Autostrade: vi dico io che cosa e’ successo davvero con la privatizzazione

ll Ponte Morandi dopo il crollo, visto da Est, panoramica ( foto di Michele Ferraris)

di Marco De’ Francesco ♦ Parla l’economista industriale Patrizio Bianchi, che faceva parte del cda Iri negli anni della privatizzazione di questo e di altri importanti asset statali. La tesi: l’operazione è stata fatta bene, e a un buon prezzo, contribuendo all’abbattimento del debito pubblico e al rilancio dell’economia italiana. Gli errori sono stati fatti a livello di controlli e di regolazione, e gli esecutivi successivi a quello di Prodi/Ciampi hanno gestito male varie partite

Della ricostruzione del Ponte Morandi, viadotto in cemento armato rovinato al suolo il 14 agosto a Genova, facente parte dell’A10, nel tratto gestito da Autostrade per l’Italia, potrebbe occuparsi Fincantieri. L’interesse dell’ad Giuseppe Bono a partecipare ad una gara è notizia freschissima; ed è, in un certo senso, un fatto suggestivo. Perché sia Fincantieri che Autostrade sono nate dall’Iri, Istituto per la ricostruzione industriale e holding statale che collezionava partecipazioni in tutti i campi, dall’alimentare all’aerospaziale, alla chimica, all’editoria, ai trasporti, all’informatica e a tanto altro. E che ancora nel 1993, con un fatturato di 67,5 miliardi di dollari di vendite, si posizionava al settimo posto nella classifica delle maggiori società del mondo. E perché appunto il crollo del Ponte ha riacceso il dibattito, in Italia, sull’opportunità di liquidare l’Iri (che dopo esser stata trasformata in società per azioni nel 1992, cessò di esistere dieci anni dopo); sulla convenienza, per lo Stato, delle cessioni di singole aziende partecipate; e sulle modalità delle alienazioni.

È se non altro singolare che nel tourbillon di vendite di pezzi dell’Iri, tra la seconda metà degli anni Ottanta e il Duemila, i nomi di certi imprenditori acquirenti (ma non sempre con soldi propri) compaiano più volte, anche in settori non tipici della propria attività. Quanto ad Autostrade in particolare, il discorso verte attorno al sistema di controlli a carico del concessionario, Atlantia, della famiglia Benetton. Secondo l’economista industriale Patrizio Bianchi «il potenziamento della rete autostradale non è stato garantito, la regolamentazione non è stata portata avanti in modo adeguato». Voce importante, quella di Bianchi, che tra il 1997 e il Duemila era, con altri, nel Cda dell’Iri (presieduto prima da Gian Maria Gros-Pietro e poi da Piero Gnudi), con il compito di liquidare ciò che restava di partecipate e della holding. La verità di un insider operativo quando si decidevano, in realtà, le sorti del Paese.







 

La sede di Autostrade per l’ Italia ( foto di Carlo Dani )

Nel sancta sanctorum, ma con un mandato stretto e definitivo: privatizzare o liquidare. Le vicende di Iri e Autostrade si intrecciano

Anzitutto, dice Bianchi, è bene partire con una precisazione. La scelta di liquidare l’Iri, il colosso nazionale delle partecipazioni statali, non fu nemmeno discussa nel Cda dell’istituto; c’era, dietro, il mandato dell’azionista, lo Stato, che agiva tramite il Ministero del Tesoro (ora dell’Economia e delle Finanze). Gli anni di attività di Bianchi nel Cda sono quelli dal 1997 al 2000, e cioè quelli del governo Romano Prodi I (maggio 1996 – ottobre 1998) e degli esecutivi Massimo D’Alema I (ottobre 1998 – dicembre 1999) e II (dicembre 1999 – aprile 2000). Siamo ai tempi dell’Ulivo. Presidenti della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro (1992 – 1999) e Carlo Azeglio Ciampi (1999 – 2006). Il ministero del Tesoro, in quel periodo, era guidato da Ciampi (maggio 1996 – dicembre 1997) e poi, in quanto ministero del Tesoro, del bilancio e della programmazione economica (che sostituì il Tesoro il primo gennaio 1998 e che fu soppresso l’11 giugno 2001 a seguito della Riforma Bassanini) prima da Ciampi, e poi da Giuliano Amato.

