Acciaio 3: la relazione del Presidente Gozzi

A seguire la relazione del Presidente Antonio Gozzi all’Assemblea annuale di Federacciai, titolata “L’industria è il futuro dell’ Italia”

Autorità, colleghi e amici,
vi do il benvenuto all’assemblea di Federacciai.Permettetemi, innanzitutto, di salutare e ringraziare gli importanti ospiti che prenderanno la parola in questa nostra Assemblea e che ci onorano della loro presenza.
Il Presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani, a cui ci lega un’antica amicizia e con il quale abbiamo
lavorato a lungo ai tempi dell’Action Plan per la siderurgia europea. Quell’iniziativa, frutto dell’azione di
Tajani, allora Commissario Europeo all’Industria, ha consentito di rimettere al centro del dibattito, dopo
venti anni di oblio, il tema dell’acciaio.
Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri on. Maria Elena Boschi ricordandola per la
coraggiosa battaglia da lei ingaggiata, insieme ad altri, per modernizzare il nostro sistema costituzionale.
Una battaglia condivisa e sostenuta da tutte le istanze confindustriali. Sappiamo come è finita. È stata persa
una grande occasione. Ma il problema di governance del nostro Paese resta. Auspichiamo anche oggi da
questa tribuna che con percorsi diversi e soluzioni ricalibrate tale tema torni ad essere al centro dell’iniziativa
di noi tutti.
Il Professor Marco Fortis, intellettuale valoroso, da sempre vicino ai siderurgici italiani, ma soprattutto
sostenitore di una visione positiva della manifattura italiana e delle sue innumerevoli eccellenze portate
alla luce e valorizzate in maniera scientifica nel corso del suo pluriennale lavoro. Tale lavoro scientifico e di
ricerca ha spazzato via con la forza dei numeri, dei dati e dei confronti la visione negativa e interessata che
voleva l’Italia un Paese di serie B per quanto riguarda l’industria.
E infine ultimo ma non ultimo il Presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, a cui ci lega la comune
militanza confindustriale e una comune visione sul ruolo dell’industria come motore dello sviluppo e del
futuro del Paese. Vincenzo ha speso il suo primo anno di Presidenza in un’appassionata attività di difesa
delle ragioni e dei valori di fondo dell’industria italiana e sa che, su questo terreno, i siderurgici italiani
saranno sempre al suo fianco.

I pregiudizi anti-industriali e l’impegno di Federacciai e dei siderurgici per il futuro
industriale dell’Italia







A ben vedere è questo il filo che lega i nostri ospiti e noi a loro: si tratta del titolo della mia relazione che
recita, per la sesta volta consecutiva “È nell’industria il futuro dell’Italia”.
Federacciai in questi anni ha cercato di collocare e legare i destini della siderurgia nazionale a quelli più
generali dell’industria italiana e a quelli, ancora più generali, del futuro del nostro Paese.
Vasto programma e lavoro difficile, come bene sanno i nostri ospiti e tutti voi in sala.
Infatti, nonostante gli enormi sforzi profusi, resta diffuso in Italia un sentimento anti-industriale e antiimpresa,
una miscela micidiale che comprende correnti istituzionali e politiche a cui si unisce un filone
sociale e di estremismo ambientalista.
Un’impostazione politico-culturale che vede sempre le imprese e gli imprenditori con sospetto, che si
oppone a ogni progetto di infrastruttura economica vista negativamente e affrontata con reazioni talvolta
violente, dal ciclo dei rifiuti ai rigassificatori all’insediamento di nuove industrie.
Tali tendenze, a cui, paradossalmente, viene spesso data voce e enfasi dal mondo dei media (che vive solo
grazie alla pubblicità delle imprese), hanno contribuito, a loro volta, a generare un pensiero economico
e giuridico ultra-regolatorio e una diffidenza di fondo in settori della magistratura che, in definitiva,
attribuiscono sempre all’imprenditore la presunzione della cattiva fede – se non una specie di colpevolezza
aprioristica e generalizzata. In questo clima, spesso l’onere della prova è di fatto, ribaltato ed è l’imprenditore
che deve dimostrare la sua innocenza.
Tutto ciò aggravato per la siderurgia dal fatto che essa ha, indubbiamente, la natura di industria “pesante”
a forte impatto ambientale.
A nulla valgono, da questo punto di vista, gli enormi investimenti fatti e documentati dai siderurgici italiani
in protezione e sostenibilità ambientale. A poco valgono, salvo rare eccezioni, e la Regione Lombardia
fortunatamente è una di queste, il rapporto costante con le Istituzioni, a ogni livello, per la gestione comune
delle criticità.
Ci siamo chiesti più volte in questi anni e credetemi senza retorica, se fosse ancora possibile fare gli
industriali siderurgici in Italia.
La risposta che ci siamo dati fino a ora è SÌ.
Vedete, la cultura anti-industriale ha una matrice negativa. E proprio per questo noi crediamo, al contrario,
che si debba partire da una antropologia positiva. Gli imprenditori italiani, compresi quelli siderurgici,
non sono dei criminali. Alla base della nostra cultura c’è un sistema valoriale fatto di onestà, trasparenza e
responsabilità. È grazie al contributo degli imprenditori, delle imprese e delle persone che lavorano nelle
imprese, a ogni livello, della loro capacità di ricerca e innovazione, della loro passione e dedizione al lavoro
che l’impatto positivo sulla società cresce e si autoalimenta.
È questo che dobbiamo fare, consapevoli e determinati perché lo sviluppo del nostro settore avvenga in
un quadro di rigorosa e totale tutela della sicurezza e della salute: dei nostri lavoratori, dell’ambiente in cui
operiamo, dei tanti stakeholder che fanno riferimento al mondo dell’acciaio e che contribuiscono con la
loro presenza e azione a farlo grande.

