Artificiale e intelligente: ma perché non tutti si fidano dell’Ai?

di Marco Scotti ♦︎ Kpmg mette intorno a un tavolo leader e imprenditori per parlare del ruolo della tecnologia nella nostra società. Descalzi, Bentivogli, Passera, Caio, Cingolani, Poggio: tutti pronti a spiegare perché la nostra società sia di fronte a un bivio pieno di paradossi. Ma l’importante è abbandonare la comfort zone del conformismo

Il supercalcolatore di Eni

«Ci siamo trovati improvvisamente con un mercato che aveva tagliato la produzione di 2,2 milioni di barili al giorno e che, al tempo stesso, manteneva i prezzi più bassi di sempre. Eravamo davanti a un bivio e abbiamo scelto di investire sulla ricerca e sviluppo. Abbiamo messo 4 miliardi sul piatto e incrementato del 40% il numero di scienziati. Quando ho presentato il piano industriale a Londra nel 2010 mi davano per matto. Oggi abbiamo un time to market che è un terzo rispetto a quello dei competitor e abbiamo abbattuto il debito del 45% contro un incremento del 30% degli altri player dell’oil&gas». Claudio Descalzi, amministratore delegato di Eni, ci spiega quale sia stata la strategia del cane a sei zampe per uscire da un impasse in cui si erano infilati tutti i principali operatori del mercato. E la tecnologia, così come la scienza, hanno giocato un ruolo determinante. Intelligenza artificiale e machine learning, convitati di pietra di una trasformazione digitale che è sempre più polarizzata tra apocalittici ed entusiastici, tra chi guarda con favore alla ridefinizione dei parametri di business e chi è convinto che le macchine soppianteranno l’uomo. Per provare a mettere ordine tra tutte queste istanze, Kpmg ha organizzato un incontro dal titolo “Human Innovation”, cui hanno preso parte, oltre al numero uno dell’Eni, anche esponenti del mondo economico (da Corrado Passera a Francesco Caio), dell’università (il rettore della Bocconi Gianmario Verona), sindacalisti come Marco Bentivogli e filosofi come Eric Sadin.

Daniele Manca, Francesco Caio, Monica Poggio, Marco Bentivogli

Il livello di digitalizzazione delle imprese italiane







Inutile girarci attorno: ogni discussione sul ruolo dell’intelligenza artificiale e dell’eventuale contrapposizione con l’uomo deve passare da una trasformazione digitale che inizia lentamente a diventare significativa. Domenico Fumagalli, senior partner di Kpmg, ci ha spiegato quali sono le principali questioni ed evidenze che emergono dal tessuto imprenditoriale italiano.

Quante aziende stanno implementando strategie di digital transformation, fonte Kpmg

«I numeri – ci racconta – non sono brutti, ma certificano che c’è ancora un livello di attendismo significativo. Se è vero che il 66% delle imprese sta “parlando” di digital transformation, lo è altrettanto che solo il 18% di esse ha implementato una strategia per l’innovazione. I motivi del ritardo sono molteplici, tra cui l’assenza di una politica industriale e una scarsa conoscenza del mondo della tecnologia».

 

Chi si occupa della digital transformation in azienda? , fonte Kpmg

«Quello che preoccupa è che a guidare la transizione in azienda non sono tanto gli amministratori delegati, i presidenti o i titolari, ma, nel 40% dei casi, gli It Manager. Ma senza un coinvolgimento di tutta l’azienda e senza l’abbandono di una logica a silos è impossibile fare un passo in avanti. Un altro tema significativo è rappresentato dagli obiettivi che le aziende chiedono alla digital transformation: in quasi la metà dei casi si cerca efficienza, un tema che deve derivare da altri fattori primari che invece non vengono presi in considerazione. Se si parte solo dall’efficienza si rischia di perdere di vista la “big picture”, il disegno globale che sta dietro al digitale».