Va ricordato che l’Iri, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale, costituito nel 1933, divenuto ente finanziario di diritto pubblico nel 1937, era stato trasformato in società per azioni con d.l. 333/1992, e fu posto in liquidazione nel 2000. In quanto Spa, l’istituto presentava una struttura articolata in più società capogruppo: la Finmare per il trasporto marittimo; la Finmeccanica per la tecnologia; la Stet per le telecomunicazioni, l’Alitalia per le linee aeree, la Fincantieri per l’industria navale, la Sme per il settore alimentare, la Finsider per la siderurgia e la Rai per il servizio televisivo. Per la verità, si legge in una relazione della Corte dei conti che «la decisione di mettere in liquidazione la società va ricercata più indietro nel tempo, quando nel 1993 il Governo italiano firmò un protocollo d’intesa con la Commissione europea (c.d. accordo Andreatta-Van Miert) che lo impegnava ad eliminare la garanzia illimitata dello Stato sulle imprese di cui possedeva il totale pacchetto azionario ed a contenere entro limiti fisiologici il loro indebitamento entro l’esercizio 1996».

Solo che «a partire dall’esercizio 1997 l’Iri ha mostrato un livello di indebitamento ampiamente inferiore a quello individuato come fisiologico dall’accordo suddetto passando, infatti, dai 70.321 miliardi di indebitamento di fine 1993 ai 19.580 miliardi di fine 1997. Per rispettare il primo impegno, invece, lo Stato avrebbe dovuto, tra l’altro, cedere azioni dell’ Iri S.p.A., obiettivo non preferito alla luce della complessa situazione liquidatoria facente capo all’Iri, impegnato in complesse operazioni di privatizzazione e risanamento industriale; di conseguenza, una volta completata la privatizzazione delle controllate, il Governo decise che lo scioglimento fosse l’unico modo per ottemperare agli impegni assunti in sede comunitaria». In pratica, considerato l’indebitamento dell’istituto, lo Stato non era obbligato a liquidare l’Iri. Fu una decisione presa dai governi del tempo; si tratta di capire perché.

«L’ultimo Cda era stato nominato dall’allora ministro del Tesoro, Carlo Azeglio Ciampi – afferma Patrizio Bianchi – Va sottolineato che all’interno del consiglio – di cui facevano parte, oltre al presidente Gros-Pietro, Mario Draghi, Gnudi, Roberto Tana, Alberto Tripi, e Piero Barucci (ma il 20 ottobre 1999 Gnudi fu nominato amministratore delegato, con conseguenti dimissioni di Gros-Pietro; il collegio sindacale era invece composto da Andrea Monorchio, Lucio Mariani e Antonio Marotti; il comitato dei liquidatori era composto da Gnudi, Piero Ciucci e Maurizio Prato) – non si tenne alcun dibattito, né era immaginabile che ci fossero posizioni divergenti. Infatti le indicazioni della proprietà erano molto chiare: tutto ciò che non si privatizza, si liquida. Così sono andate le cose. Il mandato era molto stretto». Lo racconta Bianchi, già docente di politica economia a Bologna e a Udine e già preside della facoltà di Economia all’Università di Ferrara. Laurea a Bologna a pieni voti e discussa con Romano Prodi, aveva frequentato l’Istituto di Scienze Economiche dell’ateneo felsineo, quello diretto da Nino Andreatta.