Abbiamo già detto e ripetiamo di essere perfettamente consapevoli che fare industria siderurgica nel futuro
non solo in Italia e in Europa, ma ovunque nel mondo, vorrà dire misurarsi con il tema della sostenibilità
declinata nelle diverse accezioni ambientale, sociale e economica.
Compatibilità ambientale e sicurezza sul lavoro devono diventare uno standard dell’economia globale e
non essere strumenti di una competizione asimmetrica e sleale, tra le diverse aree economiche del mondo.
Nel mentre affermiamo con forza questi concetti e queste condizioni che soli potranno garantire un futuro
alle nostre attività, con altrettanta convinzione e orgoglio, in questi anni, abbiamo rivendicato la nobiltà e
la forza dell’acciaio italiano.
E ciò non solo per una storia gloriosa, ma ormai lontana, fortemente intrecciata con la crescita dell’Italia e la
sua trasformazione da Paese agricolo a grande Paese industriale.
Ma anche per le vicende recenti che hanno visto le imprese siderurgiche italiane, e le famiglie loro
proprietarie, impegnate costantemente, anche nei momenti più difficili, in grandi campagne di investimenti
in protezione ambientale e in innovazione di processi e prodotti.
La siderurgia italiana ha mantenuto nel tempo la sua eccellenza gestionale non solo grazie agli investimenti
di cui si è detto, prevalentemente, autofinanziati, ma anche grazie a una straordinaria flessibilità e capacità di
adattamento alle mutevoli condizioni dei mercati che non ha eguali in Europa e probabilmente nel mondo.
I protagonisti di questa eccellenza sono certamente gli imprenditori siderurgici italiani, ma anche tutti i
loro collaboratori dagli operai, agli impiegati, ai quadri e ai dirigenti che, con un eccezionale orgoglio di
mestiere e con un buon esempio di coesione sociale lottano ogni giorno per mantenere competitive le loro
aziende, perché sanno che dalla salute delle stesse dipende il benessere loro e delle loro famiglie.

Un bilancio

Come sapete, questa è la mia ultima relazione assembleare come Presidente di Federacciai, scadendo il
mio terzo mandato a fine marzo 2018. Non posso quindi esimermi, scusandomi in anticipo per un pò di
necessaria – ancorché il più possibile contenuta – prolissità, non posso esimermi, dicevo, dal tracciare un
consuntivo di questi sei anni di attività, non certo per cullarmi, e cullarci, sugli allori, ma per aiutare chi verrà
dopo di me a definire i punti essenziali della nostra prossima agenda.

Difesa dell’onore della siderurgia

Come detto, ci siamo battuti, innanzitutto, per difendere l’onore della siderurgia italiana che è e resta la
seconda siderurgia europea dopo quella tedesca, onore messo in discussione da quell’estremismo antiimpresa
e anti-industria di cui dicevo poco fa.
È stata una battaglia durissima che ha avuto momenti drammatici, ma che abbiamo sempre condotto con
la forza della razionalità, dei dati, dei fatti, con un richiamo continuo al peso e al valore della siderurgia
nazionale non soltanto in sé ma anche e soprattutto per la competitività e il futuro di tutta l’industria italiana
e in particolare per quella della meccanica e della trasformazione del metallo che sono nostre eccellenze
mondiali.
Credo di poter affermare che questa battaglia l’abbiamo vinta nel senso che questa consapevolezza è oggi
diffusa, che il settore è considerato e rispettato.
Siamo presenti ai tavoli istituzionali e associativi che contano, sia a Roma che a Bruxelles, abbiamo, come
Federacciai, la vice-presidenza di Eurofer; abbiamo dato prova, con la vicenda Interconnector, di cui
parlerò più avanti, di avere una forte capacità di aggregazione e di leadership di tutta l’industria energivora
nazionale e credibilità rispetto agli impegni assunti.
Ovviamente anche per noi reputazione e credibilità non sono valori acquisiti per sempre. Occorrerà
continuare in un duro lavoro di azione e comunicazione e di presenza continua in tutte le sedi per
capitalizzare il lavoro fatto e migliorare ulteriormente il nostro posizionamento.
Alla base di questo lavoro ovviamente sta la salute economica e industriale delle nostre aziende, la loro
capacità di fare investimenti e innovazione, la loro straordinaria efficienza e flessibilità che le posizionano
tra le migliori al mondo. Lo sforzo innovativo non si deve fermare mai.
Al riguardo, anche le imprese siderurgiche italiane stanno usufruendo del Piano del Mise Industria 4.0 per
accelerare ancora di più i processi di innovazione. Digitalizzazione spinta dei controlli di processo, big data
analisys e intelligenza artificiale stanno facendo il loro ingresso nelle nostre fabbriche e cambieranno in
poco tempo il modo di fare acciaio.

