Boccia: il nostro menù per Gentiloni, Berlusconi, Renzi, Grillo, Di Maio, Salvini, Meloni, Grasso

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Equidistanti dai partiti ma non dalla politica. Distanti da quelli con idee non europeiste e quelli che vogliono ripristinare l’articolo 18 o smontare il Jobs Act. Bruxelles non può essere un alibi per non affrontare le questioni italiane e l’appartenenza all’Europa non si discute. Il lavoro prima del reddito di cittadinanza.Parla Vincenzo Boccia

Un tasso di disoccupazione sotto il 7%, con un calo di cinque punti in un quinquennio. Una crescita del Pil di almeno il 2% all’anno, in media e nello stesso periodo. E infine, il calo del rapporto debito-Pil di almeno 20 punti in cinque anni. Tre obiettivi per il Paese definiti nel documento programmatico di Confindustria presentato ieri dal presidente Vincenzo Boccia alle Assise di Verona (e che viene  analizzato, punto su punto, in un altro articolo da Industria Italiana, qui ). Il piano è diretto alle forze politiche in competizione: il 4 marzo si eleggono Camera, Senato e si sceglie l’esecutivo. Si è tracciato un percorso, affinché i partiti se ne facciano un viatico. Ma come si intende conseguire questi importanti risultati?

 







Veduta d’insieme delle Assise di Verona

 

Attraverso sei leve: una forte semplificazione burocratica, per rendere il Paese più efficiente; il rinnovamento delle università e dei percorsi di formazione; un grande piano di infrastrutture, che peraltro avrebbe ricadute su diversi asset portanti della nostra economia, tra i quali l’industria e il turismo; una seconda fase nel processo di digitalizzazione delle imprese, che coinvolga anche le Pmi; un fisco che premi i virtuosi, le imprese che investono, assumono, innovano e crescono; e infine incidere sulla governance europea per ridurre al minimo le politiche dove c’è un ambito di competenza mista, per evitare il formarsi di fronti diversi tra Paesi del Vecchio continente.

 

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Dal documento finale delle Assise di Verona LA VISIONE E LA PROPOSTA

 

Soprattutto la partita delle infrastrutture avrebbe un costo; Confindustria ha stimato in 250 miliardi in cinque anni la somma da reperire per realizzare il programma generale. Confindustria è preoccupata: «Le elezioni che verranno tra poche settimane potrebbero restituire un quadro a dir poco confuso e con pochi, erronei, passi (arretramenti sul Jobs Act o sull’articolo 18, sul piano Calenda o sulle Infrastrutture) il nostro Paese diventerebbe presto l’anello debole mondiale» – ha affermato Boccia. La programmazione economica di imprese e famiglie ha bisogno di stabilità. Pare ben visto, un governo di scopo, di continuità. Sul rapporto tra programmazione e riposte politiche, Boccia ha risposto a qualche domanda.

Leggendo i programmi dei principali partiti, tranne quello del Pd, l’industria non pare all’ordine del giorno. Vi stupisce?

«Quanto al primo punto, è esattamente il motivo per cui siamo qui. Siccome se ne parla poco, siamo usciti dalle fabbriche e abbiamo fatto le Assise di Verona, per richiamare l’attenzione sull’industria e sul mondo del lavoro».

Per quanto riguarda gli sviluppi dell’Europa, c’è in Confindustria una posizione favorevole agli Eurobond?

«Quanto agli Eurobond, Confindustria è di certo favorevole, in particolare per realizzare una dotazione infrastrutturale all’altezza dei tempi».

 

Il presidente di Confindustra Vincenzo Boccia nella Conferenza Stampa di chiusura delle Assise di Verona
Come considerate un aumento della spesa pubblica produttiva, che comporti la rivisitazione dei parametri europei? E un’ipotesi sulla quale insiste il M5S.

«C’è di mezzo l’attivazione della spesa per gli investimenti, che può essere utile. Ci siamo confrontati tra di noi, e nel documento il tema c’è. Va detto che va affrontato insieme ad altri Paesi europei. In sintesi, posso dire che noi da una parte dobbiamo rivendicare il fatto che rispettiamo le regole; dall’altra, quello che si chiede all’Europa è un piano infrastrutturale. Insomma, non si chiede più flessibilità sui parametri».

Cosa ne pensa Confindustria del reddito di cittadinanza, anche in vista di alcuni effetti della quarta rivoluzione industriale, che potrebbe comportare la perdita del posto di lavoro da parte di lavoratori poco qualificati? Ne parlano quasi tutti i partiti.

«Anzitutto bisognerebbe chiedersi quanto costa questa operazione. Perché noi di Confindustria, abbiamo sì illustrato un piano da 250 miliardi di euro, ma abbiamo anche indicato dove si possono reperire risorse e coperture. In rapporto alla sostenibilità del Paese e al debito pubblico che abbiamo, che peso avrebbe il reddito di cittadinanza? Ora, è evidente che bisogna contrastare disuguaglianze e povertà, ma per farlo dobbiamo spingere sulla crescita. E poi, bisognerebbe piuttosto parlare di una “stagione del lavoro”: formazione dentro le fabbriche per i dipendenti che devono sviluppare le loro competenze, anche in vista dell’Industria 4.0; e fuori dalle fabbriche, negli ITS, nelle università e nelle scuole, per dar vita ad un Paese in cui sia chiaro che i fattori di produzione sono quattro e non due: capitale, lavoro, conoscenza ed informazione. Gli ultimi tre mettono al centro la persona. Dobbiamo costruire futuro a partire dal presente, e stabilire delle priorità. Non deve passare l’idea che tutto è semplice perché arriva il reddito di cittadinanza».

