Family business del nordest fra manifattura e innovazione

family Nord Est

Di Filippo Astone e Marco De Francesco ♦ Quali sono le best practices e gli strumenti finanziari più adatti, nel Paese delle aziende familiari, a gestire il passaggio generazionale? Regole chiare per i patti di famiglia e  minibond. Il punto di vista dei giovani imprenditori

Non solo lo sviluppo, ma anche l’esistenza stessa del manifatturiero del Belpaese dipendono, in buona sostanza, da due fattori. Il primo è la capacità di stare al passo coi tempi, imboccando con fiducia la strada della digitalizzazione; il secondo è gestire con oculatezza il passaggio generazionale, che è una delle principali cause di estinzione delle aziende. Perché il tessuto industriale italiano è costellato di padri fondatori e vecchi leader, e di famiglie i cui destini sono intrecciati a quello delle imprese che hanno portato avanti.







Nel momento cruciale, quello del trasferimento di strutture materiali, competenze di gestione e know how da una generazione all’altra, l’assenza di piani di successione (in un contesto in cui l’azienda si identifica con il nome del fondatore) comporta immediati problemi di governance, che si traducono rapidamente nel rallentamento dell’attività e che possono mettere a repentaglio la vita stessa dell’azienda. Occorre definire con largo anticipo gli obiettivi di proprietà, di governo e di gestione della famiglia controllante. E rafforzare la convergenza tra gli obiettivi della proprietà e quelli del management, pur segnando una profonda linea di demarcazione tra le funzioni di chi possiede e quelle di chi governa.

Family continuity

Non è così semplice. Inoltre, se l’idea è quella di stabilizzare la proprietà, nel contesto di orizzonti di lungo periodo; e se incombe il pericolo di una ulteriore contrazione del tradizionale mercato del credito, occorre riferirsi a strumenti alternativi di finanziamento, come i minibond, che peraltro l’anno scorso hanno riscontrato un buon successo tra le PMI della manifattura. Se ne è parlato giorni fa a Cortina d’Ampezzo, al Work Cafè “Family continuity: tra padri, figli e patrimonio, le scelte giuste per gestire le aziende di famiglia”, organizzato da Banca Finint a margine del 30esimo meeting dei giovani imprenditori del Nordest (organizzati, nell’occasione, in gruppi di discussione) e condotto dal direttore di Industria Italiana, Filippo Astone.

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La sede del “Work cafè” organizzato da Banca Finint

Finanziaria Internazionale (Finint), fondata nel 1980 da Enrico Marchi ed Andrea de Vido, occupa 750 persone. Nel 2014 Finint ha rafforzato le proprie strategie di sviluppo del business nei settori dell’investment banking & asset management con la nascita di Banca Finint. Nel 2016 si è costituito in via ufficiale il Gruppo Banca Finanziaria Internazionale con Banca Finint nel ruolo di capogruppo. Il Gruppo opera con sede a Conegliano (Treviso) e uffici a Milano, Roma, Trento e Mosca, impiegando circa 300 persone nelle aree di attività del private banking, del corporate finance, del private equity, della securitisation, della finanza strutturata in via principale.

Enrico Marchi
Enrico Marchi, fondatore Finint e Presidente di Banca Finint

Le aziende familiari in Italia

Anzitutto, uno sguardo alle aziende familiari. Secondo l’Associazione Italiana delle Aziende FamiliariAIdAF – «in Italia si stima che siano circa 784mila – pari ad oltre l’85% del totale» censite tra quelle obbligate a depositare il bilancio. Non tutte sono piccole: il 40,7% delle 300 imprese più grandi del Paese integrano il modello familiare. Ma quelle non minuscole non sono tantissime. Secondo l’ultimo focus dell’Osservatorio AUB, infatti, le aziende a controllo familiare con un fatturato superiore a 20 milioni sono 10.391, pari al 65,4% di quelle di pari dimensioni. Di queste , 4.242 hanno un fatturato superiore a 50 milioni di euro e 6.149 tra i 20 e i 50 milioni. Secondo l’Osservatorio quelle di medie e grandi dimensioni continuano a mantenere un gap positivo di redditività operativa (8,6% nel 2015, contro il 7,5% delle imprese non familiari) e lo stesso avviene anche nelle aziende di piccole dimensioni (8,8% contro il 7%).