Sostegno a una visione di politica economica di crescita

Siamo stati convinti sostenitori di una visione di politica economica volta alla crescita e in particolare alla
crescita della domanda interna.
Un grande Paese industriale non può vivere di solo export per quanto importante sia stata e sia questa
componente per l’economia italiana. C’è un grave ritardo nella realizzazione di infrastrutture sia materiali che
immateriali, un ritardo che si sta accumulando e che, in prospettiva, rischia di compromettere seriamente la
competitività generale del Paese. Per un settore che, come il nostro, vive per una sua parte fondamentale di
edilizia, il rilancio degli investimenti infrastrutturali interni sarebbe della massima importanza.
L’interpretazione tedesca del fiscal compact ha impedito il dispiegarsi di una forte politica di investimenti e
ciò ha ritardato e ridotto la velocità della ripresa. Siamo sostenitori dell’idea di alcuni che propongono o lo
scorporo degli investimenti dai criteri di computo del deficit o il lancio di un piano di euro bond finalizzato
al finanziamento delle grandi opere infrastrutturali continentali.
Ci siamo battuti e ci batteremo affinché a Bruxelles si facciano valere i nostri punti di vista come si è
cominciato a fare in questi ultimi anni e perché, almeno con riferimento agli investimenti in infrastrutture
materiali e immateriali, l’impostazione europea cambi e consenta a tutti i Paesi dell’Unione di modernizzarsi
e di crescere, abbandonando un’austerità senz’anima e senza solidarietà.

Difesa del commercio internazionale equo

Ci siamo profondamente impegnati, vorrei dire battuti, per difendere a tutti i livelli le regole di un commercio
internazionale non asimmetrico e giusto.
Siamo uomini e donne di mercato e difendiamo il libero mercato e, ovviamente, siamo contrari ai
protezionismi e alle barriere. Ma non possiamo, per questo, lasciare che il nostro settore (come qualsiasi
altro) sia esposto a tutte le scorribande di chi le regole del mercato non le rispetta e usa tutti gli strumenti,
compresi il dumping o sostegni di stato illegali, per affermare la sua posizione a discapito degli altri.
Per quanto riguarda l’acciaio, e non solo, l’anno da cui veniamo ha mostrato nuovi, preoccupanti, elementi
sul fronte delle regole del commercio internazionale.
Al perdurare di distorsioni e squilibri provocati dai dumping e più in generale dalla competizione
sleale di player di altre parti del mondo, si sono registrate le reazioni di altri Paesi che hanno aggiunto
nuovi protezionismi e nuove chiusure regionali. Il caso più eclatante è certamente quello della nuova
amministrazione americana, con la decisione che va sotto il nome di “232”.
Gli USA minacciano di chiudere le frontiere alle importazioni di acciaio (circa 26 milioni di tonnellate
all’anno) invocando ragioni di sicurezza nazionale che in realtà potrebbero riguardare, sì e no, 300/400 mila
tonnellate di importazioni l’anno.
Di fronte a tutto ciò, la Commissione Europea, nonostante le sollecitazioni e le prese di posizione del
Parlamento Europeo e di numerosi Stati membri, ha mostrato incertezze e ambiguità.
Del tutto emblematica, vorrei dire esemplare, di queste ambiguità è la vicenda del Mes China, quando
si è deciso di abbandonare un’impostazione semplice e chiara che definiva con precisione cosa debba
intendersi per economia di mercato. Si è pensato di varare un nuovo, fumoso, sistema all’interno del quale
non esisterà più la distinzione tra economie di mercato e non di mercato, ma solo un’analisi discrezionale,
caso per caso, fatta dalla Commissione e dai suoi uffici su eventuali distorsioni esistenti nelle economie dei
Paesi esportatori con un paradossale rovesciamento dell’onere della prova.

Tale nuovo sistema è stato da noi contestato e in questi mesi abbiamo lavorato moltissimo con il Governo
italiano e con il Parlamento Europeo perché almeno su alcuni punti fondamentali: onere della prova sulle
distorsioni, discrezionalità della Commissione e presa in considerazione di tutti i fattori di costo, siano
profondamente modificati nella versione finale del provvedimento.
In un recente incontro con la Commissaria Malmstrom, l’Ufficio di Presidenza di Eurofer, di cui faccio parte
come Presidente di Federacciai, ha sottolineato alla Commissione tali contraddizioni e in particolare ha
chiesto ragione del perché, rispetto a casi conclamati di dumping sui coils a caldo riguardanti diversi Paesi
esportatori, non si fosse provveduto, come da consuetudine, con l’adozione di dazi provvisori.
La risposta è stata incerta e confusa, con il rinvio ai provvedimenti definitivi che dovrebbero essere varati
nel prossimo mese di ottobre e che, a quanto è dato sapere, si dovrebbero basare sul principio del “prezzo
minimo”.
Al riguardo temiamo fortemente la totale inefficacia del provvedimento segnato da errori e manchevolezze,
prima fra tutte la presenza di stessi prezzi per codici merceologici diversi e la totale mancata indicizzazione
del prezzo minimo al costo delle materie prime.
Resta poi aperta la questione dell’Algeria. In palese violazione del trattato di libero scambio che lega quel
Paese all’UE, nel corso del 2017, aggravando una situazione che si era già manifestata nel corso del 2016,
le Autorità algerine, attraverso lo strumento delle licenze, hanno praticamente dimezzato le importazioni di
tondo per cemento armato, creando un grave danno alle imprese italiane per le quali il mercato algerino
era diventato, negli ultimi anni, fondamentale.
Resta aperta anche la questione dell’asimmetria di controlli tra l’UE e la Turchia, laddove questo Paese
continua a chiedere l’allargamento dell’Unione doganale con l’UE senza fornire garanzia alcuna sull’efficacia
e sulla correttezza dei controlli doganali ai suoi confini, con l’evidente rischio di aggiramento per le
importazioni di prodotti siderurgici da Paesi colpiti dalle azioni antidumping europee.
Il tema del commercio internazionale e degli strumenti di difesa resterà una delle grandi questioni degli
anni a venire. Sarà un tema ingarbugliato e difficile, che richiederà all’Europa un approccio ben diverso da
quello adottato fino a oggi.
Fuori da una retorica europeista che danneggia l’Europa stessa, bisogna essere consapevoli che il tema
non è neutrale e che sempre più vedrà all’interno della UE un duro confronto tra i Paesi con presenza
industriale significativa – e quindi sensibili rispetto a regole atte a tutelare dalla globalizzazione selvaggia
il proprio apparato industriale – e i Paesi completamente deindustrializzati, che tale sensibilità non hanno.
L’Italia non può rimanere sola o quasi in questa battaglia. Rispetto al passato bisogna fare un salto di qualità
nella politica delle alleanze per creare all’interno dell’UE un fronte pro-industria. Il ruolo della Germania in
questa partita sarà fondamentale e quindi il confronto con i nostri colleghi tedeschi della BDI – che peraltro
Confindustria annualmente coltiva con il meeting di Bolzano – sarà sempre più importante.

