Acciaio green? Sì, ma idrogeno verde e forno elettrico non bastano …

di Laura Magna ♦︎ Bisogna ricorrere a sistemi di sequestro dell’anidride carbonica prodotta dalla combustione del gas naturale, alla biotecnologia, al biocarbone e al biometano. Il progetto di Danieli, Saipem e Leonardo per riconvertire gli impianti energivori. La soluzione Energiron per limitare la produzione di co2. La ristrutturazione in chiave sostenibile dell’Ilva di Taranto. Se n’è parlato in un evento by Siderweb e Saipem, con Abs, Acciaierie Arvedi, Acciaierie Venete, Feralpi, Marcegaglia, Danieli

La produzione di acciaio ha bisogno del carbonio. È un fatto chimico e immutabile. Si possono ridurre le emissioni, si possono attuare diverse strategie più sostenibili di quelle attuali, ma l’idrogeno verde non potrà mai sostituirsi completamente al carbonio nel processo di produzione siderurgica. Il che non vuol dire che non sarà possibile avere impianti sempre più puliti ed efficienti. Ma per riuscirci bisogna sgombrare il campo da falsi miti, secondo quanto emerso dal webinar “Cieli azzurri per la siderurgia” organizzato da Siderweb, con il supporto di alcune dei nomi più importanti dell’acciaio italiano, da Abs ad Acciaierie Arvedi; alle Acciaierie Venete; a Feralpi e Marcegaglia fino al produttore di impianti siderurgici Danieli (che ha partecipato all’evento insieme a Saipem con cui è in cordata per una proposta di ristrutturazione in chiave green dell’Ilva di Taranto).

 







L’idrogeno verde non è la panacea

Vergelle dei magazzini Feralpi

L’industria siderurgica è responsabile a livello mondiale di circa il 7-9% del totale delle emissioni dirette da combustibili fossili, secondo la World Steel Association, e ha la decarbonizzazione tra i suoi obiettivi primari. Per l’acciaio italiano, che genera ricavi per quasi 60 miliardi di euro e conta 33.400 occupati, posizionandosi al secondo posto per importanza in Europa, si tratta di un tema cruciale.

Ma l’idrogeno verde, spesso protagonista nelle tavole rotonde e nelle discussioni sul tema, non è l’unica soluzione e neppure la migliore per realizzare l’obiettivo della carbonizzazione. Lo spiega il professore di meccanica del Polimi Carlo Mapelli. «L’acciaio è una lega di ferro e carbonio. Il monossido di carbonio è ciò che riduce il minerale di ferro, separandolo dall’ossigeno: strappa l’ossigeno al minerale e si trasforma in anidride carbonica. Se usiamo in sostituzione l’idrogeno, dopo aver strappato l’ossigeno al minerale di ferro esso si trasforma in acqua. Ma in questo modo non carburiamo il ferro. E dovremo quindi trovare il modo di reinserire il carbonio». Nella lega di acciaio il carbonio è compreso tra lo 0,1% e l’1,8% ma deve esserci, perché è ciò che rende il materiale duttile e versatile ed eliminarlo per poi trovare un sistema per reintrodurlo è un non senso. Allora, per diminuire fino ad abbattere le emissioni di CO2, si dovrebbero usare soluzioni che puntano al sequestro della CO2 e all’utilizzo di carbonio di origine biologica.

 

Il forno elettrico abbatte le emissioni senza snaturare l’acciaio

Marcegaglia Ravenna, impianto zinco verniciatura

L’industria non è stata ferma a guardare. La tendenza globale all’adozione di produzione con forno elettrico, basato sul riciclo dei rottami ferrosi, in sostituzione del ciclo integrale in altoforno, va già in questa direzione. L’Italia è in particolare il Paese che produce di più dal riciclo e dunque quella più avanti nella strada della decarbonizzazione. «A fronte delle 2,5 tonnellate di anidride carbonica per tonnellata di acciaio emesse dall’altoforno – spiega Mapelli – il forno elettrico ne emette tra 0,1 e 0,2 tonnellate. A queste vanno aggiunte le 0,83 tonnellate per tonnellata di acciaio generate dell’uso del preridotto, prodotto del gas naturale, che serve a ovviare all’inquinamento metallurgico dei rottami. Se al posto del gas si usasse l’idrogeno, si avrebbe una riduzione a 0,3 tonnellate emesse».

