’abbandono di Confindustria

Marchionne accusa Confindustria (della quale John Elkann è vicepresidente) di essere un pachiderma burocratico costoso e inutile, ancorato a schemi del passato e di impedire una contrattazione flessibile e moderna. Stupisce alquanto che l’amministratore delegato della Fiat se ne accorga sette anni dopo il suo insediamento, e dopo quasi cent’anni durante i quali Fiat è stata il socio più importante di Confindustria; due presidenti di Confindustria (Gianni Agnelli e Luca Cordero di Montezemolo) erano contemporaneamente a capo dell’azienda torinese; uno è diventato presidente su richiesta di Fiat (Guido Carli) e tutti gli altri, meno Antonio D’Amato (leader degli industriali italiani dal 2000 al 2004), hanno conquistato lo scettro confindustriale con il sostegno determinante di Fiat. Nonostante tutto ciò, Marchionne sostiene che Confindustria è un ente inutile e la abbandona. Così potrà «contrattare» liberamente con i sindacati interni dei lavoratori, senza le pastoie di Federmeccanica (la federazione confindustriale delle aziende meccaniche di cui un tempo Fiat era il socio di maggior peso) obbligata istituzionalmente a confrontarsi con la Fiom e a rispettarla.

Ci sono altre ragioni? Nero su bianco, pare di no. Certo è che Confindustria, pur con tutti i suoi enormi difetti, è la casa comune delle imprese italiane. Farne parte implica partecipare ad alcuni tavoli e aderire a una serie di norme, rituali e situazioni che ancorano le imprese al contesto italiano. Confindustria – piaccia o no – è uno dei pochi collanti forti del Paese. Abbandonare Confindustria permette quindi alla Fiat di Marchionne di sganciarsi anche dall’Italia con minori difficoltà.

Che cosa c’e dietro la questione della produttivita’

La battaglia su forme contrattuali e produttività

Nell’inverno 2009-2010 la Fiat torna a essere protagonista della vita politica e sindacale del Paese. È infatti a fine 2009 che inizia la battaglia sulle forme contrattuali e si apre una dura polemica del top management Fiat sulla scarsa produttività dei lavoratori italiani. Produttività che deve aumentare affinché l’azienda possa continuare a investire in Italia, attuando gli ambiziosi obiettivi del piano Fabbrica Italia. Marchionne chiede agli operai di accettare un nuovo contratto con turni più pesanti, condizioni di lavoro maggiormente impegnative e una serie di duri sacrifici. La richiesta è di 18 turni di lavoro a settimana, primo giorno di malattia non pagato in caso di assenteismo elevato, possibilità per la Fiat di ottenere fino a 120 ore di straordinario senza aprire una trattativa sindacale, divieto ai sindacati di scioperare su materie regolate dall’accordo, dieci minuti di pausa in meno, spostamento a fine turno della mezz’ora di mensa.

Gli operai devono lavorare otto ore filate, senza mangiare e con una pausa di soli trenta minuti. La battaglia di Pomigliano verrà estesa ad altri due siti produttivi e viene presentata come una contesa decisiva per la modernizzazione del Paese. Si sostiene che la competitività dell’automobile in Italia (e anzi dell’Italia intera) non dipenda al 99% dagli investimenti in nuovi modelli, dalla ricerca e dallo sviluppo. No, dipende dagli operai, dice Marchionne. Dai sacrifici che gli operai sapranno fare, per salvare la fabbrica, l’Italia.

La produttività fra propaganda e realtà

Per Marchionne, «esiste una forte disparità dei livelli di utilizzo della manodopera tra gli stabilimenti auto italiani ed esteri. Dobbiamo affrontare il problema di petto».  Ma questa disparità, come ha spiegato il giornalista Paolo Griseri in un saggio e in diversi articoli su Repubblica, dipende in gran parte dalle scelte produttive dell’azienda stessa. In Italia, parecchie linee di montaggio restano ferme per intere settimane, bloccate dalla cassa integrazione innescata dalla mancanza di modelli appetibili per il mercato. In questo calcolo, la produttività dei dipendenti conta poco o nulla. E, come scrive Griseri, «a parità di utilizzo degli impianti, la produttività italiana non è distante dai livelli brasiliani e polacchi».