I fattori produttivi fondamentali

Ci siamo occupati dei fattori produttivi fondamentali per la nostra industria e la sua competitività, sempre
seguendo un principio di tutela del mercato e del suo funzionamento spesso insidiati da oligopoli o
monopoli interni e internazionali. Basti ricordare le vicende attuali dei refrattari e degli elettrodi per
comprendere come l’industria siderurgica italiana e internazionale sia esposta ai terribili effetti di continue
distorsioni di mercato.
Partiamo dall’energia e in particolare dall’energia elettrica per noi così fondamentale.
In tutti questi anni, il principio che ha ispirato la nostra azione è stato quello di assicurare alla siderurgia
italiana un costo del Kwh comparabile a quello dei nostri concorrenti europei.
All’inizio del millennio partivamo da una situazione drammatica, con un differenziale a sfavore della
siderurgia italiana rispetto a quella tedesca, spagnola, francese (squilibrio ben documentato da un nostro
studio del 2001) oscillante tra il 25 e il 30%.
Sono stati anni di lavoro intensissimo sul tema. Dobbiamo riconoscere che in questo lavoro quasi tutti
i Governi della Repubblica che si sono succeduti sono stati interlocutori attenti e positivi di Federacciai
nella ricerca dell’allineamento del prezzo dell’energia elettrica per i siderurgici italiani a quello dei nostri
principali competitori europei.
La linea di condotta è stata quella di trovare strumenti che potessero risolvere il problema ma che,
contemporaneamente, avessero l’approvazione europea proprio perché conformi ai principi di mercato e
anzi migliorativi delle condizioni del mercato elettrico.
Le industrie siderurgiche sono una componente essenziale della domanda elettrica e in un mercato
oligopolistico dell’offerta, sempre a rischio di posizioni dominanti e degli abusi conseguenti, un forte ruolo
della domanda è fondamentale.
Interrompibilità, art.39, Interconnector, cioè gli strumenti essenziali tramite i quali il costo dell’energia
elettrica per la siderurgia italiana si è allineato alla media europea rispondono perfettamente ai principi
della tutela e della promozione del mercato e quindi alle politiche europee di convergenza.
Qualche sintetico dettaglio su questi tre strumenti.
L’interrompibilità, in un mercato come quello italiano, caratterizzato da sempre maggiore instabilità e
crescita dei costi della regolazione dovuti al peso crescente delle fonti rinnovabili non programmabili, è
divenuto uno strumento non sostituibile, tanto che Terna ne chiede sempre di più e sempre di maggiore
qualità. I siderurgici in questo contesto garantiscono un servizio permanente di flessibilità al mercato
valutabile e assimilabile a un parco centrali da 2500 MW sempre a disposizione del sistema.
Tale servizio ha fatto capire quanto sia importante il ruolo della domanda per la regolazione del mercato
elettrico. Al riguardo si aprono per le imprese siderurgiche italiane nuove frontiere e in particolare quella
di diventare, consorziate ad altre industrie di dimensioni e settori differenti, dei poli di aggregazione e di
creazione di perimetri di equilibrio.
Il cosiddetto art.39, dopo un lungo e faticoso lavoro del Governo italiano presso la Commissione Europea,
ha avuto da quest’ultima l’approvazione finale. Vi è stato recentemente il recepimento da parte del
Parlamento italiano di tale norma, recepimento per il quale si sono spese sia la maggioranza di Governo sia
gruppi dell’opposizione e in particolare Forza Italia e la Lega. Il provvedimento non si limita ad adeguare

la situazione dei “super energivori” italiani a quella esistente in Germania e in altri grandi Paesi industriali
europei, ma allarga a una platea molto più ampia di imprese, a forte consumo di energia elettrica, le tutele
rispetto agli extra-costi delle rinnovabili che ricadono sul sistema industriale.
E infine, non certo per importanza, l’Interconnector.
Nella mia prima relazione da Presidente di Federacciai, nel maggio del 2012, ricordavo che la differenza tra
uomini e “quaquaraquà” sta nella capacità e l’orgoglio dei primi di rispettare la parola data e gli impegni
assunti. L’impegno di cui parlo è naturalmente la realizzazione, a esclusivo costo delle imprese energivore
italiane, delle linee di interconnessione fisica sulle diverse frontiere dell’Italia. E ciò come corrispettivo della
concessione anticipata in questi ultimi sette anni dell’Interconnector virtuale.
È evidente a tutti che realizzare linee di interconnessione elettrica con l’estero aiuta alla costruzione di un
sempre più largo ed efficiente mercato unico europeo dell’energia con conseguenti grandi vantaggi non
solo per le industrie energivore, ma per tutti i consumatori (la cosiddetta “signora Maria”).
Il tema rilevante era riuscire a concettualizzare e a costruire il finanziamento del primo Interconnector fisico,
quello sulla frontiera con la Francia, per un costo dell’opera pari a 415 milioni di euro, con il giusto equilibrio
tra equity e debito e con un costo del debito sopportabile per le imprese coinvolte.
Si è trattato, credetemi, di un lavoro complicatissimo, durato anni, prima con la composizione dei consorzi
settoriali e del consorzio dei consorzi, poi con la costruzione di un finanziamento senza ricorso sui soci che,
come tutti i finanziamenti di questo tipo, ha presentato complessità economico-finanziarie e giuridiche
estreme.
Si è trattato di un lavoro molto impegnativo anche sul fronte istituzionale e amministrativo, con diversi
provvedimenti di legge, atti amministrativi del Governo, approvazioni europee.
Alla fine, meno di due mesi fa, siamo riusciti a concludere l’accordo tripartito Interconnector Italia (cioè
noi), Terna e banche finanziatrici. Si tratta di un finanziamento dell’importo complessivo di oltre 461 milioni
di euro, tra linea principale, linee per Iva e garanzie, sorretto da una equity di 160 milioni di euro già tutta
versata prima dell’erogazione del finanziamento dalle 80 imprese energivore consorziate.
Consentitemi, anche in questa occasione, di ringraziare tutti quelli che hanno lavorato su questo
importantissimo dossier: innanzitutto il Mise e Terna che, in particolare nelle persone della dott.sa Sara
Romano del Mise e dell’ing. Luigi Michi di Terna, sono stati interlocutori di fondamentale importanza; gli
Uffici dell’Autorità dell’Energia che, in questo caso, ci sono stati vicini e poi il consorzio di banche che
erogherà nei prossimi giorni il finanziamento composto da BEI, Cassa Depositi e Prestiti, Unicredit, Intesa
SanPaolo e Natixis; infine i nostri advisor Lazard, Paul Hastings e Nando Pasquali che in questi anni di duro
lavoro hanno condiviso con noi la fatica e la soddisfazione di portare in porto un progetto così difficile. Last
but not least, come si dice, un ringraziamento al professor Massimo Beccarello, alla guida della direzione
energia di via dell’Astronomia, che in tutti questi anni ci ha fornito il suo prezioso, costante e sapiente
supporto.
Ci attendono, a proposito di Interconnector, nuove sfide in un futuro relativamente prossimo. Terna e il
Governo italiano spingono per l’avvio di un progetto congiunto Austria-Montenegro. Affronteremo il
tema con il pragmatismo di sempre, forti dell’aver dato prova di serietà e credibilità con l’avvio del primo
progetto e anche consci che per essere sostenibili i progetti devono avere in sé un soddisfacente equilibrio
economico-finanziario.

Il rottame

Ci siamo occupati in questi anni di un altro fattore fondamentale per la nostra industria e cioè il rottame,
siamo il Paese che ha il tasso di utilizzo del rottame più alto in Europa, che ben materializza, insieme al
riutilizzo degli altri sottoprodotti siderugici, il concetto di economia circolare, principio cardine della
sostenibilità e simboleggiato dalla trottola e del suo segno ricorrente nel rapporto di sostenibilità del
settore che vi è stato distribuito.
Dopo molti anni di confusione nei quali, non si sa perché, molte procure e i NOE hanno continuato a
considerare il rottame come rifiuto, sequestrando carichi ferroviari, bloccando navi ai porti, creando
difficoltà di ogni genere alle acciaierie, finalmente, anche in Italia, si è preso atto delle normative europee
che definiscono il rottame end of waste o materia prima seconda e le cose si sono normalizzate.
È necessario, anche in questo caso, continuare l’opera di convincimento presso i nostri fornitori perché il
settore si industrializzi sempre di più e la qualità del rottame fornito sia sempre più omogenea allo standard
europeo. È nostro interesse rendere il mercato del rottame in Italia sempre più aperto, trasparente e
competitivo.
Sarà uno sforzo impegnativo perché si deve partire innanzitutto del fatto che l’Italia è “corta” di rottame,
cioè ne consuma più di quanto ne produce. Questa situazione di shortage da un lato obbliga a costose
importazioni e dall’altro alza il prezzo del rottame interno il cui differenziale con il resto d’Europa
è costantemente dimostrato dalle statistiche. In aggiunta a ciò, nonostante una struttura del mercato
frammentata sul lato dell’offerta (commercianti e raccoglitori) e più concentrata sul lato della domanda (le
acciaierie), il potere contrattuale è tutto spostato sul lato dell’offerta a causa dei costi altissimi di fermata
del ciclo produttivo siderurgico e quindi del conseguente obbligo dei produttori di acciaio a comprare
comunque e sempre la materia prima necessaria (il rottame appunto). Ciò implica una permanente
asta al rialzo dove le acciaierie si contendono a colpi di prezzo lo scarso rottame disponibile e dove, di
conseguenza, gli offerenti (i rottamai) hanno quasi sempre la meglio.

