Carlo Calenda o Antonio Tajani premier?

L’industria, che sta finalmente crescendo bene ed è vitale per tutti gli italiani viene ignorata dall’agenda dei partiti ed esclusa dalla campagna elettorale. Industria Italiana in un esercizio di fantapolitica candida i due unici politici importanti che se ne sono sempre occupati.

Carlo Calenda, ottimo ministro dello Sviluppo Economico dei governi RenziGentiloni, colui che ha il merito di aver varato il  provvedimento più efficace ed incisivo degli ultimi anni per l’ industria italiana, e Antonio Tajani, attuale presidente del Parlamento europeo, carica che ricopre dal 17 gennaio 2017, e già commissario europeo ai Trasporti e all’Industria.







Mentre le elezioni politiche sono alle porte, vengono diramati dati estremamente positivi sulla produzione industriale nel 2017, che è cresciuta del 3%. Il miglior risultato degli ultimi sette anni, oltre che il migliore in Europa. Inoltre, la capacità produttiva è arrivata all’85% e, soprattutto, sono ripresi gli investimenti interni. Il Mise ha comunicato che nel 2017 ci sono stati 80 miliardi di investimenti fissi lordi in più, e per il 2018 ne sono attesi altri 90 circa. Una grandiosa notizia per un Paese in cui le aziende – indipendentemente dalla crisi – avevano smesso di investire per quasi 20 anni. Inoltre, gli importanti investimenti in macchinari (interconnessi e no) a partire dal 2018-2019 produrranno ulteriori effetti positivi in termini di nuove produzioni, innovazioni, richiesta di nuovi servizi. Insomma, più pil.

 

Una simile congiuntura positiva dell’industria avrebbe bisogno di essere governata.

Di più, cavalcata, sostenuta e fatta ulteriormente crescere da adeguate misure politiche. Insomma, ci vorrebbe una politica industriale importante e degna di quella degli altri grandi Paesi manifatturieri, come Germania, Francia, Stati Uniti. Non solo perché è urgente ed è importante sfruttare il momento positivo, tantopiù in un Paese che resta il secondo industriale in Europa dopo la Germania e il settimo al mondo. Ma soprattutto perché la manifattura non è un settore fra tanti, come le banche, il turismo o l’agricoltura.

La manifattura sta almeno un gradino più in altro di tutti gli altri settori.

In primo luogo perché li rende possibili. I servizi e la finanza servono soprattutto per l’industria, per alimentare l’industria, per servire l’industria. L’agricoltura è in realtà industria agricola, e può rimanere competitiva solo se utilizza adeguati macchinari industriali per rendere efficiente ed efficace la sua catena del valore. Inoltre, l’industria ha una capacità di generare indotto, scienza, tecnologia e posti di lavoro che gli altri settori proprio non possono nemmeno ipotizzare di avere. Senza contare il fatto che in un Paese povero di materie prime come l’Italia, senza industria non è possibile tenere in piedi la bilancia dei pagamenti, e tutta l’economia e la società finirebbero solo in povertà.

 

Ma nell’agenda politica dell’Italia pre-elezioni, l’argomento Industria non è ritenuto prioritario

Un rapido ma efficace sguardo ai programmi dei principali partiti consentirà di capirlo. Cominciamo da Forza Italia, che riconduce tutto alla questione fiscale. Il cuore del suo programma consiste nella riduzione delle tasse e nell’introduzione della Flat Tax, che avrebbero, se realizzate (e ci sono molti dubbi sulla realistica fattibilità) il magico potere di far crescere “automaticamente”, l’economia e il lavoro. Viene anche proposta la definitiva chiusura di Equitalia e la fine di ogni contenzioso fiscale proponendo agli interessanti un conveniente forfait. Qualche parola viene spesa per un sostegno generico alle energie rinnovabili.

 

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I Cinque Stelle sostanzialmente non nominano l’industria italiana.

