4.0 vede il ritorno della consulenza strategica

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La pipeline 2024 in termini di operazioni annunciate, ma non ancora finalizzate, risulta piuttosto rilevante aggirandosi intorno ai 40 miliardi di euro di controvalore

di Filippo Astone ♦ A breve, l’industria affronterà cambiamenti radicali, veloci, rischiosi. I consulenti al suo fianco, per reggere il passo, dovranno volare più alto, coniugando pensiero strategico e governo efficiente dell’operatività. Ne parliamo con Michele Parisatto, capo della consulenza di KPMG in Italia

Velocità, incertezza, elevato rischio. Il 2017 che si apre per le aziende italiane appare denso di opportunità, ma anche di incognite. Le nuove tecnologie di vario nome e colore (l’elenco completo, che parte da Industry 4.0 e comprende un sacco di voci, lo risparmiamo ai lettori di Industria Italiana che lo conoscono benissimo) aprono opportunità, ma anche tanti rischi. All’orizzonte si intravedono nuovi affari, certo, ottime chances di crescita per chi investe sulle innovazioni azzeccate ai tempi, ma anche la concreta possibilità di venir fatti rapidamente fuori da un concorrente con la app giusta e del quale si ignorava l’esistenza fino a pochi giorni prima, facendo la fine di Kodak, Nokia, Lambretta, Moto Marelli e altre aziende del tempo che fu.







Il mondo veloce, e anche “disruptive”, come amano dire gli americani, è complesso e rischiosissimo. Una specie di Far West, per alcuni aspetti simile a quello della Prima Rivoluzione Industriale, senza tetto ne legge. E’ paradossale: più di 300 anni di tecnologie per ritrovarsi in una situazione  analoga a quello della prima rivoluzione industriale. All’interno del quale i capi azienda sono soli. Già. Soli.

Michele Parisatto
Michele Parisatto

Questo scenario, che più avanti esporremo nei numeri, è il punto di partenza di una conversazione di Industria Italiana con Michele Parisatto, il numero uno della consulenza di KPMG in Italia, che parte da qui per proporre un ripensamento del ruolo del consulente, dal lato della domanda come dell’offerta. «Io credo», ci dice Parisatto, «che si debba ritornare alle strategie, alle visioni lunghe, alle domande veramente importanti su che cosa deve fare un’azienda, pur continuando a gestire l’operatività quotidiana. Solo così sarà possibile far fronte al cambiamento che ci investe tutti. E che i CEO non possono affrontare da soli». Per Parisatto, «nel futuro che ci attende a breve termine prevarranno modelli di impresa a rete, con geometrie variabili particolarmente complesse. Stare al passo di tutto ciò sarà difficile. E i capi azienda, per riuscirci, dovranno essere affiancati da consulenti strategici particolarmente capaci».

Bisogna dedicare tempo ed energie all’analisi dei trend.

Nella maggior parte delle aziende italiane, in particolare quelle con un giro d’affari inferiore ai 500 milioni di euro, l’analisi dei trend viene affrontata il più delle volte in maniera non sistematica con «innamoramenti o approfondimenti molto verticali» per dirla con Parisatto, spesso perdendo di vista il contesto più generale. Invece «le aziende devono tornare a pensare un po’ più in modo alto. Non può più bastare qualche ritocchino all’efficienza, o la ricerca della riduzione dei costi per garantirsi i ricavi».

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Questa necessità in parte emerge dai servizi di consulenza erogati. Secondo i dati Feaco (l’associazione di categoria europea delle società di consulenza), negli ultimi anni la consulenza strategica ha generato il 22% dei ricavi del settore, pari a quelli in ambito Finanza&Rischi e People&Change. Una tendenza che sembra destinata a continuare.     Dunque una certa consapevolezza si fa strada fra gli imprenditori italiani. «Il problema semmai», ci dice ancora Parisatto, «che non ci sono veri consulenti strategici perché la più parte si è data alla consulenza operativa. Ambiti di ricerca più ambiziosi sono necessari a stimolare la riflessione sui modelli di business, ma soprattutto permettono di ‘alzare la testa dai desk’ per leggere eventi non probabili oggi, ma domani sicuramente in essere.»

I CEO sono preoccupati di non riuscire a far fronte al cambiamento

Ecco perché bisogna tornare alla consulenza strategica. L’impressione è che i CEO siano disorientati a causa della velocità, dell’ampiezza e della profondità dei cambiamenti. Un disorientamento che non mette le ali alle loro menti: l’87% di loro, come emerge dalla “CEO Outlook Survey 2016” di KPMG, ritiene di non avere tempo o risorse per decifrare la complessità dei fattori di cambiamento in azione.

