Il risk management può essere una risorsa per l’industria

Risk manager

di Bruna Rossi ♦ Una ricerca del Politecnico di Milano-Mediobanca spiega perché un sistema di risk management produce valore.

Le aziende che hanno un sistema di gestione dei rischi hanno una redditività superiore del 38% rispetto a quelle che non lo fanno. E’ questo il principale risultato di una ricerca, la quarta, condotta dall’Osservatorio di Cineas, il Consorzio Universitario del Politecnico di Milano che lavora per la diffusione della cultura del rischio e per la formazione di professionalità specializzate, in collaborazione con Mediobanca. La ricerca ha analizzato 280 imprese italiane con un fatturato medio di 60 milioni di euro e un numero medio di 156 dipendenti, in cui la quota di export ammonta al 45,5%. Gestire il rischio dovrebbe essere un’esigenza sempre più pressante in un mondo caratterizzato da incertezze sempre maggiori, dal terrorismo, agli eventi climatici estremi e dalla rivoluzione industriale 4.0 che pur rappresentando una grande opportunità e sicuramente anche una bella sfida. Eppure la percezione degli imprenditori non sempre dà loro ragione di questi elementi di criticità. Così solo il 17,2% di essi opta per una loro gestione integrata, ed è quella quota che può vantare la maggiore redditività del mercato, contro un 45,9% che gestisce il rischio in modo segmentato. Il resto si divide tra chi sta valutando di applicare una qualche politica di gestione del rischio (19,2%) e chi non ha alcun interesse al riguardo, almeno per il momento (17,2%). “Non possiamo dire che si tratti di una relazione di causa/effetto”,  ha spiegato nella sua presentazione della ricerca Gabriele Barbaresco, dell’Ufficio Studi Mediobanca. “Ma di certo c’è una correlazione forte tra gestione integrata del rischio e Roi”. E questo dovrebbe bastare a far drizzare le orecchie. Che non avvenga è un problema e lo sarà sempre di più. “Un altro indizio della gestione approssimativa e non organica di queste problematiche sta nella scelta delle risorse a cui affidare il compito: per il 47,2% a consulenti e risorse interne, per il 28,8% a interni e assicurazioni ma per un irriducibile 22,3% solo a risorse interne. Per lo più è l’imprenditore o l’ad a occuparsene (quasi nel 62% dei casi), il direttore amministrativo nel 26% quasi dei casi. Mi chiedo se sia la figura adatta a parare i colpi delle crisi”, aggiunge Barbaresco.







Fonte: Mediobanca
Fonte: Mediobanca

Le tre trappole

Gli imprenditori sono sensibili nell’ordine a tre tipi di rischio: gli obblighi normativi, come la sicurezza sul lavoro e la responsabilità civile per difettosità del prodotto; il rispetto della normativa fiscale e la cybersecurity. Alcuni passi in avanti ci sono stati. Come il fatto che il rischio reputazionale sia salito al quinto posto, aggiunge il manager, che appare coerente con la volontà di presidiare la qualità della propria produzione. “Un ulteriore indizio di questa attenzione alla qualità sta nell’ultima posizione di questa classifica, occupata dal rischio imitazione, di cui evidentemente, la nostra impresa non alcun timore”.

Anche l’analisi settoriale dimostra che la gestione del rischio ha funzionato da barriera di protezione nel periodo più duro della crisi. “Il settore alimentare è il più virtuoso nella gestione del rischio e anche quello che è rimasto solido nel corso degli anni, che è cresciuto come performance e come risultati. Così come il chimico farmaceutico e il meccanico. Relativamente arretrate risultano invece categorie merceologiche come i beni per la persona e la casa e la metallurgia”, spiega Barbaresco.

“Ci sono altre criticità ecumeniche, per esempio il 77% delle imprese vive con criticità il passaggio generazionale e quelle che hanno le migliori performance sono le aziende che hanno nel board persone della famiglia e manager”, precisa Adolfo Bertani, presidente di Cineas. In sostanza, “le aziende con una visione prospettica sono più pronte per affrontare gli imprevisti e hanno performance migliori”. Chi deve gestire i rischi di imprese? “Nelle compagnie di assicurazione si aprono ampi spazi di attività nel fornire servizi di consulenza alle medie imprese in questo settore se non lo lo faranno qualcun altro coglierà l’opportunità. Anche perché sembra che le medie imprese vogliamo finalmente investire. Lo faranno veramente?” si chiede Bertani.

