Coronavirus ed economia di guerra: l’Italia punti su robotica, automazione e smart working

di Laura Magna ♦︎ Con perdita del Pil del 10%, la recessione è ormai una certezza. Il Cura Italia, confuso e a breve termine, non è nemmeno un primo passo. Serve un piano deciso per ripartire, che ricostruisca le filiere produttive seguendo nuove modalità di lavoro. Ne abbiamo parlato con Patrizio Bianchi, economista industriale

Nel culmine di una crisi che farà apparire pallida quella del 2008, c’è un enorme problema che i decisori non stanno affrontando: la gestione del dopo, in quello che sarà con ogni probabilità un nuovo paradigma produttivo probabilmente ancora difficile da immaginare. Ci saranno interi settori in profonda depressione (dal turismo, alla ristorazione, alla moda: con perdite che non potranno essere recuperate); filiere da ricostruire su logiche diverse da quelle degli ultimi venti anni, nuove modalità di lavoro che da temporanee diventeranno strutturali (il remote working per le funzioni corollarie delle produzioni e per i servizi); la robotica sarà un atout per garantire la business continuity e prenderà il sopravvento nelle manifatture.

È un tema politico: perché una strategia di politica industriale è quanto mai necessaria oggi. Lo sostiene Patrizio Bianchi, ordinario di economia industriale e già rettore dell’Università degli Studi di Ferrara. «Non appaia cinico: non intendo non onorare coloro che stanno affrontando un’emergenza sanitaria senza precedenti. Ma è oggi, allo zenit di questa crisi, che va elaborato un piano economico, se non vogliamo che questa emergenza sanitaria terribile ne chiami un’altra che ha conseguenze ugualmente profonde e nefaste sulla vita delle persone».







La recessione è ormai nelle cose. Se l’Ifo prevede per l’economia tedesca un calo tra il 7 e il 20,6% in base alla durata dell’emergenza per l’Italia le previsioni di calo tra il 3 e il 5% arrivate da Goldman Sachs e dalle diverse agenzie di rating nei giorni scorsi «non sono più realistiche», secondo Bianchi e «dobbiamo mettere in conto un calo del 10% almeno del Pil».

 

Urge una strategia di lungo periodo per l’economia

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Patrizio Bianchi, Ordinario di Economia Industriale all’Università di Ferrara

O peggio, se non si agisce in fretta e con un pensiero alla base. Il giudizio del professore sul modo in cui il governo italiano sta affrontando il dopo è impietoso. «Il Cura Italia non può essere considerato un primo passo, perché è un primo passo che non si sa in quale direzione porti. Se gli imprenditori non sanno cosa li attende, agiscono nella maniera peggiore possibile. Siamo tutti in attesa di capire e siamo certamente in una situazione inedita e mai vissuta prima. Ma se il governo fa continuamente interventi minimi, passetti, non si ferma e non stabilisce una strategia di lungo periodo, crea caos. Siamo in guerra, non si può proseguire un’azione per prove ed errori. Molta confusione credo sia determinata proprio da questa azione fatta un pezzo alla volta». Allora, in guerra, diventa necessario elaborare una strategia di attacco o di difesa di lungo periodo. «È stato preannunciato un intervento ad aprile che dovrebbe essere risolutivo per stabilire la ripresa delle attività. Ma se non si ha un’idea del dove si sta andando il rischio è che non si riesca a centrare l’obiettivo».

 

Il plus italiano della capacità di adattarsi

Certamente, non tutto è perduto. «Se c’è una cosa in cui l’Italia eccelle è la capacità di adattarsi: in questa situazione incertissima che però non è totalmente nuova, perché l’Italia era già gravemente in crisi, noi forse siamo quelli più resilienti». Secondo Bianchi questa capacità di adattamento straordinaria è dimostrata dal fatto che «fino a un mese fa la quota di corsi online somministrati a scuola e all’Università era pari zero e oggi tutti sono riusciti ad andare online. Inoltre anche tutte le aziende di servizio sono riuscite a proseguire l’operatività in smart working e tutte le aziende di ogni settore sono riuscite a mettere online tutte le attività non strettamente produttive». In questo modo è stato parato parzialmente il colpo che sull’economia italiana arriva dal fatto che essa dipenda da una forte presenza di manifattura (essenzialmente di macchine) e dall’export. «Questo fa sì che siamo particolarmente vulnerabili nel contesto attuale: il sistema produttivo dovrà battersi perché non si fermino del tutto i mercati e almeno nell’area euro sia possibile scambiare le merci: a questo deve lavorare il governo». Poi nel lungo periodo assisteremo a cambiamenti strutturali: «ci sarà un ridisegno di buona parte delle filiere produttive che avevano riferimenti fuori dal nostro Paese: molte delle produzioni che venivano fatte all’estero dovranno tornare a casa. Non vuol dire che si torni al passato: ma ci si dovrà attrezzarsi per capire quante di queste attività che erano andate in Cina, Vietman, India o anche solo in Bulgaria potranno tornare».

 

Sempre più robotica e smart working

Scenario 1: Due mesi, basse perdite di produttività. Fonte Ifo

«Le produzioni che saranno portate indietro dovranno essere competitive ma diventeranno sempre più automatizzate. Vanno eliminati tutti i rischi connessi alle produzioni ad alta intensità di lavoro. E questo si può fare in due modi: portando tutti i servizi a lavorare da remoto, comprese le funzioni aziendali non core delle manifatture, dalla finanza alle risorse umane e rendendo sempre più robotiche le manifatture. Non ritengo questa transizione impossibile, per quanto durissima. E non a vedo impossibile per due ragioni: la prima è la nostra capacità di adattamento già dimostrata e descritta, la seconda è che siamo leader assoluto nella produzione di macchine industriali e dunque non abbiamo tutto da insegnare al resto del mondo. Certamente, c’è bisogno di lucidità da parte del governo al di là dell’emergenza: lucidità che al momento manca e che sarebbe necessaria per dare orientamenti allo strato produttivo che sulle aspettative formula ipotesi di investimenti».

 

L’importanza di una politica industriale europea

Il ruolo pubblico è particolarmente importante e «tutto il fronte iperliberista che era contro l’intervento pubblico si è sgretolato: lo stesso Trump si fa portatore di una teoria che è opposta a quella che professava solo dieci giorni fa. Così Johnson e i mercati che hanno cambiato direzione all’improvviso auto-dichiarandosi tutti favorevoli all’intervento dello Stato. Ma il tema ancora una volta è sulla direzione di marcia. Perché se è vero che oggi lo Stato deve intervenire è importante stabilire in che modo rendere questo intervento sensato. Vale lo stesso discorso per l’Eurobond: che ha senso se dietro ci sono interventi che possano rilanciare l’economia e risolvere i problemi. Oggi, per esempio, usiamo tutti la rete ma non c’è un’impresa europea che possa agire sulla rete, che faccia concorrenza a Google, a Microsoft ad Amazon Web ad Alibaba. Non c’è un’azienda che produca in Europa i device, smartphone e pc, che stanno salvando tutte le attività che ancora sono operative. Comincia a essere rilevante il peso di scelte del passato evidentemente sbagliate. Un esempio su tutti: il sistema dei trasporti pubblici di Londra è gestito da Amazon web. Tutte le università e le scuole italiane sono attive grazie ai servizi di Google o su Zoom e Teamlink. È il momento di fare una riflessione seria anche su questo».

 

Non basta un intervento pubblico qualsiasi

Scenario 2: Due mesi, basse perdite di produzione. Fonte Ifo

Se la recessione è ormai nei fatti, il tema è ora uscirne. E se l’intervento pubblico sarà necessario, non sarà indifferente quale tipo di intervento pubblico si opererà. «Negli anni trenta si sono operate due strade: al di qua e al di là dell’Atlantico, il New Deal di Roosevelt, che ha portato a creare nel Tenneessee, particolarmente colpito dalla Grande Depressione, la TVA, ovvero la più grande azienda elettrica pubblica della nazione. La Germania hitleriana ha invece puntato sul riarmo su larga scala con un piano quadriennale finanziato con l’aumento della spesa pubblica. Due azioni simili nella logica, si tratta di due forme di intervento pubblico nell’economia, ma completamente diverse dal punto di vista morale e civile e degli impatti che hanno avuto sui territori e la popolazione. La scelta della strada da prendere per uscire dalla crisi non è banale ma dipende dalla visione che abbiamo e vogliamo perseguire come Paese e anche globalmente».

 

Un piano per ripartire

Le modalità e le tempistiche con cui usciremo dalla crisi dipenderà anche dalle decisioni e dalle azioni attuali: «nessuno dice che sia facile, ma chi prende decisioni ha il dovere di farlo con cognizione di causa e con la massima attenzione. Non è semplice chiudere un sistema produttivo e non è facile farlo ripartire: ci saranno imprese che avranno bisogno di mesi per riavviarsi. Banalmente ci sono impianti che devono rimanere sempre accessi, se no rischiano di poter più ripartire. La crisi produttiva durerà sicuramente di più di quella sanitaria. E ciò che è peggio è che è impossibile oggi stimare fallimenti e andamenti perché non abbiamo visibilità neppure sulla stessa durata del lockdown. Ma, tanto per fare un esempio, il settore dell’abbigliamento dovrebbe consegnare oggi le collezioni estive: se non vengono prodotte e vendute non si recuperano. Questo vuol dire che si sarà saltata una stagione e quante imprese possono permettersi di perdere una stagione quali che siano le agevolazioni? Il lockdown che non prende in considerazione le problematiche che riguardano la gestione complessiva può portare alla distruzione. Siamo ancora in tempo: nel colmo della crisi è necessario formulare l’ipotesi su come uscirne, per evitare che l’emergenza chiami emergenza. Ma senza dubbio, non possiamo non essere fiduciosi, altrimenti dovremmo rinunciare anche a immaginare una ripresa».














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