AAA: posto di lavoro cerca personale “digitale”

di Marco Scotti ♦ Si chiama data scientist ed è una delle posizioni che già ora sono tra le più ricercate sul mercato dei nuovi lavori. Ma nel nostro Paese per diventarlo non esistono percorsi professionalizzanti. E così per tante altre competenze, anche se si    intravede qualche cambiamento. I dati del Forum dell’Economia Digitale di Facebook e dei Giovani Imprenditori di Confindustria

«Come Facebook non possiamo fare altro che notare come l’allarme più grande che vediamo in Italia sia la mancanza di specializzazione e formazione. E, soprattutto, sulla difficoltà di creare una futura massa di persone capaci di venire incontro alle rinnovate esigenze di mercato». Luca Colombo, country director di Facebook Italia, lancia il suo grido di allarme attraverso Industria Italiana. Non è certo una novità, ma sentire un colosso che sta crescendo in maniera esponenziale – ha ormai superato i 2 miliardi di utenti attivi – lamentare la carenza di competenze nel nostro paese dovrebbe far drizzare le antenne non soltanto ai giovani, ma anche alla politica che dovrebbe trovare il modo di rispondere ai bisogni del mondo del lavoro.

Ci sono 280.000 posizioni specializzate richieste dalle imprese che da qui a cinque anni non troveranno una copertura. Basterebbe questo dato per far capire come la digital transformation in Italia non possa progredire senza uno sforzo congiunto che coinvolga anche gli atenei e le scuole a più alto contenuto tecnico perché formino i professionisti di cui c’è bisogno in questo momento storico. «Una delle figure più ricercate nel mondo anglosassone – ci spiega Luca Colombo – è quella del data scientist. In Italia però, con qualche sporadica eccellenza, non esistono percorsi professionalizzanti per offrire queste competenze ai giovani. Questo però non è soltanto un problema del nostro paese: alcuni colleghi che lavorano nel quartier generale di Facebook mi hanno raccontato che ci sono anche persone che si “reinventano”, proveniendo dalla finanza o dalla biologia.







Senz’altro ci sono dei lavori che, per caratteristiche, consentono di essere “convertiti”, ma  piuttosto  bisogna cercare di capire quali possano essere le competenze necessarie che devono essere trasmesse ai nostri giovani. Da questo punto di vista, poiché è difficile immaginare il futuro a cinque anni data la rapidità con cui avvengono i cambiamenti, è necessario insegnare quelle soft skills, come il lavorare in team o la capacità di comunicare in maniera efficace. Tutti aspetti che in Italia sono ancora carenti, e gli anglosassoni ci stanno mettendo in difficoltà da questo punto di vista».

 

Al FED: a dx Luca Colombo, country director di Facebook Italia, a sx Alessio Rossi, presidente dei Giovani Imprenditori di Confindustria

 

La formazione universitaria

Qualcosa però si sta muovendo. Basti pensare che negli ultimi due anni accademici il numero degli iscritti a corsi di studio di ambito digitale è aumentato del 6,8%, contro il 2,8% dell’intera area scientifica. Questi, come altri dati, sono emersi durante la terza edizione di FED, il Forum dell’Economia Digitale ideato da Facebook e Giovani Imprenditori di Confindustria. Secondo i dati Censis, l’Italia è in una fase di lento recupero del ritardo rispetto all’estero, come dimostrato dall’aumento del 52% negli ultimi cinque anni di figure ad elevata qualificazione, che hanno così raggiunto quota 234.000 (sulle 755.000 unità impiegate nel settore ICT).

 

Students
In aumento il numero degli iscritti ai corsi di studio in ambito digitale nelle università italiane

Gli istituti tecnici

Un focus particolare, poi, andrebbe posto anche sugli ITS, gli istituti tecnici che troppo spesso vengono visti con “sospetto” dai genitori, come delle scuole di serie B che, invece, consentono ai giovani che li frequentano di avere un’occupazione stabile e sicura in nove casi su dieci. «Lo stiamo dicendo in tutte le lingue – ci racconta Alessio Rossi, presidente dei Giovani Imprenditori di Confindustria – le materie scientifiche in questo momento sono più utili per trovare un posto di lavoro, le aziende hanno bisogno di quelle competenze, abbiamo chiesto di aumentare gli investimenti sugli ITS e cerchiamo di stimolare i ragazzi verso quelle materie che sono ricercate dalle imprese.