Certo, i calcoli fatti da Fiat nel 2010 dicono che in Polonia la produttività è di 100 auto per addetto, in Brasile di 77 (che sia il caldo dei Paesi latini che toglie la voglia di lavorare?) e in Italia di 29. Ma senza gli effetti della cassa integrazione, la produttività italiana crescerebbe a 40 auto per addetto, comunque al di sotto della media del gruppo (53 vetture per addetto). Ma va considerato che, dei cinque stabilimenti italiani, soltanto due producono utilitarie, gli altri tre fabbricano auto di gamma medio-alta, che hanno un prezzo (e quindi un utile) assai più elevato. «Non è serio calcolare la produttività solo sul numero di pezzi venduti, senza tenere conto del fatto che vendere un’utilitaria in un’economia emergente (il Brasile) è cosa diversa che vendere una vettura media su un mercato saturo come quello europeo», scrive Griseri.

Ma evidentemente Marchionne non legge la Repubblica o almeno non gli articoli di Griseri. «Ho tirato avanti per quasi sette anni in un sistema ingessato, dove tutti sanno che le imprese italiane sono fuori dalla competitività», dice l’amministratore delegato della Fiat in un’intervista al direttore Ezio Mauro.  «Ho tirato avanti per quasi sette anni, poi in una notte ad aprile mi sono detto basta», racconta Marchionne. «Io metto sul piatto 20 miliardi, accetto la sfida ma voglio che quei soldi servano. Cambiamo le regole.»
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Storia di Fabbrica Italia
L’annuncio

La prima battaglia ideologica è quella appena raccontata sulla produttività. La seconda riguarda il famoso piano Fabbrica Italia, quello che nel 2012 verrà rinnegato dicendo che non si può fare a causa della crisi. Un’affermazione perlomeno sorprendente se si pensa che nel 2010 (l’anno del varo di Fabbrica Italia) la recessione economica mondiale era ancora più grave che nel 2012. Anzi, almeno nel 2012 si è iniziato a intravedere uno spiraglio, che nel 2010 non c’era proprio. La miglior sintesi del piano è lo spot trasmesso in quei mesi nelle case degli italiani. Per la prima volta in Italia, un’azienda investe in pubblicità non per promuovere i propri prodotti, ma per propagandare un piano industriale.

Bambini da addormentare e rabbonire

«Le cose che creiamo ci dicono cosa diventeremo», era il payoff della pubblicità, che si apriva con l’immagine di un giovane papà che porta in braccio un lattante da far addormentare. Il padre, che ha la voce di Ricky Tognazzi, dice al piccolo: «Dato che non vuoi dormire ti racconto di questo piano industriale». Il piccolo non vede l’ora. E il papà attacca: «Dici: che cosa interessa a te? Niente, almeno adesso. Ma in cinque anni raddoppia la produzione di veicoli in Italia e aumenta l’esportazione, anche in America». Il bambino si sta per addormentare, la storia è soporifera. Il padre continua. «Raddoppiano le possibilità… anche per me», dice il padre, come a profilare un lavoro sicuro e redditizio per gli anni a venire. Il piccolo riapre gli occhi. «E io cosa faccio?» chiede simbolicamente (è la voce del padre a parlare al suo posto). «Non lo so», si risponde l’uomo da solo, sempre con la voce calda di Ricky Tognazzi che fa dimenticare il teatro dell’assurdo che viene rappresentato in quei due minuti, «per esempio posso comprare un’auto italiana, il colore lo scegli tu, magari.» E in sovrimpressione: «Un cammino da fare tutti insieme per rendere gli italiani di domani orgogliosi di quelli di oggi». Nel finale si vedono una fabbrica con i colori della bandiera e i marchi del gruppo Fiat.