Quale forza politica è più vicina al progetto di Confindustria?

«Noi siamo equidistanti dai partiti ma non dalla politica. È però evidente quali movimenti non siano vicini noi. Quelli che vogliono smontare le cose fatte in questi anni e che hanno dato effetti economici positivi. Ci sono politiche che hanno inciso sui fattori produttivi in modo trasversale ai settori economici e che hanno permesso di accelerare i processi di cambiamento. Queste politiche – principalmente Jobs Act, Industria 4.0, riforma fiscale, finanza per la crescita, sostegno alla promozione delle imprese all’estero, riforma della pubblica amministrazione – vanno valutate per gli effetti che hanno generato, adattate per renderle più efficaci se necessario, ma non depotenziate per motivi ideologici. E quelli con idee non europeiste».

Non è improbabile che dalle urne non emerga una coalizione in grado di governare. Qual è, in tal caso, la soluzione migliore per Confindustria? Tornare subito al voto? Promuovere un governo di scopo? Andare avanti con Gentiloni?

«La questione della dotazione infrastrutturale, e quella della riforma dei tempi della giustizia potrebbero essere affrontate da un governo di scopo. E poi bisogna tener presente una circostanza importante: quella degli appuntamenti “europei”. A marzo c’è un incontro tra i capi di Stato; e tra aprile e maggio un dibattito sul bilancio europeo. In queste occasioni, bisogna presentarsi in forze, perché i giochi non li facciano soltanto Francia e Germania. Dobbiamo essere protagonisti del contesto continentale».

 

Il lavoro, uno dei punti più importanti del programma di Confindustria
Qual è, secondo Lei, l’elemento più importante del programma di Confindustria, quello che i partiti dovrebbero assolutamente far proprio?

«Delle tre missioni, la più importante è il lavoro. Le altre due però, la crescita e la riduzione del debito, sono precondizioni per arrivare a generare più occupazione nel Paese. Quest’ultima, infatti, si crea in comunità che si chiamano imprese. Lì dove si fanno gli investimenti, i dipendenti crescono di numero».

E qual è, fra i tanti, un problema che ostacola la crescita del Paese?

«Quello temporale. In quanto tempo facciamo le cose che diciamo? In quanto tempo realizziamo le infrastrutture di cui il Paese ha bisogno? Non possiamo aspettare 20 anni per avere un porto o una strada. In quanto tempo arriva una sentenza della giustizia penale? Noi chiediamo al Paese e a chiunque lo governi di far sì che noi si possa essere competitivi anche al di fuori delle nostre fabbriche. Perché siamo ambiziosi: non ci accontentiamo più di essere il secondo Paese manifatturiero d’Europa. Lo diciamo a tutti i partiti: noi sappiamo di poter essere uno dei primi Paesi industriali al mondo. Già essere secondi in Europa, nonostante tutti i nostri deficit competitivi, significa essere bravi. Guardiamo il bicchiere mezzo pieno: se rimuovessimo gli ostacoli, potremmo andare molto in alto nelle classifiche».

 

Giulio Pedrollo, vicepresidente per la Politica Industriale e Carlo Robiglio Presidente della Piccola Industria nella Conferenza Stampa di chiusura delle Assise di Verona
Infrastrutture e Europa. Che cosa si vuole realizzare, esattamente, e qual è il ruolo del Vecchio Continente?

«Dietro il progetto economico che abbiamo presentato, c’è un’idea chiara di società, che riguarda sia l’Italia che l’Europa. Pensiamo che la dotazione infrastrutturale italiana e europea sia un elemento essenziale per costruire una società che funzioni. Sul lato nazionale, perché collega periferie e centri, e le città tra loro; su quello continentale, perché congiunge il Paese agli altri. Ci pone in una posizione non periferica, ma centrale. Noi pensiamo che Bruxelles debba investire in una rete transazionale, se vuole un’Europa competitiva, che generi più occupazione. Alla fine, è l’unico modo per contrastare le politiche protezionistiche di altri. L’Europa è il mercato più ricco del mondo ma ha un reddito aggregato inferiore agli Stati Uniti.»

«Dobbiamo sfruttare di più le grandi potenzialità che abbiamo. D’altra parte, l’Europa deve comprendere che la sfida non è tra i Paesi che la compongono, ma tra il Vecchio Continente e il mondo esterno. Deve reagire alla grande politica cinese, mettendo al centro la questione industriale. C’è una politica aggressiva di Washington, sia in termini fiscali che produttivi: Bruxelles non può stare a guardare. Non può subire le rotte della seta: occorre che ci siano anche prodotti che dall’Europa arrivino in Cina. Occorrono, per costruire l’Europa che immaginiamo, politiche di integrazione più rilevanti. D’altra parte Bruxelles non può essere un alibi per non affrontare le questioni italiane».

C’è ancora una cultura anti-industriale in Italia? Chi la sostiene?

«Posso dire solo che c’è una legge che non tiene conto di cosa sia veramente un’impresa. Quando un’azienda viene sequestrata in via preventiva, si attacca la reputazione dell’impresa e di chi la gestisce. Se poi il processo dimostra che la misura cautelare non andava applicata, per l’azienda è comunque finita. Non vogliamo generalizzare, sia chiaro; ma vale la pena passare dalla cultura del sospetto a quella della legalità a tutto campo: chi ha sbagliato deve pagare. Ma bisogna tener presente che un imprenditore vive del suo credito sociale».














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