Quali aspettative dalla digital transformation, fonte Kpmg

Dall’analisi presentata da Fumagalli emerge un’ulteriore evidenza che mostra come il dialogo nel nostro Paese sul ruolo dell’intelligenza artificiale sia ancora piuttosto turbolento. Il 52% degli intervistati ritiene che il numero di profili professionali creati dalla trasformazione digitale saranno superiori a quelli che verranno distrutti, mentre il 48% è convinto del contrario.

l numero di profili professionali creati dall’intelligenza artificiale, fonte Kpmg

 

 

L’esperienza di Eni

«Passiamo la nostra vita a costruirci una comfort zone – ci racconta Descalzi –  ma è solo uscendo da essa che otteniamo buoni risultati. Quello che abbiamo fatto in Eni è di anticipare la situazione e andare in una direzione opposta. Se avessimo fatto quello che hanno fatto gli altri, saremmo arrivati ultimi, ma avrei fatto meno fatica a farle approvare dal cda. Veniamo da sei anni terribili nell’oil&gas, con i prezzi più bassi di sempre. Quello che ci ha salvato è che Eni, anche se più piccola di altre supermajor, ha fatto delle scelte diverse, prima sulla parte delle competenze e della ricerca in campo esplorativo».

Negli ultimi 7-8 anni, infatti, il cane a sei zampe è stato la prima società a livello esplorativo: un investimento che ha permesso di ridurre i costi. Si è scelto di lanciarsi nell’esplorazione nonostante fosse un rischio particolarmente rilevante invece che provare nuove strade come lo shale americano. Per fare questo si è scelto di puntare quattro miliardi nella ricerca, aumentando lo staff del comparto del 40%. Ma i risultati sono arrivati subito.

L’ad di Eni Claudio Descalzi

«Abbiamo abbattuto il time to market – prosegue Descalzi – portandolo a tre anni, quando normalmente ce ne vogliono sei o sette. Abbiamo avviato contatti con 70 tra università e centri di ricerca e abbiamo quadruplicato le connessioni a livello mondiale. Abbiamo ridotto il debito in un momento in cui si toglievano dal mercato 2,2 milioni di barili al giorno senza che il prezzo salisse. La nostra strategia è stata rischiosissima ma vincente: prima di tutto ho dovuto convincere il cda a non vendere il gas in Africa ma a darlo per l’accesso all’energia nei paesi in via di sviluppo per creare valore a lungo termine. Ho dovuto andare controcorrente ma sono state cose essenziali in un periodo di riduzione del cash flow e dell’utile operativo. Ora Eni ha un time to market che è un terzo di quello dei competitor, normalmente la media dell’industria è sui sei anni e mezzo-sette, noi siamo a due anni e mezzo. Grazie all’esplorazione abbiamo avviato 38 progetti, con cui abbiamo ridotto il debito del 45%, mentre gli altri l’hanno aumentato del 30%, e abbiamo incrementato la produzione del 16% mentre per gli altri è rimasta ferma».

Un altro tema al centro dell’attenzione di Eni è quello della trasformazione delle plastiche, che sono state riconosciute – specialmente quelle non riciclabili – come agenti inquinanti particolarmente aggressivi. Basti pensare che circa la metà delle plastiche circolanti non potrà essere riciclata perché non si riesce a ridurla al polimero di base. Ultima “gamba” del processo di trasformazione riguarda l’impiego dei rifiuti animali (come i grassi) o di quelli agricoli (le biomasse) per arrivare al procedimento completo di waste-to-fuel, la trasformazione in carburante degli scarti organici. Anche l’olio esausto può essere estremamente prezioso, visto che ha già “scaricato” la sua anidride carbonica ed è quindi un prodotto completamente pulito. In questo modo si può arrivare alla creazione di acque che sono al 60% limpide. Dalla Co2, inoltre, si può anche produrre il biometano grazie all’impiego di alghe che la assorbono: l’impiego tipico è nel settore della raffinazione o dei farmaceutici, dando vita a una completa circolarità.

Infine, Eni ha avviato una trasformazione anche della mentalità aziendale, che conta su 35mila dipendenti diretti e altrettanti che orbitano intorno ad essa. Obiettivo, come spiega Descalzi, «far penetrare il cambiamento in ognuno. Per questo abbiamo organizzato incontri con tutte le anime della società e abbiamo perfino aperto un blog dove io rispondo in prima persona a tutte le domande che mi vengono poste. Abbiamo dovuto farlo perché non ha senso avere una visione che non sia concepita con gli altri. La visione è un momento d’amore, la negatività non ti porta a fare figli».