Promesse da mille e una notte

Per presentare il piano Fabbrica Italia in parlamento, Marchionne per una volta abbandona l’amatissimo maglione  per mettere finalmente una cravatta. L’evento (la cravatta) catalizza l’attenzione dei media, distogliendo da un esame critico e dalle previsioni contenute nel piano, a dir poco ottimistiche al massimo. Fiat prevede ricavi nel 2014 pari a 93 miliardi di euro, il 55% in più del 2008. Il target per il risultato della gestione ordinaria è di circa 6,8 miliardi di euro, mentre il risultato netto previsto sfiora i 5 miliardi. Vengono annunciati investimenti per 30 miliardi di euro, due terzi dei quali in Italia. Si vuole inoltre ridurre gradualmente l’indebitamento, fino a raggiungere una cassa positiva di 3,4 miliardi. Agli azionisti verranno pagati dividendi pari ad almeno 150 milioni l’anno.

Gli obiettivi industriali del piano collocano la produzione mondiale di auto Fiat e Chrysler nel 2014 a quota 6 milioni, delle quali un milione e 400.000 realizzate in Italia, più del doppio rispetto al 2010 (anno del piano). Ambiziosi anche gli obiettivi in termini di nuovi prodotti, che complessivamente saranno 51, tra nuovi modelli (34) e restyling (17) lanciati sul mercato entro il 2015. I due terzi verranno prodotti da Fiat, gli altri da Chrysler. Per Fiat, in particolare, Fabbrica Italia prevede dieci nuovi modelli e sei aggiornamenti. Sette saranno le novità Alfa Romeo, che nel 2012 tornerà in America, e due i refresh, mentre le nuove auto a marchio Lancia saranno in tutto otto, sei delle quali basate su modelli di alta gamma Chrysler .Per quanto riguarda gli stabilimenti, secondo Fabbrica Italia a Mirafiori la produzione sarà aumentata di circa 100.000 vetture, a Melfi di 400.000 e a Pomigliano di 250.000. Per quanto riguarda Cassino, i volumi saranno quasi quadruplicati. Evviva!

Pochi hanno capito…

Quando Marchionne presenta Fabbrica Italia molti credono allo spot. Fra i pochi a dubitare c’è il sociologo Luciano Gallino.
«Con le sue 650.000 unità prodotte in patria nel 2010 l’Italia, come costruttore di auto, è stata ormai sopravanzata non solo da Germania e Francia, ma anche da Spagna, Regno Unito, Polonia e perfino dalla Repubblica Ceca e dalla Serbia. Stando al piano sopra indicato, nel 2014 la Fiat dovrebbe tornare a produrre nel nostro Paese oltre un milione e mezzo di vetture. Ma dove, e come, con quali catene di fornitura dei diversi livelli?» scriveva il sociologo (senza sapere che due anni dopo la produzione sarebbe scesa a 400 mila) su Repubblica nel giugno 2011.18 «Tre quarti di un’auto sono costruiti fuori dagli stabilimenti in cui si effettua l’assemblaggio finale. Davvero uno può credere che Mirafiori, che oggi lavora una settimana al mese quando va bene, sarà definitivamente rilanciato assemblando grossi suv progettati e costruiti in gran parte in Usa? O che negli stabilimenti della ex Bertone, nel Torinese, saranno prodotte 50.000 Maserati, bellissime auto da 130.000 euro al pezzo, una quantità dieci volte superiore a quelli che si vendono attualmente? O, ancora, che Pomigliano ritornerà anch’essa a nuova vita producendo un modello di utilitaria ormai vecchiotto, che costa molto meno produrre in Polonia o in Brasile?».

Fabbrica Italia non si fa

I dubbi di Gallino sulle ottimistiche previsioni di Fabbrica Italia erano più che fondati. Puntualmente, una volta terminata l’acquisizione di Chrysler, arriva anche l’ufficializzazione che le stime sulla crescita Fiat in Italia erano prive di fondamento.
L’annuncio della marcia indietro viene fatto da Marchionne il 24 settembre 2012. In un primo momento, Marchionne dà la colpa alla Consob, la Commissione che ha il compito di controllare – nell’interesse degli investitori – la regolarità del comportamento delle società quotate in Borsa. «Tra aprile 2010 e ottobre 2011, Fiat ha ricevuto una raffica di richieste dalla Consob, 19 lettere in cui si chiedevano i dettagli finanziari e tecnici su Fabbrica Italia, un vasto piano strategico, coraggioso, di lungo periodo, che aveva l’obiettivo di aiutare il Paese, cambiando l’approccio e una serie di relazioni storiche che avevano ingessato lo sviluppo del nostro gruppo»,  dice Marchionne a margine di un evento dell’Unione industriale, che parla di sé come se fosse un ambizioso capitano d’impresa davanti a una commissione di burocrati grigi e cattivi.

In realtà la Consob ha fatto semplicemente il suo dovere: un piano che promette 20 miliardi di investimenti ha infatti conseguenze concrete sull’andamento del titolo di una società quotata. Gli investitori decidono le loro mosse, infatti, anche sulla base degli investimenti attesi. Oltre che delle possibilità di marginalità e crescita del fatturato, che, come abbiamo visto, in Fabbrica Italia erano state delineate come molto elevate. «Giunti all’esasperazione», prosegue Marchionne, apparentemente senza accorgersi che forse erano gli altri a doversi sentire esasperati da questa linea di condotta, «abbiamo emesso un comunicato, era ottobre dell’anno scorso, ritirando Fabbrica Italia, e indicato chiaramente che non avremmo più usato quella dicitura, né fornito informazioni sull’entità degli investimenti o sui tempi.»

Stando a un comunicato emesso da Fiat, «da quando Fabbrica Italia è stata annunciata nell’aprile 2010 le cose sono profondamente cambiate. Il mercato dell’auto in Europa è entrato in una grave crisi e quello italiano è crollato ai livelli degli anni Settanta. È quindi impossibile fare riferimento a un progetto nato due anni e mezzo fa. È necessario infatti che il piano prodotti e i relativi investimenti siano oggetto di costante revisione per adeguarli all’andamento dei mercati». Dopo di che, senza far cenno al forte volume di contributi pubblici ricevuti in tutta la sua storia, Fiat rivendica nella stessa nota di essere una multinazionale che si muove liberamente in un mercato libero. «Vale la pena di sottolineare che la Fiat con la Chrysler è oggi una multinazionale e quindi, come ogni azienda in ogni parte del mondo, ha il diritto e il dovere di compiere scelte industriali in modo razionale e in piena autonomia, pensando in primo luogo a crescere e a diventare più competitiva. La Fiat ha scelto di gestire questa libertà in modo responsabile e continuerà a farlo per non compromettere il proprio futuro, senza dimenticare l’importanza dell’Italia e dell’Europa.»

 

Diego Della Valle
Diego Della Valle

Un grillo parlante di nome Diego Della Valle

Il grillo parlante: Diego Della Valle

Uno dei pochi a criticare pubblicamente ed esplicitamente questi comportamenti è Diego Della Valle, uno dei maggiori imprenditori italiani nel settore della moda e del calzaturiero, nonché investitore con un ruolo decisivo in Mediobanca, Assicurazioni Generali e in altre importanti realtà. Della Valle, in un lungo comunicato, non concede tregua né a Marchionne, né agli Agnelli.«Continua», dice il patron di Tod’s, «questo ridicolo e purtroppo tragico teatrino degli annunci a effetto da parte della Fiat, del suo inadeguato amministratore delegato e in subordine del presidente. Assistiamo infatti da alcuni anni a frequentissime conferenze stampa nelle quali, da parte di questi signori, viene detto tutto e poi il contrario di tutto, purché sia garantito l’effetto mediatico, che sembra essere la cosa più importante da ottenere, al di là della qualità e della coerenza delle cose che si dicono.»

Secondo Della Valle, «con il comunicato rilasciato ai giornalisti oggi, Marchionne & company hanno superato ogni aspettativa riuscendo, con alcune righe, a cancellare importanti impegni che avevano preso nelle sedi opportune nei confronti dei loro dipendenti, del governo e quindi del Paese. Ma si rendono conto questi supponenti signori dello stato d’animo che possono avere oggi le migliaia di lavoratori della Fiat e i loro familiari di fronte alle pesanti parole da loro pronunciate e alle prospettive che queste fanno presagire? Il vero problema della Fiat non sono i lavoratori, l’Italia o la crisi (che sicuramente esiste): il vero problema sono i suoi azionisti di riferimento e il suo amministratore delegato. Sono loro che stanno facendo le scelte sbagliate o, peggio ancora, le scelte più convenienti per loro e i loro obiettivi, senza minimamente curarsi degli interessi e delle necessità del Paese».

Della Valle punta poi sugli aiuti ricevuti da Fiat, soprattutto come incentivi statali. «Paese che alla Fiat ha dato tanto, tantissimo, sicuramente troppo. Pertanto non cerchino nessun capro espiatorio, perché sarà solo loro la responsabilità di quello che faranno e di tutte le conseguenze che ne deriveranno. È bene comunque che questi ‘furbetti cosmopoliti’ sappiano che gli imprenditori italiani seri, che vivono veramente di concorrenza e competitività, che rispettano i propri lavoratori e sono orgogliosi di essere italiani, non vogliono in nessun modo essere accomunati a persone come loro.»
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Che cosa dice davvero il “Contrattone”

Cosa c’è scritto davvero nel Contrattone Fiat-Chrysler, stipulato il 10 giugno 2009? A farci da Virgilio nelle duecento pagine dell’accordo, rigorosamente scritto in inglese giuridico, è l’analista indipendente Alfonso Scarano, ingegnere elettronico, membro del direttivo dell’Aiaf (Associazione italiana analisti finanziari), in più di un’occasione consulente dei pubblici ministeri, molto apprezzato per la sua libertà di giudizio e la sua tendenza a schierarsi dalla parte dei risparmiatori. Tra tutti gli analisti finanziari che abbiamo interpellato, Scarano, a quanto ci risulta, è il solo che abbia studiato il Contrattone. Tutti gli altri ne ignorano perfino l’esistenza. Anche se nella nostra esposizione ci sforzeremo di semplificare il più possibile, alcuni passaggi potrebbero essere di difficile comprensione a chi ignora totalmente l’argomento mercati finanziari. In tal caso, questo paragrafo si potrà saltare a piè pari.

«Ciò che emerge con chiarezza tra le pieghe del Contrattone», spiega Scarano, «è l’esistenza di una correlazione tra l’andamento di Fiat e la scalata in Chrysler. In pratica, peggio va Fiat (Auto) e più conveniente sarà per il gruppo acquistare le quote previste nell’accordo.» Il cuore della questione si trova nella sezione 3.5 (Additional Call Options) dove si definisce il prezzo di esercizio, ossia quanto Fiat deve pagare per acquistare quote del gruppo Usa. «Cifra che secondo il contratto cambia a seconda che le opzioni siano esercitate prima o dopo la quotazione», fa notare Scarano. Il prezzo di esercizio (company equity value) delle opzioni citate (alternative o incremental call option) è determinato, ove Chrysler non sia quotata, utilizzando un multiplo di Fiat che è il risultato del «debito finanziario netto meno la liquidità Fiat sommato alla capitalizzazione Fiat. Il tutto fratto l’ebitda Fiat».

A questo punto Scarano entra ancor più in profondità andando ad analizzare l’impatto sulle opzioni (che hanno tutte scadenza temporale e sono legate a obiettivi prima della cui realizzazione non possono essere esercitate) a seconda delle variabili chiave. Ferma restando l’ebitda di Chrysler, l’analista ipotizza diversi scenari per tenere basso il prezzo: «Una diminuzione della capitalizzazione di Fiat (valore di Borsa) che fa scendere anche il costo dell’opzione e che spiegherebbe una strategia volta a deprimere il titolo in funzione opportunistica; un aumento della liquidità e dei debiti finanziari, che fa anche in questo caso scendere il costo dell’opzione e che spiegherebbe il massiccio ricorso al mercato obbligazionario di un gruppo che ha un’elevata liquidità».

Partendo invece dal presupposto che i fattori Fiat considerati restino inalterati, il valore di esercizio dell’opzione può scendere solo se diminuisce l’ebitda Chrysler. Ai non addetti ai lavori ricordiamo che ebitda è l’acronimo di earning before interest taxes depreciation amortization, ovvero «utile prima delle tasse, dei deprezzamenti e degli ammortamenti». L’utile industriale, insomma. Si tratta di un parametro che viene usato per esprimere la redditività di ciò che esce dalle fabbriche.