La percentuale di aziende con ROI (indice di redditività del capitale investito) negativo è (quasi) tornata ai livelli del 2007. Si riscontra, sempre secondo l’Osservatorio, il gap positivo di redditività netta in favore delle aziende familiari di medie e grandi dimensioni (7,9% contro 5,7% delle imprese non familiari) ma anche in favore di quelle piccole (10,3% contro 6,9%). L’incidenza delle aziende con ROE (indice di redditività del capitale proprio) negativo è inferiore a quella del 2007. Solo il 4% delle aziende familiari con fatturato tra i 20 e i 50 milioni e solo il 3% di quelle con fatturato superiore a 50 milioni presentano un Ebitda (margine operativo lordo) negativo.

Sempre secondo l’Osservatorio, a partire dal 2013 ha iniziato a ridursi il gap tra le aziende familiari e quelle non familiari in termini di capacità di ripagare il debito. Nel 2015 il fenomeno riguardava il 5,2% delle familiari e il 4,9% delle non familiari. L’incidenza dei debiti bancari sul fatturato resta tuttavia elevata: il 18,5% per le aziende familiari con fatturato tra i 20 e i 50 milioni e il 19,1% per quelle con fatturato maggiore di 50 milioni.

L’Osservatorio AUB ha peraltro individuato 556 aziende con fatturato superiore a 20 milioni di euro (esattamente: 349 con fatturato tra 20 e 50 milioni di euro; 106 tra i 50 e i 100; 53 tra i 100 e i 250; e 48 con più di 250) che mostrano performance economico-finanziarie superiori alla mediana del proprio settore con riferimento a tre indicatori, riferiti al periodo 2008-2014: Compound annual growth rate (tasso annuo di crescita composto, un indice che rappresenta il tasso di crescita di un certo valore in un dato arco di tempo); ROA (return on assets: un indice di bilancio che misura la redditività relativa al capitale investito o all’attività svolta); e debt-equity (rapporto tra l’indebitamento finanziario netto della società e il patrimonio netto).

Sono state prese in considerazione queste variabili: leadership: familiare versus manager non familiare; apertura del CdA a consiglieri non familiari: 100% familiare versus almeno 1 consigliere non familiare; generazione del leader aziendale: prima versus successive; età del leader: giovane (< 50 anni) versus non giovane (> 50 anni); dimensione aziendale: piccola (ricavi < 50 milioni) versus medio-grande (ricavi > 50 milioni).

In pratica dal Focus dell’Osservatorio Aub è emerso che «in prima generazione il fondatore favorisce il successo dell’azienda con qualsiasi modello di governance. Nelle generazioni successive solo l’apertura del CdA e della leadership, uniti alla giovane età del leader, favoriscono la crescita dell’azienda». Ciò si ricollega al problema del passaggio generazionale. Bisogna saper prendere delle scelte chiare, nette, capaci di infondere fiducia all’azienda. Va detto che in Italia secondo dati di AIDAF solo il 31% delle imprese familiari sopravvive al passaggio dalla prima alla seconda generazione e solo il 15% giunge alla terza.

Il work cafè ha funzionato così: i Giovani imprenditori, divisi in tre tavoli, si sono confrontati su temi specifici. Al termine, hanno pubblicamente riassunto le conclusioni.

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Un momento del Work Cafè “Family continuity”
Come si conquista la leadership

Il gruppo di lavoro sulla leadership, e cioè su come le giovani generazioni possono ottenerla, ha sintetizzato così quanto emerso: «Chi ha conosciuto l’azienda fin da piccolo, come tutti i presenti, è sempre stato considerato come il “piccolo di casa”; crescendo, ha trovato difficoltà a far valere le proprie idee e a conquistare la fiducia di dipendenti e collaboratori. Quindi, come si fa a superare tutto ciò? Senz’altro con le competenze e con il coinvolgimento delle persone. Così si ottiene autorevolezza.

Certo, uno degli scontro principali è quello con la vecchia generazione, e cioè chi vuole tenere in piedi i vecchi sistemi, mentre la nuova vuole avanzare o introdurre dei cambiamenti in azienda. Bisogna rendere partecipi gli esponenti della vecchia generazione delle proprie prospettive e della propria visione. Sono passaggi difficili ma necessari». Nel confronto che ha preceduto la sintesi era emerso che «i familiari sono sempre i più difficili da conquistare; con i dipendenti è più facile, perché si utilizza un linguaggio diverso. Tra i familiari occorrono regole ferme. E i familiari dipendenti vanno trattati come tutti gli altri dipendenti».