 

Marco Bentivogli contro i professionisti dello “sfascio”

Intervenuto al convegno anche Marco Bentivogli, il leader della Fim Cisl che da sempre si batte per una concezione più laica del rapporto tra tecnologia e umanità. Un sindacalista atipico, pronto a citare Marchionne e per nulla spaventato dall’idea che l’intelligenza artificiale possa in qualche modo soppiantare i lavoratori. «L’oggetto tecnologico – ci spiega a margine del convegno – è freddo di per sé, ma è la mano dell’uomo a conferirgli delle responsabilità. La politica si scaglia sempre contro questo robot antropomorfo perché ha bisogno di un nemico, ma la verità, per me, è che si tratta di una serie di fesserie. Non è la tecnologia a distruggere lavoro, ma l’assenza di essa. Perché solo con la trasformazione tecnologica si può mettere in soffitta la vera comfort zone degli italiani, che è il conformismo. Stiamo vivendo un secolo di opportunità mai capitate nella storia dell’umanità, ma dobbiamo smetterla di trasferire alle nuove generazioni la concezione che il futuro sarà una catastrofe».

Marco Bentivogli, segretario della Fim Cisl

L’approccio di Leonardo

Un’azienda particolarmente attiva nel campo della digital transformation e dell’applicazione dell’intelligenza artificiale è Leonardo. La gestione Profumo ha posto l’accento anche su questo aspetto, divenuto a maggior ragione fondamentale per chi opera nell’industry della difesa. Ma non ci può essere tecnologia, nemmeno in seno a una multinazionale, che si sviluppi senza un meccanismo infrastrutturale efficace. Per questo, come ci racconta Roberto Cingolani, Chief Technology Officer di Leonardo, «l’impatto dell’intelligenza artificiale si valuterà quando si avranno a disposizione delle infrastrutture efficaci, perché questa tecnologia è basata su grandi sistemi di calcolo che necessitano di un enorme spazio di archiviazione. Senza questi strumenti sarà impossibile pensare, ad esempio, alle macchine autonome. Machine learning e deep learning sono nomi molto evocativi ma alla base c’è l’interazione di tante piattaforme. Servirà anche un’etica, per capire come regolare gli aspetti più importanti come la privacy e il diritto alla vita. C’è anche un diritto alla cultura che può avere un grande impatto sulla vita dei cittadini. Per questo bisogna investire, fin dalla scuola primaria, sulla formazione dei bambini, cambiando il modo di fornire istruzione».

Il Cto di Leonardo Roberto Cingolani

Il paradosso del digitale

Uno dei temi più significativi (e sfidanti) dell’intelligenza artificiale è quello rappresentato dalla cosiddetta accountability, una parola intraducibile che si potrebbe provare a trasporre in italiano con il termine di impegno, dedizione, disponibilità. Per Monica Poggio, amministratrice delegata di Bayer Italia, «viviamo ancora in sistemi gerarchici e continueremo a farlo finché il digital non cambierà le cose. Ma questa è una prima contraddizione: chiediamo ai dirigenti di essere sempre più accountable, sempre più coinvolti e vicini ai valori aziendali, ma poi non diamo loro i pieni poteri che invece aveva tipicamente l’imprenditore o il fondatore. Noi stiamo scegliendo un progetto ottimista, ma dobbiamo essere convinti che rimane una grande differenza tra l’uomo e le macchine in termini di valore aggiunto».

Monica Poggio, ad di Bayer Italia

Perché non si può essere ottimisti

Una voce un po’ fuori dal coro è quella di Francesco Caio, manager di lungo corso che, dopo esperienze tra aerospazio (Avio) e Poste, oggi è al timone di Saipem. Per il dirigente la nostra società sta mostrando diversi problemi che non riesce, almeno per ora, a risolvere. «L’invecchiamento della popolazione – ci racconta – le grandi migrazioni, l’economia di un pianeta che si sta popolando: sono tutti temi che dobbiamo risolvere noi, in un’ottica che dia nuovamente dignità alla comunità. È inutile che facciamo finta di niente o che giriamo attorno ai problemi: c’è un enorme problema di riconversione dei posti di lavoro. Quando si passa da un call center a un algoritmo ci saranno delle situazioni da gestire e con esse un dolore necessario per una trasformazione coatta. In futuro i ragazzi comanderanno e questo mi dà grande tranquillità. Ma nell’immediato ci sono delle inerzie, specie per quanto riguarda il mondo del lavoro, che sono difficili da fermare».