Il loro programma economico si basa soprattutto su un consistente incremento della spesa pubblica, attraverso investimenti diretti dello Stato ed erogazione di redditi di cittadinanza e pensioni. Va riconosciuto loro che al di là della fattibilità di tutto questo (veramente dubbia), un incremento della domanda interna conseguente a un aumento della spesa pubblica indubbiamente aiuterebbe molte industrie. Certo, ormai la crema della nostra manifattura vive soprattutto di esportazioni (e infatti la ripresa si spiega anche con il fatto che la domanda mondiale sta tirando molto bene, con un 2018 in cui viene atteso un + 3,5% di pil come nel 2017) ma comunque tutte le industrie hanno la base qui. E più crescono i consumi delle famiglie e meglio è.

 

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Gli unici a parlare esplicitamente di industria sono quelli del Partito Democratico

Anche loro si dichiarano – come Forza Italia – assertori del magico potere della riduzione delle imposte (come? ah saperlo..). L’industria compare nel programma del Partito Democratico in due voci. La prima riguarda il tema energetico. Si vuole abbassare il costo dell’energia (che nel nostro Paese è la più cara d’Europa e fra le più costose al mondo) e puntare massicciamente sulle rinnovabili fino ad arrivare, nel 2050, a un sistema energetico completamente indipendente dai combustibili fossili. La seconda riguarda la proroga degli incentivi del piano Calenda (che però non viene chiamato piano Calenda) per tutta la legislatura, con un sistema decrescente nel tempo. Il piano Calenda non era fatto solo di incentivi, e ha visto una fase 2 focalizzata su formazione, istruzione ed education. Nel programma del Pd non vi è alcun cenno a fasi successive, che pure sarebbero indispensabili. Inoltre, vengono promesse azioni per un maggiore sviluppo di banda larga, alta velocità ferroviaria, piste ciclabili.

Nei tre programmi è bandita l’espressione “politica industriale” e lo sono anche le parole “industria” e “manifattura”.

Nessuno si pone il problema di come far crescere l’industria stessa. Il tema fondamentale per la competitività e per l’industria, e cioé l’aumento degli investimenti in ricerca e sviluppo (che in Italia sono al minimo rispetto a tutto il mondo occidentale). Anche il tema dell’innovazione, non viene mai affrontato, se non (da parte del Pd) attraverso l’incremento della diffusione della banda larga e le energie rinnovabili. In questo contesto così alieno rispetto alle esigenze del Paese Reale, noi di Industria Italiana vogliamo ribaltare il punto di vista prevalente e fare un esercizio di fantapolitica.

Candidiamo al posto di Primo Ministro i due uomini politici, uno per schieramento, che hanno sostenuto le ragioni dell’industria: Carlo Calenda e Antonio Tajani.

 

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Carlo Calenda, Ministro dello Sviluppo economico prima nel governo Renzi, poi in quello Gentiloni

Carlo Calenda, un sogno impossibile

Carlo Calenda è stato un ottimo ministro dello Sviluppo Economico. E’ il ministro dei governi RenziGentiloni che ha il merito del provvedimento più efficace ed incisivo, l’unico provvedimento sul quale nessuno ha sollevato obiezioni. Poteva essere la bandiera dei risultati positivi della maggioranza politica uscente. Invece, non è stato ricandidato e, per ora, si ritirerà a fare “la reserve de la republique”. Si ignorano i motivi di questa decisione, in merito alla quale fioriscono interpretazioni e dietrologie, una delle quali lo vorrebbe messo da parte perché troppo ingombrante e tale da mettere in ombra il leader. In ogni caso, a tutt’ oggi è assai improbabile che nel futuro prossimo Calenda diventi premier o sia destinato a occupare un posto importante. In questo caso, insomma, il nostro esercizio è di fantapolitica più che mai.

