Arpe Group: è la nuova Mediobanca delle pmi industriali?

di Filippo Astone e Laura Magna ♦ Riportare la finanza a fare da sostegno all’economia, partendo dalla manifattura. Far emergere l’enorme potenziale inespresso delle nostre piccole e medie imprese. Ecco come si passa, nell’attuale stagione critica nei rapporti tra banche e imprese, dal dire al fare. È la ricetta di Fabio Arpe, ritornato ancora una volta sulla breccia con una sua creatura, che fa leva anche su meccanismi hi-tech per offrire  servizi da merchant bank altrimenti inaccessibili

È stata definita la Mediobanca delle pmi. Stiamo parlando di Arpe Group, l’ultima creatura di Fabio Arpe, banchiere di lungo corso, la cui storia nel mondo della finanza inizia nel gruppo Imi alla fine degli anni Ottanta. Arpe Group è una società di advisory che in cinque anni è riuscita a reperire finanziamenti per 140 milioni di euro, destinati a 100 imprese italiane in temporanea tensione finanziaria con un fatturato tra i 5 e i 50 milioni. Ma che è anche un gruppo che vuole fare di più, parola di Fabio Arpe: «riportare la finanza al suo ruolo di sussidiarietà rispetto all’economia reale.È un obiettivo che perseguo da sempre e che è la strada obbligata per condurre il Paese in un nuovo percorso di crescita». L’intento del banchiere è «far emergere l’enorme potenziale ancora inespresso delle nostre piccole e medie imprese, che sono l’ossatura della seconda industria europea».

Ma affinchè questo valore si possa manifestare è necessario dotare le aziende delle risorse, finanziarie e strumentali, che possano «condurle verso un salto di qualità e dimensionale tale da far prender loro il posto dei pochi colossi italiani che invece hanno delocalizzato». Quindi, da un lato è necessario spingere il credito bancario, portando agli istituti finanziari bilanci e andamentali che superino le regole stringenti imposte da Basilea; dall’altro bisogna esplorare anche ogni altro strumento capace di spingere lo sviluppo, dalle emissioni di minibond, alla quotazione in Borsa, a ogni occasione di acquisto industriale che si possa presentare sul mercato domestico e internazionale.







«L’M&A è previsto in crescita perché sono tante le imprese in vendita ed è un volano importante per lo sviluppo dimensionale delle pmi italiane», sostiene Arpe, nel cui curriculum figura la fondazione di strutture innovative come Abaxbank, che, nel 2000, era unica banca italiana che avesse una sala operativa sul forex aperta 24 ore si 24. E la creazione, nel 2004 di Novagest Sim, nel Corporate Investment Banking: società che ha compiuto in soli due anni una parabola ascendente che l’ha portata a raggiungere un capitale di 29 milioni di euro e nel 2007 a fondarsi con Banca Mb, di cui Arpe diventa ceo. Con Arpe Industria Italiana ha tracciato la parabola del possibile futuro della nostra economia reale, perennemente in bilico tra l’eccellenza di prodotto e l’artigianalità della gestione, non più accettabile per competere in un mercato globale sempre più complesso e con un quadro normativo che in Italia sarà complicato e reso più severo dal nuovo Codice della crisi di impresa.

 

Fabio Arpe, Ceo Arpe Group

 

D.Dunque, riportare la finanza a fare da sostegno all’economia, partendo dalla manifattura e dalle pmi. Il vostro target è per il 75% formato da questo tipo di imprese. Perché?

R.Perché riteniamo che in molte piccole e medie imprese industriali ci sia un elevato potenziale di crescita inespresso. La nostra mission è supportarle perché questo valore emerga. Sono da sempre convinto – e ho il sostegno anche dei dati – che le pmi manifatturiere siano il punto di riferimento dell’economia del nostro Paese. Non solo siamo la seconda manifattura d’Europa ma, se si esclude l’indotto dell’automotive, il made in Italy industriale è in grado di incalzare la Germania. Inoltre, le aziende che costituiscono lo scheletro della nostra industria hanno un fatturato che varia dai dai 14 ai 250 milioni, sono medie e piccole. Queste aziende sono a volte strutturate per fronteggiare il sistema bancario, ma spesso, soprattutto quelle che hanno un giro di affari sotto i 30 milioni, non hanno un adeguato assetto amministratativo,contabile e gestionale.Così accade che si generi un cortocircuito nell’incontro tra due bisogni, quello delle imprese di essere finanziate e quello delle banche di erogare credito, che pure sono coincidenti.

D.Dunque, il credit crunch che prosegue senza sosta non dipende dalla volontà delle banche, ma da qualcosa di diverso ed estraneo alla loro strategia. Un difetto di comunicazione?