Francesco Caio, ad di Saipem

Il nuovo modo di fare banca

Uno dei settori maggiormente toccati dalla trasformazione tecnologica è quello finanziario. Il fintech è la più ovvia conseguenza, ma anche l’intero sistema bancario ha dovuto cambiare rapidamente: il numero di filiali fisiche è crollato, gli esuberi si sono moltiplicati, mentre i servizi mobile e telematici sono diventati una commodity e non più un plus offerto ai clienti più avanzati. Chi conosce particolarmente bene questo comparto è Corrado Passera, che è stato a capo di Intesa SanPaolo e che oggi è tornato sulla scena con la sua nuova banca, Illimity. «Nei servizi finanziari – ci spiega – sta cambiando tutto perché la combinazione di tecnologie digitali che cambiano il come fare e il cosa fare ha modificato lo scenario competitivo. Il risultato è che non c’è più limite alla concorrenza: un tempo si doveva chiedere il permesso per aprire una filiale, ora invece i servizi finanziari li fanno tutti. La politica monetaria sta modificando lo scacchiere e ridefinendo le regole del settore. Chi continuerà a fare le cose nello stesso modo di prima si schianterà, mentre entreranno prepotentemente i grandi della tecnologia che abuseranno della loro posizione per offrire perfino sotto costo servizi finanziari. Ma nascono anche dei nuovi interpreti che cavalcano il cambiamento e si disegnano facendo solo determinate cose ma in modo perfetto. È il caso di Illimity, che si rivolge alle centinaia di migliaia di aziende che vanno benino ma potrebbero fare meglio, o alle imprese che hanno avuto dei problemi ma che hanno il potenziale per ripartire. La nostra mission è quella di fare utili essendo utili».

Corrado Passera, ceo di Illimity

 

L’intelligenza artificiale e l’etica: un rapporto controverso

Il rapporto tra società e intelligenza artificiale apre anche a scenari di tipo etico, in cui si consideri come l’Ai possa profilarci e quindi diffondere risultati. Non mancano i casi di riconoscimenti facciali razzisti o sessisti. Per questo la professoressa Mariarosaria Taddeo dell’Università di Oxford, ci racconta che «la tecnologia ridefinisce il modo di percepire l’ambiente intorno a noi. È la prima volta in cui abbiamo macchine che sono agenti autonomi in grado di imparare dalla loro interazione con il mondo circostante. L’ai ha grandi potenzialità anche nel profiling, ma questo aspetto apre a una serie di problemi che si spingono fino alla potenziale discriminazione. L’etica, quindi, diventa parte integrante del processo: non è più solo concentrarsi sui rischi e sulle cose da non fare, ma anche su quelle buone che si devono fare. Ad esempio, a Oxford abbiamo lanciato il programma di ricerca AiXGood per raggiungere i 17 obiettivi dello sviluppo sostenibile che l’Onu ha lanciato entro il 2030. L’etica però deve essere usata in modo corretto, altrimenti si rischiano storture come nel caso del Gdpr».

Mariarosa Taddeo dell’Università di Oxford

 

Siamo in pericolo?

Al termine di tutti gli interventi rimane ancora una domanda inespressa: qual è il ruolo dell’intelligenza artificiale nella nostra società? Rischiamo veramente di trovarci di fronte a un anti-umanismo? Per il filosofo Eric Sadin «per la prima volta le tecnologie ci enunciano come agire, c’è una svolta imperativa che per ora è solo in ottica commerciale. Stiamo andando verso una oggettivizzazione della vita umana. Un’altra conseguenza è quella per cui l’Ai prende decisioni al posto nostro, come nelle risorse umane (assumere o non assumere qualcuno) o nel finance (concedere o meno un prestito). Infine, l’intelligenza artificiale cambia il nostro modo di lavorare, ad esempio nelle fabbriche. La data driven manufacturing è un impianto pilotato dai dati, che impongono ai lavoratori di svolgere determinate funzioni in un modo preciso e di fare certe operazioni perché riducono i costi e aumentano la produttività. Per questo, per contrastare lo sviluppo tecnologico serve una coscienza collettiva come quella che abbiamo visto in piazza in Cile o a Hong Kong, per continuare a rispettare il giudizio, l’integrità e la dignità umana».

Il filosofo Eric Sadin













Articolo precedenteHpe potenzia Partner Ready per accelerare crescita soluzioni as-a-Service 
Articolo successivoCome sta avvenendo la digital transformation di Snam?






LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui