La lezione per l’industria della vicenda del Canale di Suez? Rivedere la supply chain

di Laura Magna ♦︎ Le imprese devono comprendere l’importanza della gestione del rischio legata alle catene di approvvigionamento e di distribuzione. Solo così si possono evitare effetti per la mancata consegna delle merci. I danni della nave incagliata? Centinaia di milioni, e ritardi di una decina di giorni. Ne parliamo con Alessandro De Felice, presidente di Anra, l’associazione dei risk manager italiani

Canale di Suez

Non sarà la fine del commercio globale, come urla la stampa italiana. Ma la vicenda della nave incagliata nel canale di Suez va vista come ulteriore monito per tutte quelle industrie che non hanno sfruttato l’occasione della pandemia per rivedere le loro supply chain e la logistica, in modo da renderla resilienze ai rischi prevedibili. Questa è in sintesi l’idea che a Industria Italiana ha portato Alessandro De Felice, chief risk officer di Prysmian e presidente di Anra, l’associazione dei risk manager italiani.

Che parte da un dato: quella perdita di 9,5 miliardi di dollari al giorno rimbalzata sui giornali mainstream: non è vero. Quella cifra «rappresenta il controvalore stimato dai Lloyd’s delle merci in transito nell’area, merci che ora sono bloccate sulle navi ferme ma che non sono affatto perdute o danneggiate, comprese quelle a bordo della EverGiven», dice De Felice per sgombrare subito il campo dal sensazionalismo.







 

La cronaca dell’incidente e l’importanza del canale di Suez

Vale la pena ricordare brevemente gli eventi e anche il perché il canale di Suez è così importante. Mentre scriviamo la nave è stata già rimessa parzialmente in galleggiamento: parliamo di una portacontainer denominata EverGiven e registrata a Panama che si è incagliata il 23 marzo nel canale che collega direttamente Asia ed Europa. Il canale è lungo di 193 chilometri e largo 285 metri e ricade sotto la giurisdizione egiziana. Da qui passa il 10% del commercio globale: la traversata, con una velocità standard di circa nove nodi, dura 15 ore contro i 10-15 giorni necessari a circumnavigare l’Africa per raggiungere le stesse destinazioni. Ogni anno è attraversato da 18mila navi per complessivi 1,03 miliardi di tonnellate di merci e i ricavi generati ammontano a 5,8 miliardi di dollari (dati Suez Canal Autority). 

La EverGiven, che è lunga 400 metri, si è girata e si è letteralmente incastrata tra le sponde, per via del forte vento che ha ridotto la visibilità e probabilmente a causa di un errore umano. Ai due imbocchi sono oltre 300 le navi in attesa, tra cui petroliere e cargo cariche di vetture ma anche portacontainer con componentistica e materie prime che arriva in Europa dalla Cina.

La lezione (tardiva) da imparare per l’industria

Alessandro De Felice, presidente Anra

Se c’è una lezione che questo incidente ci insegna, secondo De Felice è che «neppure la pandemia è servita a far comprendere l’importanza della gestione del rischio legata alle catene di approvvigionamento e di distribuzione. Se ritardi di una decina di giorni – questo poi è l’effetto certo dell’incidente – causano problemi sulle linee produttive, il tema è la mancanza di gestione del rischio, non Suez. Soprattutto dopo un anno come quello appena concluso». Una cosa è certa: il commercio internazionale non si fermerà per questo. Come non si è fermato quando il canale è stato chiuso per un anno durante la guerra del Sinai nel 1956/57 e per ben otto anni dal 1967 fino al 1975 durante la guerra arabo israeliana.

Le due interruzioni precedenti sono avvenute entrambi per guerre, perché il canale è nell’area più instabile al mondo dal punto di vista geopolitico. E che dunque dovrebbe essere considerata a rischio da chi vi transita a prescindere dall’incidente attuale. Insomma, per dirla in altri termini, il rischio di un blocco è altamente prevedibile, come lo era la pandemia, come lo sono le catastrofi naturali, dagli tsunami ai terremoti all’eruzione di vulcani, come lo sono gli attentati terroristici. Eventi che sono stati affrontati negli ultimi trent’anni in più occasioni e che pur in un mondo di volta in volta diverso «hanno causato rallentamenti ma non a disastri». Senza considerare che l’incidente della EverGiven si colloca alla fine di una serie di eventi con forte impatto sulle catene logistiche, provocati dalla pandemia: ovvero l’aumento del prezzo dei noli marittimi, la riduzione della disponibilità dei container, la forte ripresa dell’economia cinese e l’aumento della domanda che ha determinato carenza di semiconduttori, per esempio. Che non si sia ottimizzata la catena del valore dal punto di vista il rischio è il fatto grave.