R.Esattamente. Da un lato la banca ha necessità di impiegare in maniera efficace il capitale, per aumentare la propria redditività e in questo momento, in Italia, non esiste neppure un problema di liquidità; dall’altro le imprese hanno bisogno di credito per investire e sviluppare il business. Eppure nella pratica queste due esigenze non trovano risposta perché l’imprenditore che tipicamente si occupa di svolgere ogni funzione all’interno della sua azienda, dall’ufficio acquisti, al cfo, al controllo di gestione, al commerciale, non riesce a capire esattamente quali siano le richieste di un sistema come quello bancario che si evolve e si trova ad essere anche schiacciato dall’ombrello normativo di regole sempre più stringenti. D’altro canto le banche sono sempre più lontane dall’imprenditore: gli organi periferici delle banche hanno poteri decisionali ridotti rispetto al passato e quindi le pratiche vengono viste in un punto distante rispetto al cliente. Il proximity lending non esiste più da oltre un decennio e anzi le banche utilizzato il sistema di rotazione del personale per evitare qualsiasi tipo di empatia con il cliente.

 

D.Per quale motivo non esiste più il proximity lending?

R.Perché è stato visto durante la crisi del 2008 come una delle cause scatenanti delle difficoltà del sistema finanziario: la vicinanza della banca al cliente dà luogo a un’empatia che si è ritenuto potesse far prendere decisioni, in merito all’erogazione di credito, sulla base di un rapporto fiduciario e non di una valutazione fondata sul puro dato numerico. Oggi siamo passati a un approccio che è completamente all’opposto: esiste un sistema di valutazione dell’azienda che si basa in maniera acritica su alcuni parametri puramente quantitativi, ovvero in sostanza la centrale rischi, il bilancio e da qualche mese dal forward planning.

D.Un sistema che però fa perdere qualcosa nella valutazione e che forse è all’origine  del cortocircuito di cui sopra?

D.Senza dubbio: ci sono i falsi positivi, i numeri ingannevoli. L’impresa è un organismo vivente in cui entrano un insieme di variabili che non saranno mai sintetizzabili in un unico indicatore; l’indicatore non sarà mai l’early warning perfetto, la panacea. Per far fronte a questo problema abbiamo realizzato un protocollo che si basa sull’affiancamento da parte del Gruppo Arpe delle aziende che abbiano difficoltà a reperire capitali ma che, al tempo stesso, abbiano ancora un business solido. Attraverso software proprietari, riusciamo a diagnosticare il lo stato di salute dell’azienda e studiamo se vi siano inefficienze.

Prepariamo un company profile che fotografa con precisione lo status quo dell’azienda, segnalando i kpi fondamentali, con una parte di visione sul passato e una sul bilancio corrente. Il documento viene validato dall’azienda e presentato a tutti gli istituti di credito possibili; successivamente elaboriamo un business plan dettagliato che rappresenta il forward looking, in cui è indicato il benchmark di mercato, il posizionamento, i punti di forza e la traiettoria che l’azienda vuole compiere su un orizzonte di 3 anni. Ogni tre o sei mesi viene presentato alla banca un aggiornamento del piano: abbiamo constatato che nel giro di 8-9 mesi i numeri delle aziende cambiano direzione e il semaforo diventa verde anche per la banca. È un lavoro complesso che richiede il contributo di un team di professionisti e che impiega anche moduli di intelligenza artificiale applicati a modelli predittivi: riusciamo, grazie all’automazione, a contenere i costi. E comprendere criticità e i pericoli che corre l’azienda, prima che questa incorra in concordati preventivi o in procedure di fallimento.

D.Le procedure fallimentari potrebbero rappresentare un rischio maggiore con l’entrata in vigore del nuovo Codice della crisi di impresa. Qual è la sua opinione?

R.Il Codice è stato approvato lo scorso 10 gennaio e, benché saranno necessari per i decreti attuativi alcuni mesi, si tratta di un cambiamento epocale ancorché non completamente compreso da tutti anche perché passato un po’ sotto silenzio e sottovalutato anche dalla stampa. La rivoluzione sta nel fatto che questo codice prevede tra l’altro l’Istituto dell’allerta per le aziende con oltre 2 milioni di fatturato e 10 dipendenti; un sistema di alert per cui se si sforano alcuni indici, fissati dai covenant, automaticamente un revisore o lo stesso imprenditore dovrà dichiararlo. L’alert chiamerà in campo l’Ocri (organismo di composizione della crisi) e quindi un collegio di tre esperti per la rimessa in bonis dell’azienda, ma che nel percorso possono condurre a meccanismi di diritto fallimentare. Il tutto entrerà a regime a fine 2020 e quindi sarà efficace sul bilancio 2019.

Naturalmente gli imprenditori – e parliamo ancora a quelli che guidano microaziende e dunque sono i meno strutturati per affrontare i cambiamenti – sono obbligati ad agire in anticipo in modo che i numeri siano tutti sotto controllo. Non conosciamo ancora le soglie che, appunto, saranno fissate nei decreti attuativi, ma oggi non è infrequente trattare con aziende che hanno, per esempio, un rapporto PFN/EBITA a 9 (vale a dire che ripagano il debito in 9 anni) quando negli Ifrs 9 bancari la soglia tollerata è a inferiore a 6: questo porta a un problema probabilmente ancora più grave. E cioè che se non si alza l’attenzione degli imprenditori sulla necessità di fare cassa, di puntare sulla marginalità e su un sistema di controllo di gestione efficiente, rischiamo che i colpi di tosse di oggi diventino bronchiti croniche.

 

D. Oltre al credito bancario, quali altri percorsi possono seguire le nostre pmi per realizzare tutti questi obiettivi? Ritiene, per esempio, che l’M&A nei mesi a venire sarà una strada percorribile?

R.Riteniamo che l’M&A avrà una crescita esponenziale e che l’M&A sia la strada maestra per aspirare a una crescita dimensionale delle imprese che è sempre auspicabile per competere sul terreno sempre più complesso dell’industria global e 4.0. Il potenziale inespresso delle pmi, di cui accennavamo all’inizio, può trovare sfogo proprio nelle fusioni: soprattutto perché ci sono molte aziende in vendita e quindi esiste la possibilità, per chi vuole crescere, di comprare i concorrenti. Questo lo testiamo quasi quotidianamente. Le piccole imprese che non hanno delocalizzato perché legate a un know-how e a una brand recognition che non può prescindere dal territorio, necessitano in questo momento di fare un salto di qualità che le conduca a colmare il vuoto lasciato dalle grandi imprese che hanno abbandonato il Paese.

D. Arpe Group si presenta sul mercato come un partner delle pmi. Quali altri servizi e percorsi potete fornire alle imprese grazie alla vostra visione di insieme?

R.Ci differenziamo dal resto degli operatori presenti sul mercato proprio perché agiamo a 360 gradi. Se si rivolge a una sim, l’azienda trova una società che può essere specializzata in quotazioni o in piattaforme di crowdfunding o, ancora, in minibond: ma nessuna fa tutto. La stessa banca universale non esiste più, e l’investment banking è di fatto scomparso quando Banca Imi è stata assorbita da Banca Intesa. Noi invece abbiamo scelto la strada della consulenza: analizziamo lo stato di salute dell’impresa e poi la portiamo dallo specialista di cui ha bisogno. Ci occupiamo di quotazioni in Borsa, passaggi generazionali, M&A, Acquisition Financing quotazioni all’Aim, Ipo, minibond. Dopo aver preparato il dossier che fotografa l’azienda nel passato, nel presente e in prospettiva, lo presentiamo al più adatto interlocutore diretto.

D.Come funziona il vostro modello di business?

R.Il nostro modello di business prevede che il servizio si offra inizialmente, per un periodo di 6-12 mesi, a recupero costi e che, con un patto tra gentiluomini, nel momento in cui l’azienda fa il salto di qualità e di dimensione si affidi a noi per quotarsi su Aim o per emettere un minibond o qualunque altra operazione straordinaria sia necessaria. Con questa strategia riusciamo ad agganciare le pmi più piccole e con meno disponibilità di cassa che hanno difficoltà ad essere accompagnate sul mercato in un percorso di crescita di fatturato e utili.

I risultati arrivano: abbiamo un backlog molto importante che deriva da queste aziende. Agiamo di fatto come un private equity, ma invece di fornire finanziamenti diretti, dedichiamo tempo che viene remunerato in maniera incrementale man mano che l’azienda cresce. Che il nostro funzioni lo dimostrano anche i bilanci: siamo in utile fin dal primo esercizio, con un fatturato complessivo di due milioni e 400mila euro di utile lordo.

D. Questo modello è coerente con la mission che dichiarava in apertura di questa intervista e con la logica che ha caratterizzato tutta la sua carriera: la finanza deve essere al servizio dell’industria. Ma in questo momento storico questa tensione sembra mancare: che ne pensa?

R.La finanza deve tornare alla sua missione originale di alimentare la crescita industriale. Devo accompagnare l’imprenditore in un percorso di crescita attraverso un rapporto fiduciario e non un rapporto basato sulla voracità dei guadagni. Ma certamente non esiste diffusamente questa finanza sussidiaria all’impresa e semmai è il contrario, proprio perché il sistema bancario, per tornate sull’esempio più facile, per una serie di motivi che non necessariamente attengono alle scelte strategiche ma che per lo più dipendono da fattori normativi, si sono dovuti dare delle regole stringenti, sottraendo ossigeno all’economia. Noi vogliamo invertire il trend.














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