In relazione a questo dato Parisatto aggiunge: «Nelle aziende viene dedicato molto tempo nella gestione dell’ordinaria amministrazione. Pur con le dovute eccezioni, il modus operandi largamente applicato è quello di poco dedicarsi al pensiero strategico e molto più orientarsi ad affrontare i problemi operativi che si presentano day-by-day. Mentre oggi la vera sfida manageriale è quella di riuscire a coniugare approccio strategico di medio lungo termine con la gestione dell’operatività quotidiana».

Da qui deriva la necessità, secondo KPMG, di un ritorno alla consulenza strategica, tendenza che necessariamente dovrà consolidarsi nell’immediato futuro. Eppure, prosegue Parisatto, «Meno di un terzo dei CEO di aziende del settore tecnologico intervistati da KPMG ritiene di essere molto preparato a sostenere opportunità e rischi». Se poi si entra nelle pieghe delle singole problematiche aziendali, così come le osserva questa punta avanzata dei CEO, risulta evidente quanta strada si debba ancora fare e in fretta. Qualche esempio? Nelle aziende che fanno capo ai “più preparati” la visione strategica complessiva attorno alle tecnologie è pari al solo 32%; la collaborazione fra area business e area technology è solo del 26%. Addirittura, nell’agenda del consiglio di amministrazione, la rilevanza delle tecnologie emergenti trova posto solo per il 30%.

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Non è difficile immaginare la situazione in quelle aziende dove i CEO siano poco o nulla preparati.
«Tra i problemi principali, ci sono le competenze che cambiano e che vanno innovate. Per le imprese italiane i principali gap riguardano l’ambito tecnologico e dell’innovazione: cyber security, data&analytics, digitalizzazione del business. Ma in molte aziende familiari -dice Parisatto – ci sono anche deficit di competenze in materia più tradizionali come la Finanza e la Governance. Inoltre, nel 2020 il 35% della forza lavoro globale sarà costituita da Millennials, cioé giovani nati alle soglie del 2000, una generazione che ha caratteristiche assai diverse da quelle di coloro con cui sono tradizionalmente abituati a confrontarsi i capi azienda di oggi. La nostra generazione, quella che sta gestendo le cose ora, aveva chiaro che lavorando molto, magari sacrificando aspetti più personali e famigliari, avrebbe raggiunto qualcosa. Oggi i Millennials ragionano diversamente, per loro la necessità di bilanciare tempo di vita e tempo di lavoro è irrinunciabile, anche a costo di sacrificare denaro e carriera.

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Questo è un esempio dei temi con cui dobbiamo confrontarci da un punto di vista culturale e psicologico. Facciamo fatica a entrare in contatto con chi usa un linguaggio diverso dal nostro, e le esigenze dei Millenials cambieranno anche il modo di fare business, oltre che il mercato del lavoro». Tutto questo ricorda una citazione di Albert Einstein. «La creatività», ha scritto il grande fisico, «nasce dall’angoscia come il giorno nasce dalla notte oscura. E’ nella crisi che sorgono l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera sé stesso senza essere superato. Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e disagi, inibisce il proprio talento e dà più valore ai problemi che alle soluzioni. La vera crisi è l’incompetenza».

I principali cambiamenti: il KPMG Global CEO Outlook Survey 2016.

Ma quali cambiamenti attendono i capi azienda? Li ha individuati, la seconda edizione, targata 2016, del Global CEO Outlook Survey di KPMG. Si tratta un progetto di ricerca globale condotto dalla multinazionale della consulenza KPMG in 28 Paesi su un campione di circa 1.300 amministratore delegati di imprese con fatturato superiore a 500 milioni di dollari, attive in undici settori chiave dell’economia. In Italia sono stati intervistati 50 amministratori delegati, che hanno fornito il proprio punto di vista su trend e prospettive del business sull’orizzonte temporale del prossimo triennio.

Dalla ricerca emerge come, nei prossimi tre anni, tutte le aziende, e le vite delle persone che ci lavorano, saranno attraversate da un cambiamento radicale e veloce, praticamente repentino, o “disruptive” come amano dire gli americani. Insomma, a causa della tecnologia, della globalizzazione e di altri fattori, nel mondo dell’economia produttiva ci sarà un “prima” e un “dopo” il 2020.

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Consapevolezza e urgenza del cambiamento.