 

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Patrizio Bianchi

 

Quanto all’incarico di Bianchi nell’Iri, riguardava – si legge nel curriculum «la privatizzazione delle imprese pubbliche italiane». Insomma, era in plancia di comando in quanto esecutore di decisioni prese altrove. Naturalmente, nel periodo dal 1991 al 2001 molte aziende pubbliche sono state privatizzate, tra le quali l’Eni, di cui Goldman Sachs acquisì l’intero patrimonio immobiliare. Ma dell’Eni la Cassa depositi e prestiti (controllata dal Mef) resta il principale azionista. Ma che c’entra Autostrade? C’entra, perché l’attività di privatizzazione svolta dal Cda prima della definitiva liquidazione ha riguardato Aeroporti di Roma, Finmare, Tirrenia, Alitalia, Finmeccanica, Cofiri, Fincantieri e Autostrade.

 

La sede di Fintecna, ex Iri, a Roma

L’inattualità dell’Iri secondo Bianchi: uno strumento nato per rimediare ai danni della crisi del 1929

Il fatto è che l’istituto era stato fondato nel contesto del risanamento e della riorganizzazione del sistema finanziario e bancario italiano, duramente provato dalla Grande Depressione scaturita a seguito della crisi finanziaria esplosa tra il 24 e il 29 ottobre del 1929 a Wall Street, dopo anni di boom azionario. Non era logico, secondo Bianchi, mantenere in vita un sistema strutturato per superare un’emergenza lontana nel tempo. «In effetti – afferma Bianchi – non tutti sanno che l’Iri era nata nel 1933 per gestire contingenze così lontane. Invece è proprio così: le banche, negli anni Venti, possedevano azioni di molte industrie; così, la crisi bancaria si era subito trasformata nel blocco sostanziale del sistema imprenditoriale italiano. Di qui la nascita del Fondo Smobilizzi della Banca d’Italia, dell’Imi – e cioè dell’Istituto mobiliare italiano, fondato nel 1931 e specializzato nel credito a medio e lungo termine per attività industriali – e infine dell’Iri.»

«Quest’ultimo istituto, fondato dal ministro delle Finanze Guido Jung e da Alberto Beneduce, aveva nominalmente, secondo un regio decreto dei tempi, un destino provvisorio: avrebbe dovuto funzionare solo per rilevare dalle tre grandi banche del tempo (Credito Italiano, Banco di Roma e Banca Commerciale Italiana) le partecipazioni azionarie detenute in vari comparti dell’economia. Il fatto è che nel 1937 fu trasformato in un ente autonomo di gestione delle partecipazioni statali». Comunque sia, con lo smobilizzo di banche miste l’Iri diventa il più grande imprenditore italiano, con aziende come Ilva, Terni, Ansaldo, Sme, Sip, Alfa Romeo, Cantieri Riuniti dell’Adriatico, Navigazione Generale Italiana e Lloyd Triestino di Navigazione. Già alla fine del 1933, l’Iri rappresentava quasi il 22% dell’azionariato industriale italiano.

L’Iri come ammortizzatore delle crisi aziendali e come fattore di destabilizzazione del sistema produttivo

Già alla fine del secondo conflitto mondiale si discusse in sede politica dell’opportunità di mantenere in vita l’Iri – ricorda Bianchi. L’istituto ebbe di certo un ruolo positivo nel primo dopoguerra; la “formula Iri”, e cioè la cooperazione tra capitale privato e pubblico, rappresentava un modello apprezzato da alcuni osservatori stranieri, e l’impegno per lo sviluppodell’industria di base e delle infrastrutture necessarie al Paese (si pensi all’autostrada del Sole, la cui costruzione comincia nel 1956) fu senz’altro un elemento propulsivo per l’economia. Nel 1956 l’istituto passò alle dipendenze del Ministero delle Partecipazioni statali, istituito proprio in quell’anno.

Quando però nel 1992 questo ministero fu soppresso, le competenze relative all’Iri furono trasferite al Ministero dell’Industria (oggi Ministero dello Sviluppo economico) salvo l’esercizio dei diritti spettanti allo Stato quale azionista, spettante al Tesoro. Poi, però, con la fine del Boom, le cose presero un altro corso. «Negli anni Settanta – continua Bianchi – arrivò la crisi. Il settore pubblico assunse la funzione di ammortizzatore del settore industriale. L’Iri aveva nel 1960 239mila dipendenti, che diventano 357mila nel 1970 e 556mila nel 1980. Le partecipazioni statali passano da 315mila nel 1970 a 715mila nel 1980, giungendo tuttavia agli inizi degli anni Ottanta ad essere fuori controllo e divenire quindi esse stesse fattore di destabilizzazione dell’intero sistema produttivo».

 

Con Romano Prodi alla presidenza dell’ Iri comincia la vendita delle partecipazioni statali
La lotta ai “boiardi di Stato”, lo smembramento e la fine dell’Iri

Di qui, secondo Bianchi, i ragionamenti degli anni Ottanta e Novanta. «Nel corso di quegli anni, non solo in Italia ma in giro per il mondo, erano in corso riflessioni sui mercati e sulle politiche di privatizzazione. Noi avevamo un modello particolare, che comprendeva aziende che tecnicamente erano sul mercato ma che nei fatti erano partecipate dallo Stato. L’Iri era divenuto col tempo il cuore dell’intervento pubblico nell’economia italiana. E non bisogna dimenticare che in quel periodo si assisteva ad un forte attacco frontale allo “Stato padrone”, ai “boiardi di Stato”, e cioè, in buona sostanza, ai partiti politici che avevano di fatto il controllo di imprese strategiche. Occorreva chiarire il quadro economico, superare il dibattito».

Già Romano Prodi, presidente dell’Iri dal 1982, aveva iniziato a vendere le partecipazioni. Ad esempio, la liquidazione di Italstat, Finsider e Italsider; ma anche la cessione di importanti aziende, tra cui l’Alfa Romeo. La privatizzazione del Gruppo Sme, dell’Iri dal 1937, rappresentò poi un capitolo a parte. Il principale gruppo alimentare italiano, con i bilanci in attivo, era tra i più ambiti dagli industriali italiani. Negli anni Ottanta l’Iri guidato da Prodi cercò di vendere lo Sme a Carlo De Benedetti; l’operazione fu annullata, anche a seguito dell’opposizione del premier Bettino Craxi; poi, negli anni Novanta, il Gruppo fu venduto a pezzi: la Italgel e il Gruppo Dolciario Italiano alla Nestlé; il gruppo Cirio Bertolli De Rica fu venduto alla Fisvi di Carlo Saverio Lamiranda, il quale cedette il marchio Bertolli a Unilever; in seguito il brand Cirio passò a Sergio Cragnotti. Ciò che restava della Sme, Autogrill e GS (distribuzione), fu alienato alla famiglia Benetton ed a Leonardo Del Vecchio. Ma alla fine, grazie a patti parasociali, Autogrill e GS passarono definitivamente ai soli Benetton.

 

Veduta dello stabilimento Ilva, l’azienda, della cui sorte si discute in questi giorni , è stata privatizzata nel 1995

 

Quanto ad altre parti dell’Iri, l’Ilva fu venduta al Gruppo Riva nel 1995, operazione che consentì a quest’ultimo di assumere una posizione di leadership nel panorama europeo; Acciai Speciali Terni passò ai tedeschi di ThyssenKrupp; le Ferriere di Piombino al Gruppo Lucchini; la Cementir a Caltagirone, l’Alumix all’Alcoa. Dunque Bianchi intervenne quando non restavano che poche società da liquidare. Nel frattempo, si è detto, l’Iri era diventata una società per azioni; si trattava di smembrarla e di vendere le ultime singole parti. Secondo la Corte dei Conti, nel 1999 l’Iri ha realizzato un utile di esercizio di 7.226 miliardi: la componente di maggior rilievo del risultato economico è data dalle plusvalenze realizzate sulle cessioni. Nel primo semestre del 2000 (l’Iri è stata posta in liquidazione dal 1° luglio 2000) è stato realizzato un consistente utile di esercizio: pari a 8.328 miliardi (dopo avere accertato imposte sul reddito per 3.886 miliardi).