Insomma, già attualmente si dimezzano le emissioni, sostituendo nella fase finale l’idrogeno sostenibile (non quello che si ricava da combustibili fossili, ma quello verde che si ottiene dall’acqua dolce attraverso l’uso di elettrolizzatori ed energia da fonti rinnovabili) si abbatterebbe di dieci volte. Ma ne vale davvero la pena? Forse no, considerato il costo di produzione che l’idrogeno verde ha per l’ambiente. Precisamente, nota Mapelli, «per produrne un metro cubo servono 4,64 kWh di energia. Senza considerare i costi degli elettrolizzatori, che potranno diventare competitivi solo se diminuiranno di 5-6 volte. Infine l’idrogeno verde non è neanche così facile da trasportare, avendo una reattività molto elevata; dovrebbero essere cambiati i tubi e il valvolame degli attuali gasdotti».

 

I sistemi di sequestro della CO2 sono (anche) la soluzione

Il professore di meccanica del Polimi Carlo Mapelli

Dunque più che l’idrogeno verde, per la siderurgia serve altro. Le soluzioni esistono ed è lo stesso Mapelli a elencarle. Una possibilità sono i sistemi di sequestro dell’anidride carbonica prodotta dalla combustione del gas naturale. «Esistono diverse possibilità. Per esempio, il flusso di anidride carbonica viene sequestrato dalle ammine e dall’ammoniaca. L’anidride carbonica viene poi estratta dalla miscela e può avere usi diversi, può essere stoccata, impiegata nei depositi sottomarini; messa a mineralizzare. Il sequestro può avvenire anche tramite liquidi ionici, che la trattengono. La materia può poi essere separata da una cella elettrolitica e usata per produrre grafite, grafene o addirittura i nanotubi di carbonio».

Infine, c’è la via biotecnologica: «Attraverso dei batteri, possiamo produrre degli idrocarburi. È una via che ArcelorMittal sta sperimentando a Ghent in Belgio – ricorda Mapelli – ma i batteri sono instabili e si tratta appunto di una via ancora sperimentale. Poi si possono usare anche le alghe spiruline, microrganismi si nutrono della CO2 disciolta nell’acqua con il processo di fotosintesi e che poi possono essere usati come fertilizzante o additivante degli alimenti nella zootecnia». Infine c’è la via del biocarbone e biometano: «Ci consente di avere di nuovo carbone e gas che utilizziamo tradizionalmente nel ciclo siderurgico. Non è uguale al coke (ha resistenze meccaniche diverse), ma ci sono sperimentazioni in cui si usa il biocarbone come elemento riducente». E secondo la normativa europea Redd2, «se il biometano e il biocarbone vengono prodotti da scarti agricoli e di allevamento, senza sottrarre suolo alla produzione alimentare, le emissioni di CO2 alla produzione e al consumo non vanno computate tra le emissioni nette, perché si suppone che nel ciclo stagionale le coltivazioni e le risorse boschive saranno in grado di riassorbire carbonio».

 

Case history: il progetto di Danieli, Saipem e Leonardo  per riconvertire gli impianti energivori

Fornace Danieli. Danieli, Saipem e Leonardo collaborano per la creazione di soluzioni chiavi in mano atte a ridurre le emissioni

Danieli, Saipem e Leonardo collaborano per la creazione di soluzioni chiavi in mano atte a ridurre le emissioni. Ne hanno parlato nel corso dell’evento Giovanna Villari, sustainable technologies business development manager di Saipem e Alessandro Martinis, executive vice presidente di Danieli & C. Officine Meccaniche. Danieli, che a Buttrio produce impianti siderurgici con un fatturato 2019 di 3 miliardi e risultato netto consolidato di 66,8 milioni, porta nella partnership la sua competenza nell’acciaio. Saipem, invece, opera principalmente nella costruzione di oleodotti e gasdotti, e in tutte le infrastrutture riguardanti la ricerca di giacimenti, la perforazione e la messa in produzione di pozzi per la produzione di idrocarburi. Leonardo, infine, la ex Finmeccanica, contribuisce con le sue competenze nell’alta tecnologia, maturate nell’Aerospazio, Difesa e Sicurezza.

«Saipem si occuperà della parte di integrazione di tecnologie che permettano di ridurre le emissioni anche utilizzando una miscela di gas e idrogeno per la riduzione del minerale di ferro e puntando a sistemi di cattura della CO2», esordisce Villari. «L’obiettivo è sostituire il processo di produzione attuale con un processo nuovo in cui la riduzione del minerale di ferro avviene con una miscela di metano e idrogeno, che potrà essere verde. La CO2 sarà catturata o stoccata a seconda delle scelte». A detta di Villari, «l’idrogeno potrà sostituire il metano come gas totalmente decarbonizzato perciò ci stiamo concentrando su tecnologie di produzione sia sugli aspetti infrastrutturali che saranno decisivi per consentirne una esplosione». Saipem ha accumulato una vasta esperienza nel settore della raffinazione per quello che riguarda l’idrogeno «e siamo sempre più impegnati nella decarbonizzazione dei distretti industriali- continua Villari – abbiamo progettato 70 impianti per lo smaltimento di CO2 e abbiamo acquisito da una società canadese una tecnologia per la cattura di CO2 che abbatte i costi di post smaltimento per il riutilizzo nella produzione di nuovi prodotti». Le tecnologie che verranno dalla collaborazione con Danieli e Leonardo, saranno impiegate in impianti brownfield. «Ogni impianto ha le sue peculiarità e nel confrontarsi con esse si devono tener presente l’integrazione con il territorio e gli effetti e le ricadute che può avere sulla salute delle persone», conclude Villari. Parole che richiamano alla mente in maniera immediata il caso Ilva.

 

Nuova vita pulita per l’Ilva

Altoforno dell'Ilva di Taranto
Altoforno dell’Ilva di Taranto

«Per l’ex Ilva – spiega Martinis – Danieli ha avanzato una proposta che prevede la sostituzione degli altiforni con tre impianti di riduzione e tre forni elettrici, che permetterebbe di ridurre drasticamente l’impatto ambientale del siderurgico pugliese, riducendo da due tonnellate di CO2 per ogni tonnellata di prodotto a 7-800 chili che in prospettiva, con l’uso di gas e idrogeno, possono essere portati a livelli minimi». Il progetto richiederebbe un tempo massimo di 35 mesi dal momento della firma dell’ordine e rappresenterebbe un vero game changer per una delle fabbriche di acciaio più importai e più controverse del Paese. Al momento si tratta di una partita ancora aperta.

 

 

La soluzione Energiron

Forno ad arco elettrico di Tenova. Danieli ha messo a punto una tecnologia insieme a Tenova, che risponde al nome di Energiron e che si basa «sulla riduzione diretta del minerale di ferro utilizzando gas naturale, anche arricchito con idrogeno, e permette di separare la CO2 dai gas di processo durante l’esercizio dell’impianto e di immagazzinarla, per poi utilizzarla per altre applicazioni

Danieli ha messo a punto una tecnologia insieme a Tenova, che risponde al nome di Energiron e che si basa «sulla riduzione diretta del minerale di ferro utilizzando gas naturale, anche arricchito con idrogeno, e permette di separare la CO2 dai gas di processo durante l’esercizio dell’impianto e di immagazzinarla, per poi utilizzarla per altre applicazioni». Più in dettaglio, i gas riducenti servo a ridurre il materiale ferroso per poterlo ridurre allo stato metallico per usarlo nei forni elettrici o per ridurre la carica elettrica negli altiforni

«Al mondo esistono due tecnologie basate sul gas capaci di produzioni fino a 2,5 milioni di tonnellate annue, una è la Midrex, l’altra è la nostra, Energiron. Entrambe usano i gas e possono impiegare idrogeno. La nostra ha la possibilità di separare nativamente la CO2 dai gas di processo nel normale esercizio dell’impianto». Secondo Martinis le soluzioni per limitare la produzione di CO2 sono due: «O si riduce la quantità di carbone in forno per la fusione e la produzione dei gradi di acciaio desiderati o si carburizza il bagno liquido del forno, cosa però meno efficiente e meno ecologica. Crediamo quindi che si possa sostituire parte del carbone con idrogeno, ma fino a un certo punto». Ovvero è possibile per esempio se si deve produrre un tondino da costruzione ma non se si stanno realizzando parti esposte per l’automotive richiedono il carbone non solo come parte dell’acciaio ma anche come elemento che consente di liberare da impurità non volute l’acciaio che deve essere estremamente pura. «Importanti decarbonizzazioni sì, ma mai complete», conclude Martinis.

 

La via europea alla decarbonizzazione

Stefano Ferrari, responsabile Ufficio Studi siderweb

Tutto quanto raccontato fin qui è di fatto il contributo che l’industria siderurgica – quella italiana in particolare – sta dando all’obiettivo europeo di emissioni zero nel 2050. «Con il Green Deal l’Unione europea punta a trasformarsi in una società giusta e prospera che migliori la qualità di vita delle generazioni attuali e future, con un’economia moderna, efficiente sotto il profilo delle risorse e competitiva», afferma Stefano Stefano Ferrari, responsabile Ufficio Studi siderweb. Che ricorda che gli investimenti che il Green Deal europeo mobiliterà si aggirano attorno ai 1.000 miliardi di euro nei prossimi dieci anni, da reperire tramite InvestEU, la Bei, il Just Transition Mechanism, il cofinanziamento degli Stati membri (circa 114 miliardi) ed il Fondo per l’innovazione e dal Fondo per la modernizzazione. I principali ambiti di intervento sono energia, per cui si punta ad arrivare a 300 GW di energia eolica offshore; gli edifici, per cui si vuole raddoppiare il tasso di ristrutturazione energetica entro i prossimi 10 anni; mobilità, ambito per cui si punta ad una riduzione del 90% delle emissioni entro il 2050 e ultima ma non meno importante l’industria che sia più verde, più circolare e più digitale, rimanendo allo stesso tempo competitiva. «In tutti questi ambiti ci sono sia impatti diretti e indiretti per la siderurgia – dice Ferrari – i primi in termini di neutralità delle emissioni e di ristrutturazione delle forniture energetiche, i secondi in termini di ristrutturazioni e di modalità per estrarre energia elettrica, comparti per cui l’impiego di acciaio è massiccio e destinato però a cambiare profondamente». Ma è sul fronte del net zero che si gioca la partita dell’acciaio. Il pilastro della strategia europea è nell’idrogeno che, come scrive la stessa Commissione, «può favorire la decarbonizzazione dell’industria, dei trasporti, della produzione di energia elettrica e dell’edilizia in tutta Europa. La strategia dell’UE per l’idrogeno si prefigge di concretizzare questo potenziale», in tre fasi.

In una prima fase, entro il 2024, l’Ue punta a produrre almeno un milione di tonnellate di idrogeno rinnovabile e a istallare almeno 4 GW di elettrolizzatori. In questa fase, cattura e stoccaggio del carbonio consentirebbero la decarbonizzazione di alcune industrie compresa quella siderurgica. «La seconda fase, dal 2025 al 2030, vede invece l’idrogeno verde diventare parte integrante del sistema energetico europeo, con un minimo di 10 milioni di tonnellate di idrogeno rinnovabile entro il 2030 e 40 GW di elettrolizzatori installati – dice Ferrari – Infine, nella terza fase, che si svolgerà nei venti anni dal 2030 al 2050, prevede la maturazione delle tecnologie per l’idrogeno verde e il loro sviluppo autonomo su larga scala». Per realizzare questo piano si prevedono investimenti tra i 50 ed i 200 miliardi di euro: il risultato sarà che nel 2050, come precisa Ferrari, «il 24% della domanda energetica dell’Unione sarà soddisfatta dall’idrogeno, e si assisterà alla riduzione di 560 milioni di tonnellate annue di emissioni. L’industria dell’idrogeno dovrebbe portare a generare un giro d’affari di 820 miliardi di euro e alla creazione di circa 5,4 milioni di posti di lavoro nell’Unione».














Articolo precedenteAntonio Carraro punta sulla e-Mobility e investe in On Charge
Articolo successivoRs Components amplia il suo portafoglio IIoT: arrivano i prodotti di Sick






LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui