Cosa penso dell’industria. Parla Aldo Fumagalli

Aldo Fumagalli

di Filippo Astone ♦ Come si fa a fare politica industriale? Perché all’estero fare impresa è più facile? Che cosa si potrebbe (e dovrebbe) fare? Risponde Aldo Fumagalli Romario, classe 1958, ad della Sol, già vicepresidente di Assolombarda.

Periferia di Francoforte, 15 minuti in auto dal centro città. 22mila lavoratori (4000 dei quali impegnati in attività di ricerca e sviluppo) in azione per 90 multinazionali di 60 Stati diversi. Un tessuto urbano munito di 72 km di strade e 57 km di strade ferrate interne. 20mila container di merci prendono la via del mondo da qui. Investimenti per 4,8 miliardi di euro dal 2000 a oggi. Numeri che raccontano Industrial Park Hoechst (Iph), un vasto complesso in cui industria, ricerca, servizi convivono, insistendo su un’area di proprietà del gigante chimico Hoechst che in precedenza aveva un grande stabilimento nell’area, poi riconvertito efficacemente.







L’Iph è un esempio di riqualificazione di un sito produttivo. In Italia sarebbe diventato uno delle 57 ex fabbriche da bonificare, con spese enormi, anni di polemiche e nessun valore creato per la comunità. In Germania si è trasformato in una fonte di valore per la collettività, per i lavoratori, per le altre imprese e per la Hoechst stessa. Il parco industriale, sostenuto da un’intensa attività di marketing internazionale, è riuscito ad attirare aziende, tedesche e non, offrendo loro facilitazioni interessanti in settori che vanno dai servizi alla produzione, dalla logistica (tutta la catena del valore della chimica è presente in loco) alla ricerca e alla consulenza su pratiche burocratiche e autorizzazioni.

Aldo Fumagalli Romario (al centro), ad e presidente del Gruppo Sol, riceve il premio -Business Growth Award da Vic Annells (a sinistra) console e direttore generale di UK Trade & Investmente e Christopher Prentice (a destra), ambasciatore britannico in Italia
Aldo Fumagalli Romario (al centro), ad e presidente del Gruppo Sol, riceve il premio -Business Growth Award da Vic Annells (a sinistra) console e direttore generale di UK Trade & Investmente e Christopher Prentice (a destra), ambasciatore britannico in Italia

Permessi in quattro mesi

All’Iph insiste lo stabilimento tedesco della Sol, l’unica azienda italiana presente nel parco industriale. «Per noi si tratta di una piattaforma produttiva vitale e molto efficiente per servire il mercato tedesco. È uno degli investimenti recenti che ci hanno dato maggior soddisfazione», racconta Aldo Fumagalli Romario, numero uno della Sol, società chimica attiva nel settore dei gas. «Per poter realizzare lì un nostro stabilimento ci abbiamo messo appena quattro mesi, tra permessi, pratiche burocratiche e quant’altro. Tempi impensabili per l’Italia, dove il minimo richiesto, ma proprio il minimo, son due anni di tempo.» Per Fumagalli, all’Italia serve una politica industriale dotata di «Idee e strumenti per esprimere al meglio attrattività per gli investimenti.»

Parlare con lui ci fa vedere il tema della politica industriale dal punto di vista di un imprenditore consapevole, con un curriculum anche di attività associative e politiche. Vediamo chi è.

Aldo Fumagalli Romario, classe 1958, Presidente e Amministratore Delegato della Sol, società quotata e specializzata nel settore gas per usi industriali e sanitari, con oltre 670 milioni di euro di giro d’affari, 3000 dipendenti e 88 stabilimenti in 27 paesi. L’azienda appartiene alla sua famiglia insieme alla famiglia Annoni da tre generazioni. Ma quando il padre Giulio ne prese le redini, quasi mezzo secolo fa, Sol aveva solo un paio di stabilimenti per la fornitura di gas a cantieri navali, ed era localizzata in Toscana e nelle Marche. Giulio (insieme al fratello Ugo e a Renzo e Alessandro Annoni) ne ha fatto un leader di mercato in Italia e ha posto le basi per l’espansione internazionale. Aldo, il fratello Matteo e il cugino Giulio, insieme ai tre membri della terza generazione della famiglia Annoni, Marco, Giovanni e Filippo, l’hanno trasformata in una multinazionale, l’hanno quotata in Borsa e hanno sviluppato l’interessante business della produzione di gas e servizi per uso medicale a domicilio di 300mila malati in Europa. Aldo Fumagalli conosce il tema della politica industriale non soltanto perché è un imprenditore, ma anche perché è molto attento e appassionato alle tematiche pubbliche e associative. Nei primi anni Novanta, Aldo Fumagalli Romario ha conquistato la notorietà come presidente nazionale dei Giovani imprenditori di Confindustria, e subito dopo ha tentato l’avventura della politica da “tecnico”, quale candidato a sindaco di Milano per una lista dell’Ulivo. È stato vicepresidente di Federchimica (ancora oggi fa parte del comitato di presidenza dell’associazione) e numero uno della commissione per lo sviluppo sostenibile di Confindustria, nonché vice presidente di Assolombarda. Di politica industriale su scala europea se ne è occupato direttamente come presidente del Bac (Busi- ness advisory council), il comitato consultivo internazionale per promuovere la crescita economica e industriale dei Paesi dell’Europa sud-orientale. Per Fumagalli, le idee e gli strumenti per far sì che la politica industriale tiri fuori il meglio delle energie del sistema-paese, dovrebbero coinvolgere almeno otto ambiti: energia, territorio e ambiente, internazionalizzazione, mercato del lavoro, R&S e innovazione, credito, pubblica amministrazione, cultura d’impresa.

