Caro Calenda, questa dovrebbe essere la politica industriale per il 2017

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Carlo Calenda, ministro dello Sviluppo Economico del governo Gentiloni

di Laura Magna e Filippo Astone ♦ Nella sua ormai famosa intervista al Corriere della Sera, Calenda ha prefigurato una nuova fase di politica industriale e un secondo pacchetto Industria 4.0. Abbiamo chiesto suggerimenti a Dell’Orto, Busetto, Bagnoli, Taisch, Baban, De Felice, Ferrari, Riello jr….

Una fase due per Industria 4.0. Ovvero una vera politica industriale per il Paese. Che passi innanzitutto per l’implementazione della fase uno del pacchetto Industria 4.0 e che poi punti dritta su alcune idee forti e le persegua. E che metta in luce specificità italiane, come la capacità di adattarsi ai cambiamenti, ma che includa anche azioni di snellimento più pratiche: dal taglio del costo del lavoro, alla riduzione degli adempimenti burocratici per chi fa impresa. Senza perdere contatto con l’economia reale.







Queste sono, in estrema sintesi, i suggerimenti di imprenditori, professori, esperti a cui Industria Italiana ha chiesto in cosa dovrebbe consistere una fase due di Industria 4.0, prendendo ispirazione dall’accenno che ne ha fatto il ministro allo Sviluppo Carlo Calenda in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera , mentre ancora si definiscono i dettagli del primo programma di incentivi. Sull’argomento, Industria Italiana ha già raccolto il punto di vista del  Sottosegretario al Ministero dell’ Economia, Pierpaolo Baretta, del Professor Patrizio Bianchi, di Roberto Crapelli, AD Roland Berger Italia.

Il ministro ha parlato della necessità di una «rete di protezione per il sistema Italia». Un segnale di commitment forte ma anche un indice del fatto che il percorso compiuto finora, nonostante le buone intenzioni, resta incompleto. Nulla di cui stupirsi, dal momento che l’Italia deve recuperare un gap di competitività con la Germania aumentato negli anni della crisi: per colmarlo le stime dicono ci vogliano investimenti di almeno 60 miliardi in dieci anni.

Andrea Dell'Orto
Andrea Dell’Orto vicepresidente di Assolombarda Confindustria Milano Monza e Brianza con delega al manifatturiero e medie imprese

Andrea Dall’ Orto: manca la premialità per l’impresa

Le aziende italiane sono pronte? Saranno in grado di sfruttare le opportunità messe in campo dal programma che sta per partire e che dovrebbe rendere più facile e meno oneroso dotarsi delle cosiddette tecnologie abilitanti? L’interesse è senza dubbio alto da parte della platea di imprese che stanno valutando «gli strumenti messi a disposizione, in particolare l’iperammortamento” dice a Industria Italiana Andrea Dell’Orto. Oltre a dirigere l’omonima società che produce sistemi di iniezione e hardware hi-tech per auto e moto, Andrea Dell’ Orto è vicepresidente di Assolombarda Confindustria Milano Monza e Brianza con delega al manifatturiero e medie imprese e ha fatto parte della cabina di regia di industria 4.0. «Inoltre sia in Confindustria sia in ambito universitario stiamo lavorando per avviare il primo Innovation Hub italiano a Milano che faccia da apripista».

Ciò detto, Dell’Orto non ha dubbi nell’individuare cosa manchi invece al programma governativo : non c’è «la premialità sul progetto: a oggi si premia l’investimento nel bene strumentale ma non il progetto completo. E’ necessario lavorare in questa direzione introducendo misure di incentivo come il credito di imposta sui temi del 4.0. E bisogna anche stimolare gli investimenti privati: secondo la società di consulenza Roland Berger – ricorda Dell’ Orto -saranno necessari almeno 60 miliardi in dieci anni. Bisogna studiare il modo di recuperarli, attraverso il sistema bancario o la costituzione di fondi di investimento dedicati di private equity o venture capital».

La terza lacuna risiede ancora «in un piano di education in cui si preveda la formazione delle nuove figure professionali che saranno necessarie a Industria 4.0 partendo dalla scuola con l’alternanza scuola-lavoro e coinvolgendo anche l’Università. Tutto ciò – conclude Dell’Orto – consentirà non solo di recuperare il gap con la Germania ma anche di avviare collaborazioni fruttuose soprattutto sulle tecnologie abilitanti di cui Berlino è depositaria».

Marco Taisch
Marco Taisch, professore di Sistemi di produzione automatizzati e tecnologie industriali al Politecnico di Milano

Marco Taisch: per una politica industriale valida ci vuole un’orizzonte pluriennale

«Una fase due è intanto senza dubbio necessaria – afferma Marco Taisch, professore di Sistemi di produzione automatizzati e tecnologie industriali al Politecnico di Milano e desperto in temi legati a manifattura, fabbriche, economia reale – non si può pensare che il Paese riparta in un anno: il piano fatto per il 2017 è ambizioso ma deve essere reso sostenibile nel medio lungo periodo. Ci sono una serie di azioni che vanno in quella direzione come educazione e formazione. Nel corso di quest’anno lavoreremo con le aziende best in class e con quelle che sono indietro affinché si trovino pronte alla rivoluzione necessaria. Ma ovviamente una politica industriale che sia valida non può esaurirsi in un’azione limitata nel tempo: deve avere un orizzonte pluriennale».

Il problema ora è che se i 23 miliardi di investimenti previsti dal programma Industria 4.0 tra incentivi fiscali e conseguenti investimenti privati non saranno indirizzati nel modo giusto si rischiano di fare danni, anziché di creare valore. «L’auspicio e anche il messaggio di Confindustria e Assolombarda è che questi fondi siano usati tutti – continua Taisch – perché il resto del mondo va avanti veloce e le imprese italiane non hanno altra scelta che crescere ed evolvere se vogliono restare competitive o anche solo sopravvivere. Nel contempo dobbiamo fornire loro una rete di protezione, che sono i Competence Center e gli Innovation Hub che spiegano alle aziende in che modo investire gli stanziamenti per non bruciare questa occasione».

Ma anche su questo punto le cose si muovono: lo stesso Polimi ha  definito, per esempio, uno strumento di analisi della maturità digitale che aiuta l’azienda a capire su quali aree funzionali conviene investire in chiave di Industria 4.0: «si tratta – dice il professore – di uno strumento disponibile che è stato già ampiamente richiesto. E in generale la domanda di formazione sui temi della automazione è aumentata in maniera esponenziale». Vedi a questo riguardo l’articolo di Industria Italiana.

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Alberto Baban, presidente della Piccola Impresa di Confindustria

Alberto Baban: la politica ha il dovere di diffondere la cultura 4.0

Dalla Germania l’Italia può apprendere alcune cose, come la capacità di fare sistema e di “venderlo” all’esterno, ma non può copiare il modo in cui ha declinato Industria 4.0 nella sua economia in cui i colossi manifatturieri si sono trasformati in provider di soluzioni di automazione, da Siemens a Bosch a Sap. «In Italia si fa spesso ancora l’errore di pensare che la rivoluzione 4.0 sia una questione settoriale che riguarda digitale e web – spiega Alberto Baban, presidente della Piccola Impresa di Confindustria, anch’egli presente in cabina di regia – invece si tratta di uno strumento che può trasformare qualsiasi settore e che ha un impatto particolarmente significativo sulla manifattura.

Penso alla manutenzione predittiva, alla trasmissione dei dati tra clienti e fornitori, alla modulazione delle capacità produttiva attraverso l’intelligenza artificiale che aiuta nella costruzione della lettura dei dati a capire qual è il miglioramento possibile. La stessa realtà aumentata che a prima vista sembrerebbe utile solo per giochi elettronici, in realtà aiuterà ad avere una nuova operabilità dei macchinari, nuova interazione tra macchinari e lavoratori: è un’evoluzione che sta avvenendo e a cui non ci si può sottrarre», pena la disintegrazione dei business.

Accelerare su questi modelli come il ministro Calenda ha dichiarato di voler fare sempre di più «è assolutamente un’idea di politica industriale – sostiene Baban – che impatta in maniera importante sulla manifattura sia in termini di evoluzione della capacità produttiva delle aziende sia in termini di dialogo con il consumatore». E le piccole imprese che costituiscono la gran parte dell’ossatura imprenditoriale italiana sono pronte?