Separare auto e industria ha danneggiato l’auto

«La possibilità che si muova un fattore come l’ebitda», chiarisce Scarano, «ha dinamiche molto complesse e diverse da una fluttuazione borsistica.» Scarano sottolinea poi che «tutto l’impianto dell’accordo si basa su una Fiat già scorporata dalla parte industrial, decisione che formalmente Marchionne prenderà però solo diciotto mesi dopo». In sostanza, la decisione che ha cambiato del tutto i connotati del gruppo non è altro che un assunto fondamentale del piano Fiat-Chrysler. Una separazione «dal singolare tempismo», aggiunge Scarano, «che guarda caso penalizza Fiat Auto rispetto a industrial». Numeri alla mano, infatti, questa svolta definita «epocale» non lo sarà certo per il settore auto. Guardando ai fondamentali, è chiara la perdita di valore seguita all’operazione. Nella prima seduta post-scorporo (gennaio 2011) Fiat ha chiuso la seduta a piazza Affari a 7,02 euro e Fiat Industrial a 9 euro. Oggi (ottobre 2012) i due titoli valgono rispettivamente circa 4 euro e 8 euro. Nell’ultima seduta 2010 Fiat spa prescissione capitalizzava poco meno di 19 miliardi (18,9). Scorporando industrial si è assistito a un dimezzamento intorno a 7-8 miliardi: un valore che a inizio 2011 si posizionava nella zona bassa della classifica del settore auto, tra i 6,5 miliardi di Peugeot e i 12 di Renault. Tutti gli altri gruppi erano nettamente più grandi in Borsa: dai 25 miliardi di euro di Hyundai per salire ai 31 di Nissan e ai 37 di Bmw; Volkswagen vale 44 miliardi di euro, Ford poco più di 42 e General Motors 41 miliardi.

Chi ci guadagna: gli azionisti di controllo

«Difficile non pensare», aggiunge l’analista, «che ci sia una correlazione tra il Contrattone e quanto sta succedendo negli Usa e la crisi della Fiat in Italia.» Anche perché banalmente il parametro su cui è valutata la scalata di Chrysler è misurato sulla parte auto. «E questa scissione ha fatto in modo che questo parametro abbassandosi rendesse molto più appetibile e quindi meno costoso raggiungere la maggioranza in Chrysler.» E non solo, visto che Exor (la società degli azionisti Agnelli) ha registrato nell’anno dello scorporo un apprezzamento in valore del 46%. A tre anni dalla firma del Contrattone, pare dunque che il risanatore della Chrysler americana e l’italiano dalle promesse non mantenute siano in realtà due volti della stessa strategia, e la débâcle della Fiat in Italia sia solo il risultato di scelte compiute in chiave opportunistica e guardando per lo più a uno scopo: lo sviluppo di Chrysler-Fiat e una sua quotazione a New York. Un’operazione che porterebbe più di un beneficio agli azionisti, Marchionne e gli Agnelli in testa.

Sergio Marchionne è, infatti, amministratore delegato di Fiat, ma anche di Chrysler. Nonostante questo, il pluri-ad non percepisce due stipendi, ma uno solo. E non certo perché il manager guardi al contenimento dei costi. In realtà Marchionne si fa pagare sul fronte americano in azioni. La Chrysler non è stata, infatti, ancora quotata, ma lui possiede già oltre 360.000 azioni dell’azienda. Per ora il loro valore è zero, ma con lo sbarco sul listino dovrebbero valere qualcosa come tre milioni di dollari (un valore destinato a crescere mese dopo mese). Diciamo dunque che il manager non è proprio disinteressato a che in Usa fili tutto liscio, anche (volendo) a discapito dell’Italia. Quanto agli Agnelli, Exor diventerà azionista di una realtà che sarà il doppio di quella attuale, come produzione e nuovi modelli. Una realtà che, secondo i piani di sviluppo, avrà 100 miliardi di euro di fatturato nel 2014, 190.000 dipendenti, 55 prodotti nuovi (34 Fiat), mentre la produzione passerà da due a quattro milioni di automobili.
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