Domanda. Lei avrà misurato il tasso di cultura industriale in Italia. A che punto siamo?

Risposta. Una piccola storia personale la dice lunga sia sulla cultura di impresa sia sulla percezione che si ha delle politiche industriali. Nel 2002 abbiamo ottenuto la possibilità di realizzare uno stabilimento in una regione del centro Italia. Nel paese interessato ci sarebbero state ricadute positive in termini di posti di lavoro (almeno 20, tra diretti e indiretti) e anche di tasse locali. Eppure, si è rapidamente scatenata una posizione critica per la questione di un “impianto del gas”, come lo chiamavano allora. Io non amo nascondermi, e poi sono anche curioso, quindi ho voluto andare personalmente a discuterne nel corso di alcuni in- contri con la cittadinanza interessata. Durante uno di essi, un signore del posto mi ha detto: «Sì, il suo stabilimento mi piace e lei mi ha convinto che non sarebbe pericoloso. Ma resto comunque contrario.» Gliene chiesi le ragioni e lui serenamente mi rispose: «Perché a me non viene in tasca nulla.» L’opinione di quell’uomo, che non si rendeva conto dell’opportunità che questo investimento poteva rappresentare per lui e per i suoi figli (che potevano in futuro lavorare lì, ma anche godere indirettamente dei benefici del valore creato sul posto, con l’indotto e tutte le generazioni di fatturato a catena), fa capire molto bene quali siano le conseguenze di una mancanza di cultura industriale in questo Paese. Comunque, il ping pong burocratico, che ci ha costretti a fare la spola tra i numerosi enti (tribunali, comuni, ministeri eccetera) che avevano diritto a dire la loro su quello stabilimento, è durato dal 2002 al 2014. Nel 2014, finalmente, dopo la bellezza di 12 anni, avevamo tutte le carte in regola e tutte le autorizzazioni necessarie per costruire lo stabilimento. Peccato che a quel punto la mia concessione ventennale di ricerca e sfruttamento delle risorse minerarie, ottenuta nel 2007, si fosse ridotta di sei anni di tempo utile. Il che significava che l’ammortamento dell’investimento doveva essere fatto in 14 anni e non in 20. Pertanto, non era più conveniente. Fummo costretti a ritirarci.industriamo-litalia-copertina

D. La morale? Forse questa storia ci dice che nel nostro Paese non si ha alcuna idea di cosa sia davvero l’industria e cosa produca sul territorio. E, soprattutto, non c’è alcuna regia, alcuna capacità e volontà di gestire queste situazioni pensando al valore economico e sociale.

R. Sì, è così. Sarebbe indispensabile una rivalutazione nelle scuole del ruolo sociale dell’imprenditore e dell’impresa. Sarebbe bello poter mostrare casi di successo, e le loro ricadute positive per la società. Dar conto del ruolo positivo dell’imprenditore, e delle soddisfazioni che procura. Il caso che ho raccontato dimostra che abbiamo avuto difficoltà a far cogliere i vantaggi dalla cittadinanza perché in questo paese il grado medio di cultura d’impresa è assai basso. Se a questo aggiunge, purtroppo, quanto la pubblica amministrazione non sia sufficientemente orientata a favorire gli investimenti delle imprese (pur nel rispetto delle leggi, ovvio) ma sembri a volte più strutturata per permettere ai vari enti e alle varie autorità di esercitare i loro poteri. Non è solo una questione di lentezza delle deliberazioni, un fattore che pure conta ed è esasperante. Purtroppo in Italia ci sono poteri concorrenti e una eccessiva frammentazione delle autorità nazionali, regionali, amministrative. Inoltre, nel prendere decisioni, spesso capita che alcuni rami della pubblica amministrazione esulino dai confini delle loro competenze. In particolare, questo talvolta accade con le commissioni edilizie.