«Direi una bugia se dicessi che sono tutte pronte – risponde Baban – bisogna metabolizzare questo sistema e capire perché può essere utile alle singole imprese: questo è un compito della politica che deve diffondere la corretta cultura aiutata da Confindustria che ha il dovere di spiegare perché la rivoluzione 4.0 è necessaria in un Paese come l’Italia che è il secondo mercato manifatturiero d’Europa, dietro alla Germania»

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Giordano Riello, presidente dei Giovani Imprenditori di Confindustria Veneto

Giordano Riello: Industria 4.0, un piano che tiene conto dell’economia reale

E alcuni territori sono particolarmente coinvolti perché densi di manifattura. Senza dubbio lo è l’area di Monza e Brianza che è la terza area manifatturiera d’Italia e la sesta d’Europa. Ma anche il Veneto spicca per la diffusione capillare delle sue fabbriche. «Un dato molto significativo:  Arzignano, un Comune della provincia di Vicenza da solo conta per l’1% del Pil nazionale – dice Giordano Riello, erede della dinastia delle caldaie e start-upper nel settore dell’illuminazione al Led, nonché presidente dei Giovani Imprenditori di Confindustria Veneto – .Abbiamo lavorato come Regioni con il presidente nazionale perché questo portasse al Governo le nostre istanze e in questo sta una prima importante differenza tra il piano Calenda e i precedenti: è un piano calato nella realtà mentre gli altri non lo erano e si sono dimostrati fallimentari».

Il contributo dei giovani imprenditori veneti al lavoro della cabina di regia ha puntato sugli strumenti utili «a rinnovare il parco macchine obsoleto delle imprese italiane – continua Riello – e siamo stati confortati dalla conferma di Calenda dopo le dimissioni di Renzi perché è un segnale di continuità rispetto a quanto stiamo facendo in chiave di industria 4.0: molti imprenditori hanno puntato sull’iperammortamento del 245% che offre una discreta serenità per affrontare gli investimenti, anche e soprattutto per le nuove imprese in un settore, quello della manifattura, dove l’avviamento richiede costi nell’ordine di centinai di milioni».

Abbassare il costo del lavoro

Dal punto di vista di un ventisettenne che questa avventura di fare impresa manifatturiera e in Italia l’ha tentata, pur se con alle spalle una dinastia di imprenditori e quindi un humus fertile, le falle del sistema si chiamano “diritti acquisiti” e “costo del lavoro”. «La mia generazione è la prima che avrà meno ricchezza della precedente e non vedrà la pensione – dice – credo che coloro che hanno avuto la nostra età negli anni Sessanta e Settanta siano oggi il vero freno allo sviluppo in chiave moderna del Paese e dovrebbero andare fuori gioco per non farci perdere altre occasioni.

Poi c’è un tema di costo del lavoro eccessivamente elevato, che ci rende poco competitivi rispetto ai vicini di casa europei. Si badi bene, io non sono per la riduzione dei salari, anzi sarei disposto a pagare lo stesso lordo ai miei operai purché finisca in misura maggiore nelle loro tasche ed entri in circolo nel sistema: mi aspetto un’azione responsabile in questo senso e mi sembra si stia andando già in questa direzione. Abbassando la pressione fiscale si aumenta la capacità di spesa: certo questo implica la rinuncia a certi diritti acquisiti, ma ora è davvero necessario farlo ».

E c’è un’altra questione che secondo Riello non va sottovalutata e riguarda sempre le generazioni più giovani: «Il 66% degli studenti di oggi faranno un lavoro che deve essere ancora inventato – conclude l’imprenditore -. E’ necessario un rinnovamento del sistema scolastico per dare strumenti a questi studenti e per metterli al passo con le esigenze future del mondo del lavoro. Bisogna guardare avanti, smettere di vivere su anacronismi che appartengono a un mondo ormai estinto».

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Fabio De Felice, fondatore di Protom

Fabio De Felice: eliminare i lacci burocratici

«Fare il follow-up di una politica industriale che non esiste, è una chimera – sostiene Fabio De Felice, fondatore di Protom, società napoletana leader a livello europeo nei servizi avanzati di ingegneria -. Io direi che dobbiamo accontentarci di intravedere un barlume di una politica industriale che è stata in passato a dir poco latitante». Alla fine nella locuzione “politica industriale” c’è tutto e niente: cos’è e come deve essere una politica industriale? «Shinzo Abe ( il primo ministro giapponese ndr. ) che vive in deflazione galoppante – continua De Felice – ha deciso di puntare su tre settori e su quelli ha fatto la politica industriale. Si fa così. Noi a oggi non abbiamo fatto nulla, a parte distribuire risorse a pioggia senza risolvere nulla. Il ministro Calenda marca il concetto, importante, di avere delle idee. Giuste o sbagliate che siano l’importante è averle: sarei soddisfatto se questo barlume di politica industriale venisse consolidato».

Al centro di queste idee di Calenda c’è appunto Industria 4.0: «finanziare i fattori abilitanti fa parte senz’altro di quelle buone idee di cui sopra – continua il manager -. Un punto su cui ho dei dubbi è legato all’arretratezza del Paese dal punto di vista della digitalizzazione: come convertiremo in concreto il concetto di Industria 4.0? Dobbiamo incentivare le aziende a innovare, spingere sulle infrastrutture per rendere attuabili il piano 4.0 e creare le professionalità che possono gestire questo cambiamento . E dobbiamo creare il nostro claim, che non può essere quello tedesco o quello americano. Dobbiamo sfruttare il fatto che siamo la seconda infrastruttura europea e la settima al mondo eliminando i lacci che finora ci hanno impedito di volare. Lo dico da analista: se noi eliminassimo i vincoli burocratici e riuscissimo a far fluire le informazioni in maniera lineare non avremmo paragoni,abbiamo uno spirito di adattamento che nessun altro al mondo possiede»

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Paolo Ferrari, titolare Comoli Ferrari

Paolo Ferrari: la burocrazia frena l’impresa

La burocrazia è la vera bestia nera per chi fa impresa in Italia. E lo confermano anche le parole di Paolo Ferrari, titolare di Comoli Ferrari, distributore di materiale elettrico e domotica, nonché Value Added Reseller di Siemens ( vale a dire che Siemens è uno dei maggiori fornitori dell’azienda novarese). «Sulla carta il programma di Calenda desta un interesse enorme – afferma Ferrari – ma Industry 4.0 sarà un processo a medio e lungo termine e non è solo il tema dell’ industria che si deve dotare di tecnologie. Riguarda l’adeguamento infrastrutturale dell’ intero Paese , e con esso anche tutto il flusso, a partire dal sistema autorizzativo burocratico che è contro l’impresa: tempi lunghissimi e costi enormi».

Insomma, Industria 4.0 è una base da cui partire per costruire. «Una base – continua Ferrari – da cui si può fare moltissimo. Ma certo siamo senza un governo stabile e dobbiamo anche vedere come la situazione sarà gestita da chi si insedierà. Gli strumenti messi in campo senz’altro sono dirompenti». Una spinta reale che arriva dopo anni e decenni di assenza totale, ma che, per essere efficace, deve essere accompagnata da un reale “fare sistema”. «Sistema è una parola chiave in cui non siamo stati mai molto bravi: le nostre eccellenze sono molto individualiste e poco supportate dallo Stato, il che poi provoca vicende come quella di Luxottica, di Mediaset, di Fineco conquistate da colossi esteri».

Giuliano Busetto
Giuliano Busetto, Country Division Lead Digital Factory e Process Industries and Drives Siemens Italia, presidente Anie

Giuliano Busetto: l’idea forte dei processi continui

«La fase due dovrebbe innanzitutto consistere nell’implementazione della fase uno – dice Giuliano Busetto, che dirige il settore Industry di Siemens in Italia ed è presidente di Anie -. I contenuti del piano industria 4.0 non sono stati ancora precisati nel dettaglio, tanto che le aziende non sono ancora partite e si stanno chiedendo se iniziare a fare gli investimenti o attendere i bandi. C’è da fare un lavoro importante per trasmettere il messaggio che possono iniziare a investire in beni materiali che devono essere iperconnessi per poter accedere al superammortamento.