Fonte: Mediobanca
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Nuovi pericoli

La domanda resta sospesa. Ma non potrà restarlo a lungo. Anche perché mentre le medie imprese arrancano per stare dietro ai rischi tradizionali se ne sono aggiunti di nuovi e più pericolosi. Come il terrorismo, che fa temere a un’impresa su tre per l’incolumità dei propri dipendenti, condizionandone la mobilità. E che per oltre la metà è un deterrente potente ai consumi, capace di avere un impatto deciso sulle vendite. Il 62% delle imprese inoltre è assicurato contro i rischi climatici estremi che preoccupano ancora una volta sul profilo commerciale. E poi c’è il filone tecnologico, inaugurato da industria 4.0: cambiare e virare al digitale, tanto che già oggi le imprese che hanno investito di più sono le più profittevoli – è vitale ma le imprese lo sanno? Parrebbe di no, vista la diffidenza che mostrano in generale verso forme di automazione che escludono l’intervento umano, la domotica, l’uso dei dreni, l’e-health e le stampanti 3D.  “Eppure le imprese che puntano sull’innovazione tecnologica mostrano performance economiche migliori”, chiosa Bertani.

“Si tratta di una sfida che fa aumentare i rischi oltre che di un campo ignoto che implica un cambiamento culturale”, secondo Andrea Dell’Orto, che oltre a guidare l’omonima azienda di sistemi di iniezione e componenti auto-moto è vice presidente di Assolombarda con due deleghe molto importanti, alle medie imprese e alla manifattura. “Non si può dire che il manifatturiero non sia in crisi”, prosegue Dell’Orto, “ha perso negli ultimi 20 anni l’11% di Pil passando dal 30% al 19% nell’Ue a 28, mentre nei Paesi emergenti è cresciuta dal 31 al 48% con la Cina che da sola fa il 27%. Ma è tuttavia ancora responsabile del 60% della crescita della produttività, del 65% delle spese di R&S e del 70% dell’export”. Quindi vitale per le nostre economie. Ed evolvere al 4.0 è un’esigenza che non si può rimandare oltre. Come si fa a gestire il rischio connesso? “Lo si deve fare in maniera attiva “, risponde Dell’Orto. “Noi come Assolombarda abbiamo fondato un Comitato Tecnico con imprese rappresentative che ci aiuta a essere concreti nella comunicazione con gli imprenditori”.

Fonte: Mediobanca
Fonte: Mediobanca

Obiettivo consapevolezza 

L’obiettivo è far crescere l’awarness. Solo dopo si passerà all’implementazione.  E la gestione attiva del rischio deve riguardare sia i processi esterni, come la comprensione delle opportunità e dei rischi contenuti in ogni Paese in cui si decide di esportare o di delocalizzare; sia i processi interni all’azienda. Che possono essere quelli già citati legati al passaggio generazionale o appunto quelli della rivoluzione in senso digitale. “Un tema di sicurezza che gli imprenditori giù percepiscono è quella informatica – dice ancora Dell’Orto – bisogna come non mai garantire la riservatezza delle informazioni e nel contempo la loro la disponibilità, mentre la mole aumenta”.

Parlare in termini concreti richiede che non si metta tutto sotto il cappello del risk management ma che si parli “di rischi specifici, individuali”, aggiunge Bertani. “E, dunque, si deve microsegmentare le aziende dal punto di vista merceologico, territoriale dimensionale: perché per ognuna di queste categorie si attivano dei pacchetti differenti di rischio”.

Qualcuno, però, non ha dovuto aspettare le iniziative istituzionali per dotarsi di un sistema completo di gestione del rischio. Tra le medie imprese, è il caso di Isagro che produce farmaci per uso agricolo, con 350 milioni di euro di fatturato e 600 dipendenti, di cui la metà in Italia. “Investiamo il 10% del nostro fatturato e il 15% del nostro organico in ricerca e sviluppo”, commenta Giorgio Basile, amministratore delegato dell’azienda e vicepresidente di Cineas. “Anzi, investiamo nella scoperta di nuove molecole che sono il nostro punto di forza ma che, in quanto media impresa, ci hanno creato anche tanti problemi”. Il campo di azione di Isagro è simile a quello della ricerca medica e i prodotti per arrivare sul mercato hanno un periodo lunghissimo di incubazione, tra i 10 e i 12 anni. “La gestione del rischio è fondamentale – continua Basile – il pacchetto di rischi evolve qualitativamente, se ne aggiungo di nuovi, ma anche quantitativamente, in quanto i vecchi non scompaiono. Noi abbiamo creato la figura del risk manager: perché è vero che quando sei malato devi andare dal dottore, ma al dottore devi anche saper dare le indicazioni giuste perché lui faccia una diagnosi corretta. Il risk manager conosce sfide e problematiche dall’interno e sa a quale specialista rivolgersi in caso di bisogno”.

Un esempio virtuoso anche nella pratica: “Dall’esperienza abbiamo imparato l’importanza del licencing per gestire il rischio connesso allo sviluppo in casa delle molecole: in due casi di eccellenza ci siamo trovati a sovraspendere e a sottoinvestire e non siamo riusciti a portare a termine la ricerca. La dimensione finanziaria e organizzativa conta: da tre anni diamo le molecole in licenza, conservandone la proprietà intellettuale e abbiamo trovato un modello che paga e abbatte il rischio”, conclude il manager.

Fonte: Mediobanca
Fonte: Mediobanca

 














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