I contenziosi aperti

In questi anni ci siamo dovuti occupare, purtroppo, anche di altri contenziosi che hanno colpito il settore e
le sue aziende.
Il contenzioso più grave e recente è quello relativo a rilievi che l’Autorità antitrust ha mosso nei confronti
delle aziende produttrici di tondo per cemento armato.
Il fatto sconvolgente degli ultimi mesi è che l’Autorità Antitrust ha considerato la partecipazione delle imprese
agli Osservatori dei prezzi del prodotto finito delle Camere di Commercio (una partecipazione istituzionale,
pubblica e dovuta per legge) come una prova della costituzione di un cartello e ha pesantemente sanzionato
le imprese stesse.
Come minimo, qui c’è un aspetto istituzionale – che è chiaro come il sole – sul quale Governo e Parlamento
dovranno mettere mano al più presto, perché evidentemente non è possibile che la partecipazione a
riunioni camerali previste per legge sia considerato un fatto illegale.
Ma c’è anche un elemento di merito tanto più assurdo e inaccettabile e che attiene alla professionalità e
alle reali conoscenze dell’Antitrust. Infatti, anche con riferimento ai prodotti finiti, il reale funzionamento
del mercato, quello che si può rilevare con semplici osservazioni sul campo è ignorato o non compreso.
Tutti quelli che si occupano di tondo per cemento armato sanno bene che si tratta di un mercato super
competitivo, nel quale non solo si registra la continua asta al rialzo per l’acquisto della materie prima

rottame che, come dicevo poc’anzi, viene strappato con le unghie e con i denti da un’acciaieria all’altra, ma
anche l’altrettanto furibonda competizione tra i produttori a valle per la vendita del prodotto finito, una vera
e propria asta al ribasso, causata dall’eccesso di offerta disponibile (più che tripla rispetto alla domanda
interna di tondo da cemento armato drammaticamente crollata negli ultimi anni) e dalla solita maledizione
a produrre sempre per non avere altissimi costi di fermata.
La riprova di ciò è che tra le migliaia di acquirenti e consumatori di tondo da cemento armato in questi anni
non c’è mai stato uno che si sia lamentato della situazione; ovviamente perché la situazione stessa gioca a
loro favore è il mercato è come si dice in questi casi “del compratore”.
Le dichiarazioni di un’impresa in liquidazione che evocando un presunto cartello probabilmente ha cercato
di attenuare le proprie responsabilità in una crisi aziendale grave non possono costituire l’elemento chiave
di un’indagine e di un provvedimento così devastante per le imprese.
In questo contesto assurdo la vera prova, la “pistola fumante” del cartello sarebbe per l’Antitrust
rappresentata dal fatto che le imprese produttrici di tondo da cemento armato, pur in presenza di una
caduta così significativa di mercato negli anni, sarebbero riuscite a sopravvivere mantenendo margini
leggermente positivi.
La bravura che consente di non fallire anche in situazioni difficili, fatta di buon management, di ricerca di
efficienze ovunque possibile, di drastico taglio delle spese generali, di riduzione dei costi dell’energia, di
innovazione di processo e di prodotto, di tutto ciò che insomma costituisce prova della buona gestione ed
è la realtà di quanto avvenuto non viene minimamente presa in considerazione dall’Autorità Antitrust.
Al contrario viene elaborato un teorema astratto, che immagina un mercato astratto, imprese astratte e
una totale non considerazione del management e delle sue capacità. Questo sta nella testa dei burocrati
dell’Antitrust. E non dobbiamo parlare di cultura anti-impresa?
Si tratta di un teorema cervellotico, privo di qualunque riscontro effettuale, contro il quale le imprese si
difenderanno davanti al Giudice Amministrativo, convinte che la verità dei fatti finalmente sarà riconosciuta.
Ancora una volta si pone il problema delle Autorità indipendenti nel nostro Paese, (non è soltanto il caso
dell’Antitrust, ma anche ad esempio dell’Autorità dell’Energia) spesso non dotate di tutte le conoscenze
necessarie per svolgere bene il loro lavoro, spesso soggette ai ideologismi e a pulsioni e pregiudizi antiindustriali,
spesso durissime con i privati e assai meno con la macchina dello Stato, spesso deboli con i forti
e forti con i deboli, come dimostrano molte vicende recenti tra cui quella più eclatante è quella dell’up
lift elettrico che coinvolge le due Autorità. In questo caso l’Autorità Antitrust ha chiuso senza sanzioni
un procedimento per abuso di posizione dominante di un grande produttore elettrico che ha proposto
all’Autorità una remediation contrattuale per il futuro. Le aziende siderurgiche hanno proposto nel corso del
procedimento di cui si tratta un istituto analogo ai sensi di legge e se lo sono viste rifiutato.