Quindi bisogna spiegare loro che non basta acquistare una macchina utensile con controllo numerico, ma si deve trattare di macchine connesse in rete e bisogna poi indicargli come portare in ammortamento il bene. Insomma ci aspetta una fase ampia di education, di divulgazione dei piani governativi che vanno in direzione di una produzione in generale più flessibile».

Un compito che forse si rivelerà più arduo del previsto ma che è fondamentale per non perdere la grande occasione di poter disporre di 10 miliardi più 13 per ammodernare il sistema industriale italiano e farlo tornare a essere competitivo in un ambito mondiale. «Quanto alla politica industriale – continua Busetto – non ne vedo ancora una certa e sicura, ma vedo delle idee che si vanno sviluppando. Come quella di puntare non solo sulla manifattura ma anche sui processi continui: sul filo di lana è stato inserito nel piano industria 4.0 tutto questo mondo, ovvero acciaierie, impianti chimici e petrolchimici. Il che forse andrà a discapito della manifattura ma darà luogo a una ripresa degli investimenti in quelle industrie comunque strategiche per il Paese. E nella stessa situazione va la cessione dell’Ilva di Taranto: quella di sbloccare una situazione ormai incancrenita per ripartire».

Carlo Bagnoli
Carlo Bagnoli, professore di Innovazione strategica dell’Università Ca’ Foscari di Venezia
Carlo Bagnoli : l’Europa può competere solo tornando all’impresa sociale

La prospettiva nella quale valutare l’efficacia e la congruenza delle misure di Calenda deve abbracciare anche un giro d’orizzonte più vasto pensando ai mercati e alle tendenze culturali globali .«La competizione avviene su due aspetti – spiega Carlo Bagnoli, professore di Innovazione strategica dell’Università Ca’ Foscari di Venezia – sulla differenziazione che equivale all’innovazione e sulla leadership di prezzo.Se consideriamo entrambe queste variabili l’Italia, ma a mio dire anche tutta l’Europa, è disarmata di fronte agli Usa sull’ innovazione e di fronte alla Cina e all’Asia in generale sulla leadership di prezzo ».

In entrambi i casi i mercati stanno puntando ai Millenials, i consumatori che domineranno la scena per i prossimi 40 anni. «Negli Usa si costruiscono case senza parcheggi perché ai Millenials non interessa possedere l’auto – continua Bagnoli – mentre l’Europa punta sui cinquantenni che l’auto la comprano ma che hanno uno spazio temporale di consumi futuri molto più ridotto. Mio figlio non paga mai nulla prima di aver provato, mia mamma paga invece tutto e volentieri perché se una cosa è gratis non è buona: in Europa si produce per mia mamma e non per mio figlio. E i fornitori di componentistica auto, per stare nell’esempio di cui sopra, non sapranno che non si producono più auto finché Volkswagen non li chiamerà per dir loro che non ha più bisogno della fornitura. Chi fa componenti non ha visibilità sul consumatore, forse la Germania ce l’ha realizzando il prodotto finale – ma non ne sono così convinto – ma noi di certo lo scopriremo all’improvviso, quando sarà troppo tardi».

Ed ecco che tutto ciò che è una forza, il made in Italy, rischia di diventare un particolare di poca importanza: «i Millenials acquistano su Amazon, e per diventare cliente di questi server che detengono il vero potere devi avere dimensioni enormi – continua il professore -. C’è un’unica grande speranza che può tenerci in vita. E cioè che deflagri il loro sistema sociale, sia quello cinese dove i lavoratori sono pagati poco e non hanno diritti, sia quello statunitense dove invece i lavoratori sono strapagati ma ci sono delle bolle. Se implodono questi sistemi, allora se da noi riusciamo ad abbinare il sistema economico con sistema sociale alla Olivetti ci possiamo ritagliare uno spazio dove il sociale guida l’economico e diventa una forma di vantaggio competitivo. Politica industriale è recuperare più efficienza possibile, e avere un vantaggio competitivo con alte barriere di ingresso è recuperare efficienza».














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