Il governo deve fare qualcosa per incentivare gli investimenti negli istituti tecnici professionalizzanti, perché oggi sono ancora visti come un’istruzione poco qualificante, mentre invece fanno trovare lavoro a circa l’89% degli usciti dagli istituti entro un anno dal diploma. D’altronde, se in Germania c’è oltre un milione di diplomati provenienti da quelle scuole, in un paese dalla forte tradizione manifatturiera, vorrà pur dire che non c’è nulla di svilente nell’affrontare un tipo di scuola come questa». È necessario, dunque, abbandonare l’idea dell’operaio che svolge un lavoro umile in un ambiente malsano: oggi la fabbrica 4.0 è un concentrato di tecnologia e di innovazione in cui vale la pena di misurarsi.

 

Il 70% delle Pmi ritiene le competenze digitali più importanti di un titolo di studio rilasciato da un ente blasonato

Le Pmi

L’investimento sul digitale continua a rappresentare in questo momento un asset strategico per la crescita delle imprese italiane, consentendo loro di partecipare all’economia globale in maniera più efficace. I dati Censis mostrano come, nonostante i gap da colmare in termini di digitalizzazione, le imprese digitali italiane si stanno muovendo per stare al passo con l’Europa, passando da 95.400 a 113.000 negli ultimi cinque anni, in aumento del 18%. In particolare, decollano le imprese che operano nell’e-commerce, che sono raddoppiate nell’arco di sei anni passando da poco meno di 9.000 a oltre 17.400. Le prospettive, d’altronde, sono particolarmente interessanti: si stima che nei prossimi due anni ci sarà un incremento di fatturato pari a 3,8 miliardi di euro, che porteranno il giro d’affari complessivo a 71,4 miliardi.

«In un paese in cui le Pmi rappresentano circa il 90% delle imprese, è diventata ormai una priorità mettere a conoscenza gli imprenditori di quelle che sono le migliori opportunità per migliorare il proprio business e cogliere le opportunità della sfida digitale – ci spiega Colombo – Una sfida che, come Facebook, ci vede investiti di una grande responsabilità e in cui vogliamo giocare un ruolo da protagonisti. È necessario uno sforzo congiunto di tutti, imprese, istituzioni e mondo della scuola, per investire nelle competenze digitali, indispensabili, oggi più che mai, per la crescita dell’intera società. I numeri impongono una forte accelerazione per formare figure specializzate e colmare il divario con gli altri paesi».

Il cambio di prospettiva da parte delle piccole e medie imprese c’è e si avverte. Basti pensare che il 70% di esse ritiene le competenze digitali più importanti di un titolo di studio rilasciato da un ente blasonato. «Gli imprenditori – aggiunge Alessio Rossi – hanno colto da tempo la sfida del digitale, partita con il piano Industria 4.0, che ha riattivato gli investimenti e ammodernato il nostro sistema industriale e i processi produttivi. Adesso è necessario sostenere questa strada lavorando sulle competenze digitali che sono il nuovo alfabeto dell’evoluzione e devono interessare tutti i settori d’impresa. Il digitale è un’enorme opportunità per le aziende, anche quelle della old economy. Infatti, ci impegniamo da sempre per promuovere la cultura del digitale e dell’innovazione in tutto il paese, non solo verso gli imprenditori ma anche nelle istituzioni scolastiche per sensibilizzarle alla messa a punto di ITS e corsi universitari adeguati ai bisogni delle imprese».

Decreto dignità

A margine del FED c’è stato anche il tempo di discutere con i due padroni di casa, Colombo e Rossi, sul Decreto Dignità, uno dei primi atti del nuovo governo che potrebbero cambiare in maniera profonda il mercato del lavoro. «C’è – spiega il Country director di Facebook – la necessità di avvicinare maggiormente le esigenze delle imprese a quanto fatto dalla politica. Ci sembra che al momento queste due realtà rimangano ancora distanti».

Decisamente più critico il giudizio di Alessio Rossi. «Si tratta – ci racconta – di un ritorno al passato perchè in questo modo rischiamo di ingessare quello che magari sarebbe semplice a causa dei nuovi decreti. Il Decreto Dignità fa sorridere perché inserire per decreto la dignità fa ridere, sembra un ritorno al passato, aumenta i costi dei contratti a tempo determinato, non vedo nulla che possa aiutare le aziende. Poteva andare anche peggio visti gli annunci, si chiedeva di inserire il giustificativo per tutti i contratti a tempo determinato, ora solo dal primo rinnovo in poi. Ma vedere aumentare i costi dei contratti a tempo determinato senza diminuire il prezzo di quelli indeterminati, non fa che peggiorare la situazione per le aziende, evantaggi non ne vedo. Siamo d’accordo sulla parte dei contributi pubblici per le aziende che delocalizzano, su quello perché i benefici di questi investimenti devono restare nel nostro paese. È stato però aumentato da 3 a 5 anni il periodo minimo di permanenza nel nostro paese. Diciamo che siamo al limite massimo, perché oggi i piani industriali non vanno oltre questa soglia. Nel complesso, però, mi sarei aspettato di più».














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