Le situazioni di crisi

In questi sei anni, ci siamo infine occupati di punti di crisi della siderurgia italiana e lo abbiamo fatto non solo
perché in queste crisi erano coinvolti nostri associati, ma anche perché abbiamo ritenuto e riteniamo che
sia responsabilità politica e sociale di Federacciai aiutare, con le nostre esperienze, conoscenze e relazioni,
i decisori politici e istituzionali nella ricerca delle soluzioni e delle vie di uscita alle crisi.
Innanzitutto la vicenda dell’Ilva, che ci ha visto impegnati in una battaglia di principio a difesa del più grande
stabilimento siderurgico d’Europa, di un asset strategico per l’economia italiana e per tutta l’industria della
trasformazione del metallo che è una delle grandi eccellenze della manifattura del Paese.
Si è trattato anche di una battaglia di principio a difesa della proprietà privata, contro i commissariamenti
fuori dall’ordinamento, a difesa di una grande famiglia imprenditoriale come i Riva, che ha investito
enormemente nell’Ilva e di cui rifiutiamo la “damnatio memoriae”.
Si è trattato, anche in questo caso di una battaglia durissima, in cui per lunghi periodi siamo rimasti soli in
campo, nella quale abbiamo dovuto combattere ignoranza, pregiudizi ideologici, accanimenti giudiziari
mai sanzionati (se non da un’esemplare sentenza della Corte Costituzionale), strumentalizzazioni di tutti i
tipi di chi voleva in realtà una cosa sola: chiudere l’Ilva di Taranto.
Non ci siamo fatti intimorire e siamo andati avanti chiedendo soprattutto al Governo e ai suoi Commissari di
ricostruire rapidamente la normalità della gestione aziendale, di ripassare il più rapidamente possibile l’Ilva
alla gestione privata, l’unica in grado di garantire nel breve e nel lungo periodo il tanto evocato equilibrio
tra sostenibilità ambientale e sociale e sostenibilità economica.
Abbiamo sempre indicato nella costruzione di una compagine societaria forte finanziariamente e
managerialmente l’elemento chiave per rendere credibile il salvataggio dell’Ilva.
Dopo cinque anni da quel terribile luglio 2012 e dal quel commissariamento che abbiamo sempre
considerato e consideriamo un esproprio senza indennizzo, e una macchia giuridica sulla reputazione
internazionale del Paese, si è arrivati finalmente, con molto ritardo, che ha causato un’enorme distruzione
di ricchezza, all’individuazione di un soggetto a cui affidare questo complesso aziendale così importante.
Si tratta come sapete di AM Investco Italy, soggetto che vede la compresenza del più grande produttore
siderurgico del mondo, Arcelor-Mittal, e del più grande consumatore di coils del mondo, l’italiano, nostro
associato Gruppo Marcegaglia.
Salutiamo la nuova compagine azionaria che riprenderà l’Ilva, augurandoci che si completi al più presto
il complesso iter sociale, ambientale e di autorizzazione europea che consentirà alla compagine stessa
di riprendere l’Ilva. Così come ci auguriamo di averla, al più presto, come è logico che sia, tra i soci di
Federacciai. Così come vogliamo salutare l’importante ruolo giocato in questa vicenda dall’altro grande
siderurgico italiano e nostro associato, il Gruppo Arvedi, che, con i suoi alleati, si è impegnato fino all’ultimo
per costruire un’alternativa credibile alla cordata Mittal-Marcegaglia, in una logica di sana e trasparente
competizione.
Conclusa la fase dell’asta competitiva ci auguriamo, come detto, che si proceda il più rapidamente possibile
nell’interesse di tutti, ma in particolare di quello dei lavoratori dell’Ilva e di tutte le aziende dell’indotto qui
rappresentate dal Presidente dell’Associazione Industriali di Taranto, l’amico carissimo Vincenzo Cesareo.
Un’Ilva di Taranto che riparte e ritorna a essere uno degli stabilimenti siderurgici più importanti del mondo
sarebbe per l’Italia, oltreché fondamentale dal punto di vista della forza del nostro apparato industriale, uno
straordinario elemento di marketing internazionale.
In questi anni ci siamo occupati anche di Piombino. Anche in questo caso, per molto tempo siamo stati soli
a dire che la siderurgia non è un mestiere che si improvvisa e che programmi mastodontici come quello
proposto dall’algerino Rebrab sarebbero stati difficilmente fattibili per siderurgici esperti figuriamoci per
quello che a tutti gli effetti è apparso come un principiante privo di credibilità.
Non siamo stati ascoltati e qualcuno ci ha addirittura tacciato di disturbare i pubblici incanti solo perché
sollevavamo dubbi sulla credibilità del personaggio e proponevamo una soluzione industriale basata sui
soli laminatoi, allora sdegnosamente rifiutata.
Come è andata è sotto gli occhi di tutti. Se non vi fossero 2000 posti di lavoro in ballo saremmo quasi tentati
di fare una dura polemica sottolineando che “noi l’avevamo detto”. Ma, di fronte alla gravità della situazione
che vede appunto coinvolti 2000 lavoratori e le loro famiglie, fare ciò ci sembra del tutto inopportuno.
È molto più importante e pressante ricostruire sul nulla di questi anni. Il progetto deve essere realistico
dal punto di vista siderurgico nel senso che la dimensione degli investimenti deve essere compatibile con
dei ritorni fattibili e non immaginari, articolato dal punto di vista economico, nel senso che vanno pensati
progetti seri di parziale riconversione con attività non industriali, e infine, ultimo ma non per importanza,
socialmente sostenibile.
Bisogna al più presto procedere, come consentito dalle carte, alla risoluzione del contratto con Rebrab e
passare a una nuova asta competitiva. Non è possibile consentire ad un inadempiente di speculare sulla
sua posizione cercando un partner a cui chiedere più soldi di quelli che fino a oggi sono stati investiti
dall’algerino a Piombino.
Federacciai è a disposizione per un confronto serio su questi temi, con tutti gli interlocutori coinvolti, a
condizione che si cessi con l’incredibile accusa che è stata la “galassia del nord” a impedire che il progetto
Rebrab prendesse la luce, perché pure questo ci è toccato sentire in questi anni.
Di tutte le vicende di crisi, l’unica che finora si è chiusa senza la perdita di un solo posto di lavoro come
giustamente e orgogliosamente la FIOM di Brescia rivendica, è quella di Stefana. Sulla vicenda di Stefana
occorre riflettere e imparare perché può essere un modello importante a cui ispirarsi anche se bisogna
essere consapevoli che, in qualche modo, la soluzione è stata facilitata dal fatto che ci troviamo in provincia
di Brescia e cioè nel territorio siderurgicamente più importante d’Italia e con un tessuto economico ricco di
imprese e opportunità.
Quali sono gli ingredienti di questa formula vincente?
— intanto il ruolo svolto da importanti aziende siderurgiche (Feralpi, Alfa Acciai, Duferco) che si sono fatte
carico, anche con progetti di parziale riconversione, di tre stabilimenti del gruppo con i loro lavoratori;
— la riconversione logistica del quarto stabilimento quello più importante in corso di realizzazione da
parte di un grande gruppo della distribuzione italiana;
— un Sindacato pragmatico e non ideologico che, pur nell’inevitabile distinzione di ruoli, ha evitato la
contrapposizione e ha sempre cercato negli imprenditori siderurgici degli interlocutori con i quali
affrontare la crisi.

L’organizzazione, i servizi e i numeri di Federacciai

Da ultimo, ma non certo per l’importanza del tema, ci siamo occupati di tenere la nave di Federacciai in linea
di galleggiamento anche dal punto di vista organizzativo, dei servizi e dell’equilibrio dei conti. Anche questa,
credetemi non è stata un’operazione facile. Ci siamo trovati, all’inizio della mia Presidenza, a causa della crisi
dell’Ilva, con una riduzione del nostro budget di quasi il 30%.
In tre anni, ristrutturando la nostra organizzazione cercando di non peggiorare il livello di servizio, siamo riusciti
a riportare i conti in equilibrio. Chi verrà dopo di me troverà i conti in ordine e con la nuova contribuzione
dell’Ilva avrà la possibilità di fare investimenti che noi, giocoforza, non siamo riusciti a fare.
L’operazione di ristrutturazione di cui si è detto è riuscita anche e soprattutto grazie alla dedizione e alla
disponibilità del personale di Federacciai. Mi sia perciò consentito di ringraziare a nome mio e di tutti Voi i nostri
dipendenti, primo fra tutti il Direttore Flavio Bregant che è stato per me, in questi sei anni, un collaboratore
preziosissimo e leale.

Conclusioni

Mi avvio velocemente alle conclusioni di questa forse troppo lunga relazione (ma l’avevo dichiarato…).
L’Italia, insieme all’Europa e al resto del mondo, dopo quasi dieci anni di una durissima crisi, sta vivendo una
fase di ripresa della crescita che sembra consolidarsi.
Tale fase è certamente conseguenza della positiva congiuntura internazionale, ma anche di alcune linee di
indirizzo, di alcuni provvedimenti assunti dal Governo Renzi e dal Governo Gentiloni che vanno nella direzione
giusta. Cito i due più importanti ed emblematici il Jobs Act e Industria 4.0 perché hanno rilanciato le due
variabili chiave di ogni economia: occupazione e investimenti/innovazione.
Non bisogna gettare al vento questa fase di ripresa con una campagna elettorale lacerante piena di parole
invece che di progetti e programmi. Bisogna continuare al contrario con forza con provvedimenti giusti e fatti
concreti come potrebbero essere seri provvedimenti a favore dell’occupazione giovanile e il rifinanziamento
del 4.0.
Nel 2013, e davvero concludo, parlando a questa Assemblea, con dietro di me le gigantografie di Roberto
De Miranda, Luigi Lucchini, Steno Marcegaglia e Emilio Riva, a cui oggi vorrei aggiungere idealmente quelle
di Giancarlo Beltrame e di Andrea Pittini, tutti recentemente scomparsi, ricordavo che i nostri padri non erano
uomini di molte parole, ma uomini di molte opere. Ricordavo che questi pionieri erano stati tra gli artefici della
ricostruzione italiana del secondo dopoguerra e i fondatori a livello mondiale della moderna siderurgia dei
cosiddetti mini-mill.
Questi uomini, i vostri nonni, e ora parlo alla terza generazione, quella dei nostri figli, che ormai in molti casi
opera già dentro le nostre aziende e prima o poi ne prenderà la guida, questi uomini ci hanno insegnato la
dote principale del buon imprenditore: fare succedere le cose, trasformare le idee in progetti e i progetti in
realtà.
Lasciatemi dire che a quell’insegnamento ho cercato di attenermi, non solo nel mio lavoro quotidiano di
imprenditore, ma anche in quello svolto in questi sei anni di attività al vostro fianco come Presidente protempore
di Federacciai.
Voglio ringraziarvi tutti per il sostegno e l’aiuto che mi avete dato in ogni momento e per la forza che mi avete
trasmesso e che è stata determinante per la mia Presidenza. Io ce l’ho messa tutta. Spero di non avervi deluso.
Che Dio benedica l’Italia e l’acciaio italiano. Grazie a tutti!














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