Il piano Calenda per l’Industria 4.0, fatto soprattutto di incentivi fiscali, ha dato un grosso contributo alla rinascita recente. E ha riportato l’industria al centro del dibattito politico-mediatico. Certo, come a suo tempo abbiamo scritto qui   il piano aveva gravi lacune. Ad sempio, non ci piace la sbandierata neutralità, visto che i piani di politica industriale di successo nel mondo (Germania e Stati Uniti in testa) sono tutt’altro che neutrali. E non ci piace che non sia stato affrontato il nodo dell’aumento degli investimenti in ricerca e sviluppo (che sono l’arma competitiva fondamentale) e soprattutto del ruolo dello Stato, che è l’unico in grado di fornire quei “capitali pazienti” per investimenti in ricerca senza un immediato e chiaro ritorno. A parte questo, rispetto al Niente dei suoi predecessori, Calenda è stato un gigante, un importante sostenitore delle ragioni della manifattura. E sarebbe un ottimo Presidente del Consiglio. Su Calenda abbiamo scritto molto. Per esempio qui  e qui,  e ancora qui. I lettori, pertanto, ci perdoneranno se a lui dedichiamo un po’ meno spazio rispetto a Tajani. Non abbiamo preferenze particolari per l’uno o per l’altro.

 

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Antonio Tajani, presidente del Parlamento europeo dal 17 gennaio 2017

Antonio Tajani, l’uomo dell’industria europea.

A differenza di Calenda, in questo momento Tajani ha delle concrete chances di diventare Presidente del Consiglio o, addirittura, fra qualche mese, Presidente della Commissione europea. E’ un fatto che Antonio Tajani, da commissario europeo ai Trasporti (2008-2010) e poi all’Industria (2010-2014) oltre che come vicepresidente abbia difeso il più possibile le ragioni dell’economia reale e della produzione. Lo ha fatto nel momento più critico. Quando in Europa non si parlava d’altro che di Fiscal compact e di austerità (che, come è noto, diminuendo la spesa pubblica e quindi la domanda interna nuoce gravemente all’Industria). Quando l’Industry 4.0 non era certo protagonista del discorso pubblico come oggi, anzi, quasi non se ne parlava e la manifattura sembrava scomparsa dalle scene.

Horizon 2020, aerospazio, piccole imprese.

Antonio Tajani è stato uno dei fautori di Horizon 2020, il programma – varato nel 2011 ed entrato in vigore nel 2014 – che mette disposizione 80 miliardi di euro fino al 2020 per iniziative di ricerca e sviluppo in ambiti che possono creare valore economico manifatturiero. Quella somma di denaro può avere un effetto moltiplicatore degli investimenti privati, e riuscire a mobilitare fino a 320 miliardi di investimenti totali. L’obiettivo era di frenare la tendenza alla de-industrializzazione, arrivando, nel 2020, a un 20% di pil europeo generato dal manifatturiero. Inoltre, ha sostenuto i programmi comuni europei nel settore dell’aerospaziale, Costellazione Galileo (navigazione satellitare) e Copernicus (osservazione della terra). Dentro la commissione Barroso, il vicepresidente Tajani era colui che cercava di trovare flessibilità, vie d’uscita, mediazioni rispetto al quadro rigido e punitivo del Fiscal Compact.

Industrial Compact.

Successivamente, Tajani si è speso per arrivare a un vero e proprio “Industrial Compact” e a un patto sull’acciaio, per contrastare i cinesi, che con bassi prezzi e overcapacity stanno mettendo in seria difficoltà il vero pilastro dell’economia reale. Queste battaglie non hanno avuto un grande esito, almeno non ora. Però, il tema è stato posto, sono stati gettati semi importanti che potrebbero germogliare nella prossima legislatura di Bruxellesxone nella prossima commissione. Da anni, Tajani insiste su temi lasciati scoperti dagli altri politici ovvero le piccole imprese, la produzione, il fisco, lo sviluppo economico, la riduzione della burocrazia, il finanziamento della ricerca e dell’innovazione.

E’ in Europa che si decide tutto, e Tajani lo ricorda sempre.

