Che cosa accadra’ alla siderurgia (e quindi all’industria italiana)

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di Marco Scotti ♦ Colloquio a 360 gradi sull’acciaio con Antonio Gozzi (Duferco e Federacciai). Il settore è al top, ma ora arrivano i dazi by Trump. Le conseguenze sulla manifattura. Il futuro di Ilva, Arcelor, Piombino. L’impatto del 4.0 e del pacchetto Calenda

 

Una produzione siderurgica nazionale tornata ai livelli pre-crisi nel 2017, con 24 milioni di tonnellate. Un 2018 che si annuncia ancora più positivo dell’anno appena concluso. Eppure, l’ottimismo che aleggia intorno alla siderurgia italiana potrebbe spegnersi rapidamente se i dazi su acciaio e alluminio proposti da Trump genereranno l’effetto domino che si attendono molti economisti. Il presidente americano procede spedito per la sua strada, ma l’Europa sta cercando febbrilmente di far lavorare la diplomazia per un accordo che impedisca di gettare nello scompiglio un comparto vitale per il funzionamento dell’intera industria continentale. Antonio Gozzi, presidente di Federacciai e di Duferco ce lo ha raccontato chiaramente: «Si rischia una nuova guerra commerciale, la retaliation è dietro l’angolo e bisogna cercare di arginare in qualsiasi modo le proposte di Donald Trump».







 

Antonio Gozzi, presidente di Federacciai e di Duferco

 

Presidente Gozzi, il 2018 sarà l’anno del definitivo riscatto per la siderurgia italiana?

Il 2017 si è chiuso con una produzione superiore ai 24 milioni di tonnellate, un dato commendevole che viene confermato da un inizio di 2018 ancora con il segno più. E le previsioni in nostro possesso parlano di una tendenza positiva, anche perché tutte le economie e le aree economiche mondiali stanno facendo registrare una forte crescita. Poiché l’acciaio è un prodotto tipicamente ciclico e indicatore di sviluppo, a fronte di un aumento del Pil globale non si può che ottenere un incremento della siderurgia. E l’Italia, ovviamente, non fa eccezione. Ma purtroppo non possiamo dormire sonni tranquilli…

Si spieghi meglio

C’è un forte rischio di destabilizzazione derivante dai dazi proposti e firmati l’8 marzo scorso dall’amministrazione americana. Ora bisognerà capire meglio gli effetti di questa politica, ma è certo che dopo aver superato brillantemente fattori geopolitici critici come la crisi con la Corea del Nord, ora rischiamo una nuova guerra commerciale che potrebbe avere effetto sulla congiuntura economica del comparto e sull’intero ciclo produttivo della siderurgia.

Domanda banale ma necessaria: esiste un’industria senza l’acciaio?

Ovviamente no: l’industria siderurgica italiana è la seconda europea, il downstream è addirittura al primo posto insieme a quello tedesco e la presenza di acciaio è fondamentale per un’industria sana e prospera. I costi di spostamento dei coil sono talmente elevati che nessun paese manifatturiero può permettersi di operare senza avere una siderurgia radicata all’interno dei propri confini. Oltretutto in Italia, in maniera silenziosa ma continua, abbiamo fatto grandi investimenti nell’ottimizzazione dei processi e nella sostenibilità ambientale del comparto, per poter operare una trasformazione che porti dalla produzione di commodities a quella di specialties. È solo in questo modo che possiamo allontanare la concorrenza dei paesi emergenti che fanno leva sul fattore dei prezzi. Inoltre, il pacchetto 4.0 (Industria e Impresa) ha dato un’incredibile accelerata, rendendo la siderurgia italiana un comparto di grande eccellenza. La nostra competitività balza agli occhi rispetto a quella europea, soprattutto in alcuni settori.

 

L’impianto ILVA di Taranto

I dati positivi della siderurgia nazionale sono arrivati nonostante alcune questioni ancora da risolvere. Penso, ad esempio, all’Ilva: a che punto siamo?

Sulla vicenda Ilva mi sembra che ci stiamo avviando a una definitiva acquisizione da parte di Arcelor Mittal dello stabilimento tarantino. Ma ci sono due problemi che impediscono il definitivo completamento dell’operazione. Il primo proviene dalla Commissione Europea, che sta ritardando il suo pronunciamento sulla possibile posizione dominante per alcune produzioni di Arcelor Mittal in Europa. La decisione doveva arrivare alla fine di marzo, ma ora pare che sia slittata di almeno un mese. Ma per quanto concerne questo aspetto sono sempre stato fiducioso, credo che si arriverà a una soluzione positiva.

Diverso invece è il secondo ostacolo, quello di natura ambientale. La giunta guidata da Michele Emiliano, a fronte di una pronuncia del Governo che dava il via libera all’accordo con Arcelor Mittal, ha prodotto un’impugnativa al Tar che di fatto sta bloccando tutto per quanto riguarda l’impatto ambientale dello stabilimento di Taranto. Ora il risultato delle elezioni politiche, che ha sancito la primazia del Movimento 5 Stelle, rischia di rendere tutto ancora più difficile: il partito di Luigi Di Maio ha sempre avuto una posizione piuttosto netta e rigida su Taranto, di fatto mettendo in secondo piano il funzionamento di Ilva alle tematiche ambientali.

 

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Il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano

 

Rimane quindi l’interrogativo di quale sarà la posizione del prossimo esecutivo. Se invece dovesse esserci un governo di centro-destra, forse la situazione sarebbe più facile. Come Federacciai noi abbiamo sempre garantito una rigorosa politica di riduzione dell’impatto ambientale, ma in cambio chiediamo certezze. Anche gli investitori stranieri rimangono destabilizzati da questo quadro. “Ma come – si chiedono – un governo di centro-sinistra emana un decreto e la giunta della regione, dello stesso colore politico, lo impugna di fronte al Tar?”. Per quanto ci riguarda, sosterremo con fermezza e convinzione le esigenze delle imprese e cercheremo di fare in modo che anche il nuovo governo le faccia sue.

Un altro dossier ancora aperto è quello relativo a Piombino: qui mi pare di capire che siamo ancora più indietro, è così?

Con la Lucchini siamo decisamente in alto mare. Non ho molte informazioni in merito, ma la Jindal aveva siglato un protocollo d’intesa prima delle elezioni che era però subordinato a una fase di due diligence. Ora si leggono notizie in cui sembra che il gruppo algerino stia prendendo tempo e, addirittura, smentisce la trattiva. Solo il tempo potrà dirci le reali intenzioni di Jindal, che al momento si è trincerata dietro un silenzio piuttosto ostinato.

 

L’impainto di Piombino

 

Ha fatto riferimento prima all’instabilità politica che stiamo vivendo: può riverberarsi sull’intero comparto siderurgico?

Direi proprio di no, almeno finché ci si mantiene nell’alveo di una normale querelle politica in un momento in cui in Italia manca una maggioranza piena che possa creare un nuovo governo. Poi è naturale che dossier come quello di Ilva o Piombino possano essere molto influenzati dal colore del prossimo governo. Ma, a meno di una degenerazione del quadro politico verso una situazione di totale instabilità, con i conti fuori controllo o di scontro con gli organismi europei, la siderurgia italiana non corre particolari pericoli.

Lei prima ha fatto cenno ai pacchetti 4.0 del governo: pensa che il prossimo esecutivo possa metterli in naftalina?

Il piano Calenda ha avuto un impatto straordinario sull’intero manifatturiero italiano e, da quello che ho potuto sentire, mi pare che ci sia stato un consenso trasversale a questo piano. Anche perché ha permesso a molte aziende siderurgiche di fare investimenti significativi dal punto di vista dell’impatto ambientale.

Un impegno che però difficilmente vi viene riconosciuto: quanto è difficile comunicare i risultati raggiunti in un settore come quello della siderurgia che viene troppo frettolosamente bollato come “avvelenatore”?

Esiste una grande difficoltà nel comunicare quello che stiamo facendo. Eppure gli investimenti sono stati giganteschi. Penso, ad esempio, ai filtri applicati sui forni elettrici. Le normative europee e italiane sono diventate sempre più stringenti, e noi ci siamo dovuti adeguare con dei filtri a carbone attivi. Le imprese siderurgiche del nord-Italia sono in perfetta compliance rispetto ai dettami comunitari, anche perché sono sistematicamente monitorate dalle ARPA locali, con controlli da remoto in tempo reale sulle emissioni. C’è una situazione di grande fermento, frutto degli investimenti prodotti dall’intero comparto, che ha permesso di raggiungere la compliance ambientale dell’industria siderurgica.

Però c’è un difetto di comunicazione significativo che deve essere risolto ad ogni costo. Ogni anno facciamo un rapporto di sostenibilità in cui rendicontiamo tutti gli interventi che facciamo, da quelli sui fumi alla gestione delle acque passando per il risparmio energetico e la sicurezza sul posto del lavoro. Se lei prende gli atti di qualsiasi cda di un’industria siderurgica vedrà che il primo punto è sempre relativo alla prevenzione e agli interventi da fare. C’è moltissima consapevolezza e la comunicazione di tutto quello che stiamo facendo viene effettuata correttamente. Ma, evidentemente, bisogna fare di più e meglio.

 

Il presidente USA Donald Trump

Torniamo ai dazi di Trump: come Federacciai avete già qualche dato sui possibili effetti?