Patti chiari

Quanto al gruppo di lavoro sul passaggio generazionale, ha compendiato in questi termini la discussione interna: «Alla fine, la parola “chiarezza” è fondamentale. Se infatti questa non c’è o viene a mancare, c’è un problema importante. È meglio,dunque, fare chiarezza il prima possibile. Il tempo è un nemico, in queste circostanze. Per fortuna, esistono strumenti come il patto di famiglia e altri che consentono di definire una programmazione relativa al passaggio generazionale». Nel dibattito propedeutico alle conclusioni, un giovane imprenditore aveva reso nota la propria esperienza sul patto di famiglia: «Siamo quattro figli maschi. Con il patto, ognuno di noi ha rinunciato a qualcosa, ma si è fatta chiarezza su chi gestisce che cosa. Io mi occupo di questo, e un altro si occupa di altro. Il patto è stato scritto in base alle competenza maturate; a mio avviso va redatto quando le cose in azienda vanno bene».

Rispetto delle competenze

Infine, il terzo gruppo, quello sulla gestione dei rapporti familiari in azienda. «Le difficoltà non riguardano solo il rapporto tra padre e figli, ma anche tra fratelli. Anche all’interno della seconda generazione ci possono essere rapporti complicati. Occorre un serio confronto generazionale. D’altra parte, ognuno di noi ha delle conoscenze cui va attribuito valore. Peraltro, sbagliando si impara. Quindi, quando ciò accade, non devono venire meno le aspettative. Poi, per guadagnarsi la fiducia dei familiari, è meglio partire da nicchie operative, presentando progetti in cui si è protagonisti. Mostrarsi autonomi e indipendenti. Un modo per infondere fiducia e dimostrare di saper fare ottenendo risultati; così si acquista credito. È necessario poi riconoscere che ogni generazione dispone di proprie competenze, che vanno rispettate». Nel confronto era emerso che «il cambiamento in azienda non può avvenire dalla sera alla mattina». Con «studio, competenza e risultati, si può acquisire una maggiore leadership, ma occorrono almeno quattro o cinque anni per formarsi sui processi».

Il patto di famiglia

Il “patto di famiglia” è poi un contratto con il quale l’imprenditore (anche solo titolare di partecipazioni societarie) trasferisce, in tutto o in parte, ad uno o più dei propri discendenti in linea retta la sua azienda (o un ramo aziendale) o il suo pacchetto di partecipazioni societarie; al contempo, colui che ha ricevuto l’azienda in assegnazione dovrà liquidare le rispettive quote agli eredi legittimari dell’imprenditore. In effetti «la “stabilità” e “non aleatorietà” del trasferimento è funzionale ad agevolare il “passaggio generazionale” delle piccole e medie imprese — considerato quale obiettivo importante nel contesto del più generale fine della “competitività” del sistema imprenditoriale italiano — allo scopo di assicurare “continuità all’impresa” e “funzionalità futura” all’azienda, e di evitare la successiva “frammentazione del controllo”, che frequentemente si riverbera sull’efficienza della gestione imprenditoriale» (Gaetano Petrelli, Rivista del notariato, 2006).

Definire obiettivi e ruoli

Quanto al passaggio generazionale, secondo lo studio interuniversitario Analyzing Family Business Cases: Tools and Techniques” (Pramodita Sharma; Rania Labaki; Nava Michael-Tsabari) occorre, per il buon esito dell’operazione, definire anzitutto gli obiettivi di proprietà, di governo e di gestione della famiglia controllante, così come il suo coinvolgimento in ciascuno di questi aspetti del business. In secondo luogo, si deve organizzare un task group dedicato alla successione, individuando soggetti responsabili per la gestione del processo. In terzo luogo occorre impostare subito i criteri per la selezione del successore.

Ancora, occorre definire le strategie di sviluppo della carriera del successore, perché questi risulti preparato a dirigere l’azienda. Inoltre vanno precisati con chiarezza sia la linea temporale che il processo di transizione della gestione. Infine occorre ri-orientare i responsabili in pensione, nonché coloro che ambivano a funzioni di leadership. «A differenza di quanto accade nelle imprese non familiari, i membri della famiglia di controllo continuano ad essere parte della famiglia e quindi ad ingerirsi nell’attività, anche se non sono più attivi come leader dell’azienda. Quindi, è fondamentale garantire i ruoli post successione e piani di carriera per il leader aziendale in pensione».