Tajani è uno dei pochi politici italiani a porre ogni giorno il tema dell’Europa. In Italia, sembra che media, politica, i cittadini stessi abbiano deciso di rimuovere un dato di fatto scomodo, ma reale: ormai Bruxelles pesa sui nostri destini assai più che Roma. Ed è li che bisogna lavorare. Gli altri politici lo ricordano poco, perché ritengono più comodo ed elettoralmente pagante parlare di Roma, illudere che tutto si può decidere qui. Tajani va in direzione opposta, e in Italia ce n’è grande bisogno. Soprattutto, gli italiani hanno bisogno di contare di più, in Europa. «E l’Italia? I cambiamenti non si possono realizzare senza la presenza attiva di un grande Paese fondatore e contributore netto. L’Europa non può ridursi ad un asse franco-tedesco se veramente vuole trasformarsi. Serve una Ue che guardi anche al Sud. Questa è la grande sfida che si troverà di fronte il prossimo governo italiano», parole di Tajani nell’ intervista rilasciata  a Giancarlo Mazzuca del Giornale, sabato 30 dicembre.

Basta con l’ austerità.

Da segnalare le dichiarazioni di Tajani durante la presentazione, nel febbraio 2017, del libro di House Tesar e Proebsting “Austerity in the Aftermath of the Great Recession”. Un saggio accademico che dimostra la distruzione di valore economico operata dal rigorismo. «Non possiamo pensare di avere solo il pilastro del rigore e non quello della crescita: su questo l’Europa è sembrata debole», ha detto il presidente del Parlamento europeo durante l’evento, che si teneva a Roma, presso l’Ansa. Secondo questo studio pubblicato negli Usa nel settembre 2016, il Pil dei «Piigs» (Portogallo Italia, Irlanda, Grecia, e Spagna) tra il 2010 e il 2014 si sarebbe contratto solo dell’1% se non si fossero adottate misure draconiane di taglio della spesa in quel periodo. Di conseguenza il rapporto debito/Pil si sarebbe incrementato di soli otto punti percentuali anziché 16 se non si fosse perseverato nella ricerca impossibile del pareggio di bilancio. «La crisi ha bisogno di riposte e forse le risposte non sono state all’altezza finora», ha aggiunto Tajani, sottolineando come la mancata sintesi sulle grandi difficoltà dell’Europa (immigrazione, terrorismo e crisi) abbia finito con il far crescere movimenti populisti «che su queste impasse hanno raccolto consenso».

Il futuro di ricerca e sviluppo.

Sempre nel febbraio 2017, la rivista Science Business, ha riportato in un articolo il commento di Tajani sul futuro della spesa europea rispetto alle tematiche di ricerca e sviluppo, a partire dal presupposto che non possa esistere competitività europea senza innovazione. Il commento è stato fatto nell’ambito di un evento che si è tenuto presso l’Istituto Sturzo. Per Tajani, quando si parla di innovazione, occorre riferirsi a un concetto più ampio, che include non solo quella tecnologica, ma anche quella sociale, imprenditoriale, di servizio e di design. Sebbene vanti un buon track record in materia di finanziamenti rivolti all’innovazione, anche grazie alla realizzazione del programma Horizon 2020, fortemente voluto da Tajani come Commissario europeo per le Pmi, l’Europa risente della carenza di supporto nella fase di commercializzazione dell’innovazione.

Infine Tajani ha individuato tre sfide molto concrete per la nuova Europa

Horizon 2020 dovrebbe focalizzarsi su un minor numero di ambiti, concentrando dunque il suo impatto. Le tecnologie a basse emissioni, il clima e l’economia circolare, così come le nuove tecnologie digitali dovrebbero diventare priorità ancora più forti rispetto ad oggi.
I Fondi europei regionali e il Fondo europeo per gli investimenti strategici, meglio noto come Piano Juncker, devono essere orientati a sostenere la ricerca e l’innovazione e il programma Horizon 2020 in maniera più efficace.
L’EU deve agire in maniera comune, perchè solo in questo modo è possibile essere più ambiziosi e contribuire all’innovazione potenziando il valore aggiunto europeo, che risiede nella capacità di concentrare le risorse su progetti innovativi di larga scala.














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