Partiamo da un assunto: si tratta di un tema multifattoriale che ha conseguenze dirette e indirette sulla siderurgia. Per quanto riguarda le prime, l’Europa ha esportato negli USA, nel 2017, 5 milioni di tonnellate di acciaio, che provengono principalmente da tre paesi: Germania (1,3 milioni), Olanda (800mila) e Italia (500mila). Ora, con l’introduzione dei dazi questi cinque milioni di tonnellate restano in Europa e si riversano sul mercato continentale. Non siamo in grado di valutare se possano spostarsi verso altre aree del mondo che non siano gli Stati Uniti, anche perché c’è un enorme problema di trasporto. Per quanto riguarda la sola Italia, 500mila tonnellate in meno di esportazioni significano almeno 600-700 milioni di dollari, con molte imprese colpite. Stiamo cercando di fare un’analisi dettagliata attraverso i codici prodotto per capire meglio su quali comparti della siderurgia i dazi impatteranno maggiormente. È vero che 500mila tonnellate non sono un volume gigantesco, ma si tratta comunque di un danno notevole che, se le cose dovessero restare così, avrebbero grande riverbero nella siderurgia nostrana.

E gli effetti indiretti?

Gli Usa importano tra i 24 e i 25 milioni di tonnellate di acciaio ogni anno e Trump ha dichiarato che vuole bloccarne 14 o 15. I maggiori paesi da cui proviene l’acciaio sono il Canada (che però è esentato dai dazi), il Giappone, la Corea del Sud, il Messico (anch’esso non colpito dal provvedimento), Germania e Cina. Proprio la Cina dimostra la contraddizione in termini dei dazi dell’amministrazione Trump: già oggi esiste un blocco, che in realtà dura da molti anni, che impone dazi sui prodotti cinesi. Le esportazioni verso gli Stati Uniti sono molto modeste, quindi si parla di una minaccia cinese che in realtà non esiste. Un provvedimento un po’ strano, che va a colpire una siderurgia che non aveva creato alcun tipo di problema agli Stati Uniti, ovvero quella europea. Questi milioni di tonnellate che non verranno più allocate in USA dove finiranno? Dove si scaricheranno?

 

Vicenza, acciaieria

 

Il rischio è che arrivino in Europa, che è il mercato più aperto. Per questo, come Federacciai e come Eurofer abbiamo chiesto all’Europa misure di rebalancing, che significa ridurre le importazioni di 5 milioni di tonnellate, cioè la produzione europea che non finirà più negli Stati Uniti. Ma così andremo a colpire paesi come l’Iran e l’Egitto che sono vittime incolpevoli dei dazi. E poi non è detto che con un meccanismo di quote nei confronti di altre siderurgie si coprano esattamente quei flussi di esportazione che prima venivano inviati negli USA. Si rischia un provvedimento fatto con l’accetta, ma è naturale che una misura di salvaguardia di qualsiasi tipo debba essere assunta. Ma una tutela di questo tipo porta con sé il baco della guerra commerciale, perché significa andare a colpire altre aree del mondo come conseguenza delle scelte americane.

Una riduzione delle sanzioni verso la Russia potrebbe offrire una parziale soluzione del problema?

Decisamente no, la Russia è un paese esportatore e anche loro hanno un forte scambio con gli Stati Uniti. Se anche riaprissimo le frontiere con Mosca non risolveremmo il problema.

Quindi, o si avrà una vittoria della diplomazia o si rischia un effetto a catena che può andare a toccare molti altri settori…

Noi ci siamo espressi chiaramente contro la retaliation, la guerra commerciale che non porta da nessuna parte. Una delle possibilità evocate è stata quella di “vendicarsi” introducendo dazi su altri prodotti che non siano siderurgici, ma secondo noi questo è un metodo sbagliatissimo. Appena l’Europa ha minacciato di mettere dei paletti su Harley Davidson, sul bourbon o sui Levi’s, Trump ha risposto che avrebbe messo dazi sulle automobili europee che vengono esportate in grande numero negli Usa. Un provvedimento di questo tipo significherebbe dare vita a un ulteriore rimbalzo sull’acciaio.

Presidente, quest’anno scade il suo mandato: che voto si dà e a che punto siamo nella sua successione?

Non sta a me darmi il voto. Però posso dire che è stata una bella esperienza, più lunga del normale perché invece che fare i canonici due anni di mandato più altri due, ho fatto 2+2+2. In questo periodo ho affrontato tanti temi caldi, come l’Ilva, e ho lavorato tantissimo sul costo dell’energia, che era squilibrato rispetto ad altri competitor europei. Oggi per fortuna il prezzo che la siderurgia italiana deve pagare è allineato a quello dei competitor europei. Il piano 4.0 è stato straordinario e ci ha permesso di crescere in maniera significativa. Ora i saggi sono al lavoro ed entro la fine di aprile dovremmo sapere il nome del mio successore, che verrà poi sancito dal voto dell’assemblea verso la fine di maggio.














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