 

Una stima realistica dei danni

La maggior parte dei danni sono per fortuna assicurati: «In prima istanza gli assicuratori sopporteranno i costi delle operazioni di salvataggio della nave e del carico – spiega De Felice – Se fosse accertata la responsabilità dell’armatore o del comandante, lo stesso potrebbe rispondere dei danni diretti causati alle infrastrutture del canale e dalla perdita di profitto subita dalla Suez Canal Autority per la mancata riscossione dei diritti di transito durante il blocco». Inoltre, questo potrebbe scatenare una serie di contenziosi da parte degli altri armatori che hanno subito danni. «Ma per la cui emersione ci vorranno anni, quelli necessari alla stima delle responsabilità, per cui è impossibile dunque in questa fase fare una stima anche approssimativa è impossibile. Siamo nell’ordine delle centinaia di milioni, lontanissimi da quei 9,5 miliardi al giorno di cui si è detto».

 

Nessun impatto sui vettori

Nessuna responsabilità invece in capo a spedizionieri e vettori, in quanto il ritardo non dipende da loro colpa, ma da forza maggiore, per cui il costo sarà pagato da chi aspettava le merci o da chi le ha spedite. «Da un lato parliamo di approvvigionamenti di semilavorati e materia prima per le linee industriali europee che arrivano dalla Cina e che possono rallentare le linee come già detto – continua De Felice – dall’altro di export di prodotti finiti europei verso la Cina, che generanno nei venditori un ritardo di liquidità. Esistono tipicamente due forme contrattuali, quella che qui ci interessa è la cost insurance and freight (cif), che prevede che l’incasso avvenga nel momento dell’arrivo al porto di destinazione, mentre nel caso del contratto free on board, chi spedisce è responsabile fino al carico sulla nave e incassa nel momento in cui la nave parte». Chiaramente in presenza della clausola cif chi ha venduto non incasserà quanto previsto, ma più avanti.

Mappa del Canale di Suez

Gli effetti di breve termine e il costo per chi commercia

Che dire invece dei timori di mancanza di materie prime, testimoniate da tensioni sui prezzi del petrolio in particolare? Trend di breve respiro, secondo De Felice. «C’è stato sicuramente un repentino quanto effimero rialzo delle quotazioni delle crude oil e di altre commodity. Ma credo sia legittimo ritenere che si tratti di operazioni speculative nel breve termine – dice De Felice – i grafici dei metalli, rame, acciaio, zinco, alluminio sono stabili, non si vede un qualcosa di anomalo per Suez; stessa cosa per il grano, tutte le materie prime stanno seguendo il corso dei mercati normali». Ciò detto, alcune merci deperibili andranno molto probabilmente perse (ma anche per questo esistono le coperture assicurative sul trasporto).

E infine, l’ultimo effetto che si avrà è sulle aziende che hanno inviato e devono ricevere i carichi per ora ancora ferme sui cargo. «Impatti che sarebbero stati invece mitigabili nella riprogrammazione delle spedizioni future laddove la chiusura del canale si sarebbe protratta – dice ancora De Felice – Ipotesi che ormai però sembra scongiurata poiché la nave è già in fase di rigalleggiamento. Gli effetti variano da settore a settore e sono tanto più rilevanti quanto più sono “corte” le scorte di magazzino». Anche questi danni potrebbero essere coperti dalle assicurazioni sul trasporto ma è plausibile che il vettore e lo spedizioniere facciano valere una causa di forza maggiore per essere esonerati da ogni responsabilità, come previsto dalla Convenzione di Bruxelles (recepita nel nostro ordinamento dall’Articolo 422 del Codice Navale). «Anche in questo caso potremmo aspettarci una galassia di contenziosi per accertare la sussistenza della colpa del vettore o la causa di forza maggiore, che non è automatica ma deve essere valutata caso per caso».

