L’Italia delle bioplastiche vale 1 miliardo di euro

Marco Versari, presidente di Assobioplastiche
Marco Versari, presidente di Assobioplastiche

di Laura Magna ♦ Un nuovo settore, ma soprattutto una differente visione dei modelli di business aziendali. Parla Marco Versari, presidente di Assobioplastiche.

Oltre 2 trilioni di euro e 18,3 milioni di lavoratori. Sono i numeri europei dell’industria della bioeconomia. Un mare magnum dentro cui entrano «cibo, mangime e beveraggi, che pesano per la metà del giro d’affari, ma anche chimica, plastica, farmaci, carta e prodotti collegati, cellulosa, tessile, biocarburante e bioenergia che contribuiscono per 600 milioni di euro», si legge in uno studio della Bio-based Industries Consortium (Bic), il consorzio di industrie private che in partnership con l’Ue spinge sullo sviluppo del settore.







Un’industria che ha già un peso importante in Europa e che è il fulcro della transizione verso un’economia circolare e sostenibile. Una transizione lenta, ma visibile. Per esempio, nella chimica, dove le lavorazioni bio pesano per il 6%.

Un mare all’interno del quale spicca il settore delle bio-plastiche e il business dei sacchetti compostabili che ne costituisce i due terzi. Tutti gli altri settori mostrano una grande varietà di prodotti diversi, ma la maggior parte di essi sono ancora piccoli in volume. Secondo gli esperti del nova-Institute, un centro di ricerca tedesco indipendente, il mercato dei prodotti di plastica compostabile e biodegradabile è cresciuto fino a 100mila tonnellate nel 2015, e potrebbe crescere fino a oltre 300mila tonnellate nel 2020, se il quadro normativo dovesse essere impostato più favorevolmente.

Lavorazione di plastica bio alla Novamont
Lavorazione di plastica bio alla Novamont

Le euroregole

L’Europa ha emanato una legge per ridurre il numero di sacchetti monouso nel 2015 e l’Italia, recependola per prima nel proprio ordinamento nazionale, è diventata grazie al bando della plastica leader nei sacchetti compostabili.

Secondo i dati della società di ricerca Plastic Consult, la filiera italiana vale 400 milioni di euro, ma siamo ancora lontani dalla saturazione. Quasi il 60% delle buste in circolazione non è, infatti, ancora conforme alla legge: quel 60% rappresentato dai piccoli negozi di prossimità su cui i controlli non ci sono. In Francia, dove la grande distribuzione la fa da padrona, la legge si sta occupando di far sostituire i tradizionali sacchetti in plastica per la frutta e la verdura con materiale rinnovabile. In Germania il sistema di gestione della raccolta differenziata in essere non ha ancora consentito invece il pieno sviluppo e la diffusione dei prodotti compostabili. «Si tratta di declinazioni diverse dello stesso problema», precisa a Industriaitaliana.it Marco Versari, presidente dell’Associazione di categoria italiana, Assobioplastiche, fondata nel 2011 e a cui sono affiliate in Italia 40 aziende, «e ogni Paese ha la sua soluzione. In ogni caso le bio-plastiche nascono per rispondere a un’esigenza: che in Italia è quella del trattamento della frazione organica nella raccolta differenziata. La sola filiera italiana può raggiungere rapidamente il miliardo di euro. Abbiamo lavorato molto bene sulle leggi ma non sul loro rispetto e questo vale in particolare per la raccolta differenziata: ci sono regioni che raggiungono il 70% e altre che non arrivano al 10%. Il grande problema di questo Paese che non riesce a fare rete dentro di sé. E dunque non corriamo alla velocità a cui potremmo correre». E correre potremmo davvero, visto il livello e la quantità di primati che possiamo vantare.

Identikit

A questo punto è necessario aprire una partentesi su Assobioplastiche, che come si è detto è stata costituita a Roma nel 2011 su iniziativa di vari soggetti. Tra i soci ci sono produttori di materie prime, come M&G Polimeri Italia spa, secondo gruppo chimico italiano, e Novamont spa. Figurano, inoltre, produttori di manufatti, distributori di bioplastiche e l’Associazione che rappresenta il mondo del compostaggio (Consorzio Italiano Compostatori). Assobioplastiche è un’associazione trasversale, che associa sia i produttori di materie prime, sia gli utilizzatori industriali, sia vari consorzi. Anche a causa di questa sua particolare natura, non fa parte del sistema Confindustria, che invece è organizzato per filiere produttive omogenee. Quasi tutti i suoi soci, però, sono inseriti in varie organizzazioni territoriali e settoriali del sistema Confindustria.

Novamont, produzione di biopolimeri
Novamont, produzione di biopolimeri

Moderare le parole

«Attenzione però alle mode», dice il presidente di Assobioplastiche, «il prefisso bio viene usato anche in maniera non corretta e può essere limitante. In generale per bioeconomia si intende l’economia circolare, in cui prodotti siano utilizzati e riutilizzati il più possibile e il rifiuto diventa prodotto a sua volta». L’attenzione al fine vita è il discrimine per capire se l’innovazione è solo un’etichetta o reale cambiamento. Qualche esempio può chiarire i confini del campo. Un’applicazione delle bioplastiche diversa da quella dei sacchetti è nei teli per la pacciamatura agricola, che spesso invece di essere smaltiti correttamente sono bruciati sul terreno, con grave danno per l’ambiente. «Teli realizzati con bioplastica verrebbero degradati da microrganismi», spiega Versari, «e sarebbero un’ottima applicazione della bioeconomia. Che non è un gioco da comunicare, ma è una rivoluzione per risolvere i problemi di gestione del fine vita e di dare luogo a nuovi modelli di produzione. Il ruolo della politica è fondamentale in questo processo».