Secondo la Corte, la principale componente del risultato economico è costituita dalle plusvalenze realizzate per 12.462 miliardi: 8.464 miliardi conseguenti alla dismissione nella Finmeccanica e 3.895 per la cessione al nucleo stabile del 30% del capitale di Autostrade. «Le partecipazioni ancora da dismettere erano ridotte a tre sole società rilevanti – si legge in una relazione della Corte dei Conti -: Fincantieri, Tirrenia e Fintecna. Infatti, oltre alle dismissioni in Aeroporti di Roma, in Cofiri e nel gruppo Sasa, si può ricordare: quanto alla Rai, che l’assemblea straordinaria Iri del 7 novembre 2000 ha approvato il progetto di scissione parziale dell’Iri in liquidazione mediante la costituzione di Rai Holding interamente posseduta dal ministero del Tesoro (le azioni sono state trasferite il 17 gennaio 2001); quanto all’Alitalia, che il trasferimento della partecipazione al ministero del Tesoro è avvenuto a fine dicembre 2000».

Si chiudevano le ultime partite: L’Iri non esisteva più. Lo Stato incassava 56mila miliardi. Tra le cessioni più discusse, quelle di Telecom Italia e di Autostrade Spa, anche perché riguardavano aziende in posizione monopolistica. Quanto alla prima, Olivetti aveva lanciato nel 1999 un’offerta pubblica di acquisto e scambio tramite Tecnost di Roberto Colaninno, ottenendo la maggioranza azionaria con una quota pari al 51%. Due anni dopo Colaninno si era accordato con il presidente di Pirelli Marco Tronchetti Provera e con la famiglia Benetton. In pratica, attraverso Pirelli e con il sostegno dei Benetton, Tronchetti Provera aveva costituito la società Olimpia, che acquistò circa il 27% di Olivetti dalla società Bell di Emilio Gnutti e Roberto Colaninno, diventando così l’azionista di riferimento di Telecom Italia. Tronchetti Provera verrà nominato presidente di Telecom Italia.

L’affare dei Benetton con le autostrade sarebbe stato anche un affare per lo Stato, con una adeguata regolazione

Come andò, dunque, con le strade? Un passo indietro: la Società Autostrade Concessioni e Costruzioni S.p.A. era stata costituita dall’Iri nel 1950. Sei anni dopo viene siglata la prima Convenzione con l’Anas, per la gestione (e il co-finanziamento) dell’autostrada del Sole Milano-Napoli. Nel 1990 la società introduce il telepass, sistema di riscossione automatica del pedaggio utilizzato per la prima volta al mondo su larga scala. Nel 1997 viene firmata la nuova Convenzione tra Anas e Autostrade, che prevede l’estensione della concessione dal 2018 al 2038. Nel 1999 la società è in salute. Nella relazione della Corte dei Conti si legge che «dai dati di bilancio esposti nella seguente tabella si evidenziano il buon andamento delle attività e le risultanze del Gruppo nell’esercizio 1999: 3.992 miliardi di valore della produzione tipica, 2.895 di valore aggiunto, 1.242 di risultato operativo, 581 di risultato netto – con una variazione positiva del 20,5% rispetto all’esercizio precedente».

 

Gilberto Benetton (dal sito Società Autogrill)

 

Eppure, è proprio in quell’anno che inizia la privatizzazione. In lizza, due cordate: la prima guidata da Schemaventotto S.p.A. (Edizione Partecipations di Gilberto Benetton al 60%, Fondazione CRT con il 13.33%, Acesa Italia con il 12.83%, Assicurazioni Generali ed Unicredito Italiano entrambe al 6.67% e Brisa International SGPS S.A. con lo 0.50%); la seconda dalla banca d’affari australiana Macquarie. Quest’ultima gettò la spugna al momento giusto, e Schemaventotto, con 5mila miliardi delle vecchie lire, si prese il 30% del pacchetto azionario. Poi, con una operazione di leverage buyout (tecnicamente: una attività di finanza strutturata utilizzata per l’acquisizione di una società mediante lo sfruttamento della capacità di indebitamento della società stessa; in pratica, si compra indebitando l’azienda che si acquisisce) Newco28, sempre controllata dai Benetton, mette sul piatto l’Opa vincente e totalitaria, per poco più di 6mila miliardi.