Luciano Colombini
Luciano Colombini, AD di Banca Finint

Minibond fonte di finanziamento alternativa e complementare

C’è la questione di stabilizzare la proprietà, conferendo orizzonti di lungo periodo alla famiglia proprietaria. Dal 2008, a causa della crisi, gli impieghi delle banche hanno subito una netta contrazione, soprattutto con riferimento a famiglie e società non finanziarie. Si registra un calo nella crescita del comparto a medio lungo termine. «Il futuro delle banche tradizionali non sembra brillante – ha affermato nell’occasione Luciano Colombini, ad di Banca Finint -: nuove norme contabili, nuovi requisiti di capitale; e poi si vuole debancarizzare il sistema industriale, che in Italia dipende per l’80% dal credito bancario, contro una media europea assai minore».

In generale, secondo Colombini «tutte le banche pensano che faranno meno impieghi in futuro». Il fatto è che il mercato del credito è in contrazione. E un’inversione di tendenza è improbabile, visto che le nuove regole introdotte con Basilea 3 definiscono nuovi standard internazionali per l’adeguatezza patrimoniale delle banche e nuovi vincoli di liquidità. Come se ne esce? «Noi collochiamo minibond» – ha affermato Colombini. E i minibond sono strumenti alternativi di finanziamento (ogni minibond incorpora una frazione del finanziamento e può circolare autonomamente senza particolari restrizioni), che rendono disponibili risorse finanziarie a medio termine anche per nozionali significativi. Aiutano a superare il problema del “credit crunch”; e determinano la crescita culturale nonché l’evoluzione organizzativa dell’azienda dovute dall’apertura al mercato dei capitali.

Secondo il Terzo Report italiano sui mini-bond curato dall’ Osservatorio Minibond del Politecnico di Milano (febbraio 2017), che ha valutato 292 emissioni (di cui 245 sotto i 50 milioni di euro) effettuate da 222 imprese (di cui 104 PMI), «l’industria dei mini-bond ha confermato nel 2016 lo sviluppo costante iniziato nel 2012 in risposta alle difficoltà causate dalla crisi finanziaria e dal credit crunch. La crescita è proseguita nonostante il miglioramento delle condizioni di accesso al credito registrate nel 2016, confermando l’opzione del mini-bond quale fonte di finanziamento alternativa e complementare».

Una porta d’accesso al mercato dei capitali per le small e mid-cap

Quanto alle società emittenti «nel 2016 è raddoppiato il numero di emittenti con fatturato compreso fra 10 milioni e i 25 milioni di euro». Sempre in riferimento alle imprese emittenti, «il settore più rappresentato è quello delle attività manifatturiere (con 91 casi pari al 41% del campione), seguito dal gruppo ‘sistemi di informazione e comunicazione’ con 19 imprese (pari all’8,6%), seguono la fornitura di acqua con 16 imprese».

Chi emette minibond guarda al futuro. Come ha affermato in altra occasione Simone Brugnera, sempre di Banca Finint, «il mini-bond si sta caratterizzando sempre di più come la porta d’accesso al mercato dei capitali per le small e mid-cap: chi emette oggi aumenta la propria capacità di placement in futuro, quando le condizioni del sistema bancario potranno essere modificate rispetto alle attuali».

C’è un’altra buona ragione per emettere minibond. L’ha individuata in altra occasione Simone Dragone di Eidos Partners (citato nel Report del Politecnico): «Il crescente ricorso ai mini-bond da parte di piccole e medie imprese registrato nel 2016 potrebbe rappresentare un ulteriore impulso alla spinta innovativa che la strategia “Industria 4.0” comporta nonché chiaramente una sicura fonte per i relativi necessari investimenti, inclusi il rinnovamento tecnologico e la digitalizzazione del sistema manifatturiero».

Ma chi è il top arranger (la figura chiave dell’operazione, l’incaricato della vera e propria strutturazione del collocamento; quello che per conto dell’impresa emittente si interfaccia con il mercato dei potenziali investitori) in Italia? «Siamo in cima alla classifica» – ha affermato Colombini. Per il terzo anno consecutivo. In particolare, nel 2016 Banca Finint è leader incontrastato in termini di controvalore delle operazioni con collocamenti (131,6 milioni di euro), seguita da Mediobanca e da IDCM Limited / Foresight Group. Per numero di collocamenti Banca Finint è seconda, con 10 collocamenti, allo Studio Frigiolini & Partners Merchant con 15 operazioni short-term (11,45 milioni il controvalore).














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