Un altro esempio virtuoso di bioeconomia è l’utilizzo della frazione organica che, prima di diventare compost, può essere usata per fare fermentazioni, come materia prima di un altro processo industriale. O, ancora, virtuoso è l’utilizzo delle fonti rinnovabili di energia, che possono essere coltivate, al posto delle fonti fossili accumulate in ere geologiche e destinate a finire. «Questa precisazione è fondamentale. Non basta decidere di fare biocarburanti per essere fautori della bioeconomia: se disbosco tutto il mondo per fare bioetanolo o biodiesel non lo sto facendo bene», continua Versari. «Se invece utilizzo terreni marginali con culture autoctone, in un territorio dove non si sta coltivando in quel momento e creo ricchezza, sto facendo bioeconomia: in sintesi, sto usando fonti rinnovabili in modo intelligente senza creare scompensi e senza entrare in competizione né con la catena alimentare umana né con quella animale».

Marco Versari, presidente di Assobioplastiche
Marco Versari, presidente di Assobioplastiche

La forza del destino

Non sempre, meglio dire quasi mai, questi processi avvengono in maniera lineare o programmata. Spesso si tratta di effetti di riconversioni industriali in cui l’ecologia, almeno in una prima battuta, c’entrava poco. Com’è nel caso di Novamont, un’azienda che nasce da Ferruzzi, il più grande gruppo agroindustriale d’Europa, che a un certo punto si è chiesto perché non usare le materie prime delle sue produzioni, fondamentalmente zuccheri, per fare altro. Nel frattempo si era unito con la Montedison e arrivò l’occasione di coniugare chimica e alimentare nella produzione di biodiesel e bioplastiche: le seconde che si sono rivelate fondamentali per aiutare la città di Milano a risolvere il problema della raccolta differenziata. Grazie ai sacchetti in bioplastica compostabile messi a punto da Novamont, infatti, è stato risolto il problema della gestione integrata di rifiuti e della necessità di trattare la frazione organica. Le storie di successo casuale, all’italiana, sono diverse. C’è quella di Ecozema, di Schio, in provincia di Vicenza, esempio di riconversione industriale. L’azienda veneta faceva mollette per i panni prima in legno, poi in plastica, servendosi di presse a iniezione. Le stesse macchine che ora usa per fare posate: e il cambiamento è avvenuto quando alcuni comuni del Veneto che avevano iniziato la raccolta dell’umido hanno iniziato a domandare posate biodegradabili da smaltire insieme alla frazione organica. Dal Veneto alla fornitura delle Olimpiadi di Londra del 2012, le prime no waste, il passo è stato breve. Ancora, ci sono storie di business dati per spacciati e invece rinati grazie al bio: come quella dell’Industria plastica toscana (Ipt) di Scarperia che era fallita e che, rilevata da una cooperativa di operai, è diventata l’azienda che fa la più grande produzione di buste della spesa in bioplastica. E spesso sono le industrie a maggior intensità di capitale, le più inquinanti, a dare luogo all’innovazione circolare: è il caso di Beta Renewables, spin-off di uno dei maggiori gruppi italiani della chimica, i produttori di pvc Mossi&Ghisolfi, che fa bioplastica a partire dalla canna di fosso che cresce spontaneamente sulle rive degli stagni.

Capsule in giardino

Ma non c’è solo chi ha la plastica nel core business. Alla bioeconomia appartengono anche nomi come Lavazza, che ha iniziato a produrre capsule compostabili e fa la comunicazione sia sul prodotto sia sull’imballaggio, fattore non banale, a indicare come questo impegno sia vissuto come un vantaggio competitivo. O emergenti come Funghi Espresso che utilizza i fondi del caffè come base per i suoi kit per la coltivazione dei funghi in casa. «Idee come questa nascono perché c’è la raccolta differenziata della frazione organica qualche anno fa queste cose erano impensabili. E lo stesso deve avvenire nel cicli produttivi più disparati», aggiunge il presidente di Assobioplastiche. Perché la bioeconomia sia realmente compiuta non basta fare la plastica usando materie prime naturali ma bisogna servirsi di ogni parte e di ogni scarto di tutte le lavorazioni industriali. «Se coltivo una pianta e dal suo seme ricavo un’olio», spiega Versari, «posso usare la parte solida, il panello, come base per la nutrizione degli animali. In Sardegna ci sono 1,5 milioni di abitanti e 3,5 milioni di animali, che consumano 140mila tonnellate che oggi importiamo regolarmente da Argentina e Usa da coltivazioni Ogm. Quindi, dalla stessa coltivazione posso ricavare da un lato l’olio per alimentare impianti produttivi come raffinerie, dall’altra il panello proteico non Ogm per nutrire il bestiame. Domani cellulosa per altri processi produttivi ancora». Ecco la bioeconomia: mettere in rete tante tecnologie e conoscenze e tante parti, dall’agricoltura all’università per fare prodotti diversi. Complessità, non semplificazione.

Telo bio per pacciamatura
Telo bio per pacciamatura













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