Si legge nella relazione della Corte dei Conti che «la privatizzazione di Autostrade ha prodotto per l’Iri una plusvalenza complessiva (sommando quella afferente all’esercizio 1999 con quella afferente all’esercizio 2000) di circa 10.700 miliardi». Dal 2007 la società ha cambiato nome: ora si chiama Atlantia Spa. «Le strade – ricorda Bianchi – e questo era chiaro a tutti, sono beni pubblici: dunque, si trattava di valutare due possibilità: o beni dello Stato, o beni in concessione regolata dallo Stato. Quanto alle autostrade, appunto alcune sono rimaste allo Stato (al Sud) e altre sono in concessione. Il problema è che la regolazione non è stata fatta in modo adeguato. Dal 2001 al 2006 il secondo e il terzo governo Berlusconi avrebbero potuto realizzarla, così come gli esecutivi precedenti avevano dato vita all’Antitrust (autorità garante della concorrenza e del mercato) e ad altre authority. Io, poi, nel Duemila sono tornato all’università».

Per la verità, dal 2006 al 2008 ha governato Prodi: non avrebbe potuto fare di più? E poi, è convenuto allo Stato vendere le autostrade? «Lo Stato non è un affarista. L’idea era quella di mettere in piedi un modello efficiente; se fosse stata realizzata la regolamentazione, se fosse stato promosso lo sviluppo della rete autostradale, tutto ciò sarebbe stato senz’altro vantaggioso per lo Stato, e cioè per i cittadini. Si è trattato, in buona sostanza, di una scelta strategica, perché la logica dello Stato non è quella del mero profitto».

 

Giovanni Castellucci, ad Autostrade per l’ Italia

Il disastro del Ponte Morandi: sì alla revisione dei rapporti con il concessionario, no alla nazionalizzazione

Nel 2017, il gruppo Autostrade per l’Italia ha ottenuto ricavi per 3,9 miliardi di euro, di cui 3.6 miliardi dai pedaggi autostradali. Ebitda di 2.4 miliardi di euro, 1,9 miliardi di Ebit, 1 miliardo di utile. Il gruppo guidato dal presidente Fabio Cerchiai e dall’amministratore delegato Giovanni Castellucci ha versato ad Anas 465 milioni di euro di oneri concessori. Il valore dell’infrastruttura in concessione è stimato in 12 miliardi. A seguito delle convenzioni con lo Stato del 1997 (Convenzione originaria), del 2002 (IV Atto aggiuntivo) e del 2007 (Convenzione Unica), Autostrade per l’Italia deve realizzare o ammodernare 923 km di autostrade, per un investimento previsto di 24,4 miliardi di euro; tuttavia, al 31 dicembre dello scorso anno sono stati aperti al traffico 484 km di tratte per un totale di 11 miliardi investiti. Quanto alla manutenzione, poi, nel 2017 sono stati spesi 444 milioni di euro. Quanto al periodo di concessione rinnovata 2013-2038, gli investimenti programmati ammontano a 10,3 miliardi mentre per le manutenzioni ordinarie è prevista una spesa di 7,5 miliardi.

Molto alto è invece il rendimento minimo del capitale: è fissato al 10,2%. E arriviamo al disastroso incidente del “Ponte Morandi”, quello tra Sampierdarena e Cornigliano, a Genova, venuto giù il 14 agosto, con un bilancio umano devastante: 43 morti, 15 feriti e più di 600 sfollati. L’opera, costruita tra il 1963 e il 1967, faceva parte del tracciato dell’autostrada A10, gestita, in quel tratto, da Autostrade per l’Italia. «Un fatto grave, che comporta la revisione dei rapporti con il concessionario». È appunto in corso una discussione in proposito, nel mondo politico. Che fare?

 

L’inaugurazione del Ponte Morandi il 5 settembre 1967. Sull’auto l’allora Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat

 

«In generale – afferma Bianchi – si può decidere che Autostrade faccia parte della rete ordinaria, e in quel caso paghiamo noi, con la fiscalità generale; altrimenti si decide per un sistema di concessioni a pagamento ma che garantisca il miglioramento continuo e che sia oggetto di un controllo costante, con poteri paragonabili a quelli del concessionario. Bisogna fare una scelta coerente: o una cosa o l’altra». Si parla, appunto di “nazionalizzazione”. «Posso dire che a me l’idea del ritorno alle partecipazioni statali non piace. La Cassa depositi e prestiti come garante della società e lo Stato come controllore: mi pare un pasticcio». Resta il fatto che i controlli non hanno funzionato. «Noi un sistema di controlli lo avevamo previsto, ma poi non è stato sviluppato. Dal 2001 in avanti non è stato fatto un granché».

E anche la rete stradale non è stata sviluppata. «Da quello che ho letto, in effetti, il potenziamento non è stato garantito. Bisogna appunto agire sui regolamenti, per far sì che non si possa prescindere da questo genere di attività». Quanto alla ricostruzione del ponte, l’amministratore delegato di Fincantieri, Giuseppe Bono – già al vertice di Efim, l’ente delle partecipazioni statali, nonché quello che ha portato in borsa Fincantieri e Finmeccanica – si è detto disponibile a partecipare alla gara. Fa sapere alla stampa (L’Economia) che «navi e industria dei ponti non sono così distanti».

L’insufficienza della nuova classe industriale italiana

In tutta questa vicenda, e in quella dell’Iri in generale, si rincorrono i nomi di Prodi, Gros-Pietro, Massimo D’Alema (a Palazzo Chigi nel 1998). Molti danno di queste vicende una lettura politica: la privatizzazione è stata un affare del centro-sinistra per “amici” di quell’area politica. «Comunque sia – ricorda Bianchi, la lettura politica mi sembra banalizzante. E riportare tutto a fatti di cronaca e a rapporti di appartenenza non spiega tutti i fenomeni: anche perché dal 2002 al 2007 era al potere Berlusconi». Ora, però, tornando all’Iri, si legge in un libro di Bianchi che «le privatizzazioni bancarie così come quella dell’Iri offrirono l’opportunità a molti industriali di nuova generazione, radicati in distretti industriali recenti, e cresciuti rapidamente in settori tradizionali, di consolidare le loro attività, assumendo una dimensione internazionale (il caso di Riva), oppure diversificare verso nuovi settori (Benetton, Del Vecchio, DeAgostini), oppure divenire operatori finanziari di grandi dimensioni (Gnutti, Colaninno, Della Valle, Zonin)».

Dunque, alcune domande sorgono spontanee: che giudizio dare della vendita dell’Iri? Lo Stato ci ha guadagnato o perso? E che giudizio dare dei tanti imprenditori e finanzieri emersi grazie alla vendita dell’Iri? Non si può nascondere la dimensione politica di alcuni di loro; e tra questi, peraltro, ce ne sono di quelli che hanno passato guai di vario genere. «Bisogna anche riflettere sul fatto che dalla vendita dell’Iri e di altre aziende di Stato, quest’ultimo realizzò 120mila miliardi di vecchie lire. Tante risorse, con i quali si riuscì a rimettere in sesto un bilancio statale afflitto dal deficit delle partecipate. Tuttavia, credo che la vendita dell’Iri abbia finito per mettere in rilievo la fragilità complessiva del sistema Paese. L’Iri era una conglomerata, con finanziarie separate: quanto al vertice di controllo, l’Iri non era come l’Eni, non era un gruppo unitario. All’interno dell’Iri sicuramente è emersa una nuova classe dirigente che non sempre, però, ha dato grande prova di sé; ci si attendeva di più, anche in rapporto a condizioni internazionali favorevoli. Certi imprenditori non si sono dimostrati in grado di gestire dimensioni di livello globale».














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