 

La praticabilità di urgenza delle alternative al canale di Suez

Esistono ovviamente strade alternative e non necessariamente peggiori rispetto al canale di Suez. «Da due anni si può usare, se si riesce a trovare uno slot – suggerisce De Felice – il collegamento ferroviario fra Xi’an e Melzo (MI) equipaggiato per il trasporto di container da 40 piedi high cube con un tempo di transito di 14 giorni a un costo verso est di 1.600 euro e di 3.000 dollari dalla Cina. Inoltre, va rilevato che molte linee di trasporto già da tempo preferivano la rotta da Buona Speranza per raggiungere l’Asia dall’Europa, a causa delle elevate tariffe imposte per il passaggio nel canale di Suez». Le rotte che oggi presumibilmente dovranno essere deviate riguarderanno il dry bulk in partenza dal Mar Nero (che riguarda principalmente il grano ucraino e russo) dove i tempi si dilatano a oltre 20 giorni. «Per le altre la circumnavigazione dell’Africa attraverso il Capo di Buona Speranza, comporta mediamente 7 giorni di navigazione in più che possono essere quantificati su una nave da 11mila teu (twenty-foot equivalent unit, la misura standard di volume nel trasporto dei container, corrispondente a circa 38 metri cubi, ndr) in circa mille tonnellate  di bunker con un costo stimato di 500mila dollari, ai quali sottrarre i diritti di transito risparmiati a Suez, che ammonta a 46-60 dollari per teu».

Insomma, alla fine da questa crisi, come da ogni crisi, qualche azienda potrebbe trarre anche la conclusione che ci sono modi alternativi e più efficienti di ottenere lo stesso risultato. E il blocco di Suez, come ogni altro evento non pianificato ma prevedibile nella gestione dei rischi, va messo nella giusta prospettiva. «Non bisogna farsi prendere dal panico e dalle percezioni per poi reagire in maniera errata, d’istinto e non ragionando – dice De Felice – ma bisogna cercare di contestualizzare e risalire la catena di eventi per delineare le conseguenze. E soprattutto per ripensare alla strategia in merito alle proprie catene logistiche di approvvigionamento e di distribuzione, se ancora non l’abbiamo fatto».

Le potenziali applicazioni dell’AI nella gestione della supply chain. Fonte Made

 

Il giusto peso a ogni rischio

Questo è ciò dovrà fare il risk manager, «trasformare le percezioni in analisi di contesto che danno una valutazione su basi oggettive, da riferire agli organi di controllo e governo aziendale», conclude De Felice. «Chi subirà danni oggi è chi all’esasperata ricerca dell’abbattimento del capitale circolante si è trovato in una pericolosa condizione di riduzione delle scorte di magazzino o chi, sempre per risparmiare sui costi, ha allungato la catena di fornitura a dismisura, rendendone difficile il controllo». Le imprese devono invece puntare alla resilienza. Si tratta, come noto, di un concetto dell’ingegneria meccanica con cui si indica la proprietà di un materiale di non spezzarsi anche se sottoposto a forti sollecitazioni. Applicato alle aziende, equivale a un cambiamento temporaneo di forma dovuto al forte urto, ma poi al ripristino delle condizioni iniziali o all’assunzione di una nuova forma che però non ne pregiudica la funzionalità.

Per essere resilienti bisogna prevedere, cercando di identificare i cigni neri, occorre pianificare azioni utili a fronteggiare questi eventi funesti e capire come ripristinare rapidamente la forma iniziale o in quale nuova forma strutturarsi. Bisogna, insomma, essere pronti al fallimento. Le azioni pratiche da compiere in questo specifico caso riguardano la filiera. La filiera deve essere corta, sia dal punto di vista geografico, sia dal punto di vista degli elementi che la compongono; deve essere trasparente per essere sia predittiva, sia reattiva. Ma deve essere anche ridondante, cioè prevedere delle alternative sia in termini di fornitura sia in termini di distribuzione. E infine deve essere agile, ovvero capace di riconfigurare i processi in tempi rapidi e a basso costo.














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