E’ questo il messaggio principale che emerge dai risultati della ricerca, questa è la vera priorità nell’agenda dei CEO. Solo le aziende in grado di gestire repentini e improvvisi cambiamenti riusciranno a continuare a crescere e competere. I CEO riconoscono che le proprie organizzazioni per crescere in queste fasi di forti discontinuità devono essere in grado di guidare il cambiamento, ma non c’è ancora una visione chiara sulle strategie da adottare. Dall’indagine emerge inoltre che quasi la metà (41%) dei CEO conta di poter trasformare le proprie aziende in organizzazioni significativamente differenti nei prossimi 3 anni. Una percentuale considerevolmente maggiore rispetto ai risultati del sondaggio 2015, quando solo il 29% dei CEO condivideva questa opinione. L’Italia sembra allineata su questa consapevolezza strategica e sull’importanza di gestire la business transformation (38% del campione italiano).

Per stare al passo del cambiamento ci vogliono strategie di trasformazione aziendale.

Per esempio, l’implementazione di tecnologie molto innovative, piani di recruiting mirati per assicurarsi le competenze necessarie e la collaborazione con altri player del mercato. La velocità, l’ampiezza e la profondità dei cambiamenti richiedono abilità uniche, tecnologie d’avanguardia e capacità forward looking.

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Un concetto importante: stare da soli non è più possibile.

Realisticamente nessuna azienda può avere tutti questi attributi dell’innovazione contemporaneamente. È per questo che molti CEO puntano su joint-ventures, collaborazioni, accordi e alleanze, soprattutto con start-up e università, per creare nuovi ecosistemi che abilitano le creazione e la gestione del cambiamento (50% dei CEO del campione globale). Gli accordi di collaborazione e le partnership sono ritenuti il percorso più efficace per assicurare il giusto ritorno d’investimento per gli azionisti. Questo è particolarmente vero per i CEO italiani che vedono nella costituzione di alleanze e partnership uno dei principali acceleratori della crescita (52% dei CEO italiani intervistati). I ‘modelli d’impresa a rete’ richiedono però una grande capacità di gestire ecosistemi complessi e, in uno scenario in cui i confini tra ciò che è dentro e fuori l’azienda diventano meno definiti, un atteggiamento dell’imprenditore open minded e non protettivo o proprietario. Per l’Italia si tratta di una vera e propria rivoluzione culturale!

Comunque prevale la fiducia.

Nonostante lo scenario complesso, la gran parte degli amministratori delegati è pronta a gestire le sfide con una buona dose di realismo e fiducia. L’89% degli intervistati è ottimista sulle prospettive di crescita della propria azienda e l’86% è positivo anche sull’andamento economico del paese in cui l’impresa opera. In Italia, gli amministratori delegati intervistati sono ancor più positivi: il 96% confida che la propria azienda crescerà nei prossimi 3 anni.

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Le preoccupazioni principali dei CEO, in Italia e nel mondo.

La maggioranza degli intervistati ammette di trovarsi davanti ad una serie di criticità inedite, mai affrontate prima. Tra le preoccupazioni principali troviamo:

– la fidelizzazione dei clienti (88%)
– gli impatti della globalizzazione (88%)
– la mancanza di risorse per affrontare strategicamente l’innovazione ed il cambiamento (87%)

I CEO delle aziende italiane sembrano, invece, più preoccupati di garantire servizi/prodotti in linea con l’evoluzione della domanda (per il 98% dei rispondenti).  Un elemento di preoccupazione che nell’opinione del campione italiano potrebbe rallentare il business è anche il peso della regolamentazione (per il 92%).

Le priorità strategiche per il prossimo triennio in cima all’agenda dei CEO sono:

– favorire l’innovazione (21%)
– comprendere meglio le esigenze dei clienti (19%)
– implementare la tecnologia più innovativa (18%)

Il confronto con l’Italia rivela interessanti elementi di differenza. In particolare i CEO italiani sono focalizzati sulla riduzione dei rischi reputazionali (una priorità per il 26% degli intervistati), sul miglioramento dei KPI e sulla gestione dei talenti.

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La tecnologia sta al cuore di ogni trasformazione.

La tecnologia riveste un ruolo rilevante nei piani di trasformazione dei CEO. I CEO vedono nelle innovazioni tecnologiche un fattore chiave di accelerazione del progresso, in particolare il 18% sostiene che l’implementazione di tecnologie più innovative e disruptive sarà una delle priorità in agenda. Molti di loro sono anche preoccupati per gli impatti sul mondo del lavoro della quarta rivoluzione industriale caratterizzata dall’integrazione tra cognitive computing e intelligenza artificiale. Secondo alcuni CEO, l’impatto sarà dirompente: occorrerà pianificare percorsi di carriera e di apprendimento per supportare i dipendenti in questa fase di trasformazione. Altri, invece, sono più aperti pensando alle opportunità connesse con i momenti di discontinuità.














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