D. Ci può fare un esempio?

R. Certo, la commissione per il Paesaggio. È l’organo consultivo, e come tale privo di potere decisionale definitivo, di un comune per la disciplina dell’attività edilizia e urbanistica nel territorio comunale sulla base dello strumento urbanistico vigente [piano regolatore generale, piano strutturale (in Lombardia, Piano di governo del Territorio, ndr) nonché del regolamento edilizio. Quindi quando si vuole costruire un nuovo stabilimento industriale, o un nuovo impianto, la commissione deve fare queste sue valutazioni di compatibilità al Comune interessato, valutando l’impatto e la qualità estetica dell’intervento, il rapporto con il contesto, la qualità progettuale, la compatibilità con i valori paesistici ambientali esistenti. Spesso però le valutazioni risultano essere soggettive, data l’assenza di criteri oggettivi che supportino giudizi su aspetti così generali quali l’estetica e il rapporto con il contesto. Il margine discrezionale è così ampio che si può arrivare a entrare nel merito delle finalità dell’impianto, del suo impatto ecologico, del presunto inquinamento, o fare addirittura valutazioni di tipo sociale.

Paesaggio e industria: l'area delle fabbriche vicino a Como
Paesaggio e industria: l’area delle fabbriche vicino a Como

D. Il fatto che in Italia ci sia una burocrazia asfissiante è cosa nota, e gli imprenditori se ne lamentano sempre. Dietro queste lamentele, però, c’è talvolta il desiderio di poter fare tutto, senza limiti ispirati al bene comune…

R. Certamente, l’imprenditore è un “animal spirit” caratterialmente portato a sentirsi autonomo, indipendente. E ci sarà anche qualcuno insofferente alle regole in quanto tali. Il punto, però, non è questo. Le regole ci vogliono. Ma la loro applicazione, anche rigorosa, deve essere efficace ed efficiente, e tale da non ostacolare gli investimenti. La verità è che, purtroppo, in Italia si fanno meno investimenti in manifattura di quelli teoricamente possibili solo perché è molto più complicato farli. Spesso in Italia le direttive europee vengono recepite malamente e in maniera più macchinosa. Pur di fare i primi della classe, rischiamo di diventare gli ultimi in tema di competitività. Per esempio, a parità di direttiva Seveso – ovvero la politica comune europea in materia di prevenzione dei grandi rischi industriali in vigore dal 1982 – in Italia per ottenere i permessi di realizzazione di un impianto chimico occorrono due anni, in Germania bastano quattro mesi.

D. Un tentativo per la soluzione del problema è lo Sportello Unico per le imprese.

R. Si tratta di un’ottima idea di Franco Bassanini. Ma non dappertutto questo strumento è stato adottato adeguatamente. Ci sono casi di eccellenza ma anche pessime applicazioni. Bisognerebbe andare a vedere dove funziona bene e cercare di ripetere l’esempio. In generale, in tutta la pubblica amministrazione il concetto della best practice dovrebbe diventare l’imperativo categorico. Magari andando a vedere anche qualche esempio virtuoso straniero.

D. Torniamo alla sua “cassetta degli attrezzi” per una seria politica industriale e focalizziamoci su territorio e ambiente.

R. È indiscutibile che territorio e ambiente vadano tutelati. L’ideale sarebbe che le politiche per la loro tutela facessero parte di un programma di politica industriale che discenda da un progetto per il paese. E comunque, ci vorrebbero precise linee guida che ispirino l’azione di tutti coloro chiamati a dettar regole su questi argomenti, e a controllarne l’applicazione.

Troppa burocrazia per le imprese
Troppa burocrazia per le imprese

D. Collegata a territorio e ambiente è la questione energetica…

R. Non c’è politica industriale senza una strategia di politica energetica. Oltre che un elemento chiave della competitività del settore manifatturiero del paese. Sul suo costo, si regge anche la capacità delle imprese manifatturiere italiane di competere al livello internazionale. Noi come Confindustria siamo stati sostenitori del nucleare proprio per questo motivo. Certo, il nucleare è stato abbandonato da noi e anche da altri importanti Paesi, come la Germania, che comunque sta pensando se chiudere effettivamente tutte le centrali ancora operative al 2020 o meno. Ma mai dire mai. A proposito di energia, in Italia abbiamo un fortissimo gap di costo rispetto agli altri paesi, gap che abbiamo aggravato puntando in maniera inadeguata sulle energie rinnovabili, erogando incentivi che, essendo eccessivi, sono sfuggiti di mano e hanno generato effetti distorsivi sul mercato. Questo gap deve assolutamente essere colmato, almeno in parte. Comunque, l’Italia ha un livello altissimo di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, pari al 31% del totale, rispetto al 25% della media europea e al 26% della Germania. Si è deciso di finanziare tutto ciò addebitandolo sulle bollette dell’energia elettrica. Ed è stato un peccato, perché il grosso dell’energia elettrica lo pagano le aziende. Anche in Germania hanno fatto così, ma da un lato hanno dato incentivi più bassi, e dall’altro hanno sgravato le imprese energivore da questo costo, per non comprometterne la competitività. Soprattutto la Germania è riuscita a favorire la filiera delle rinnovabili, dando l’impulso alla nascita di un vero e proprio settore industriale. Noi molto meno. Per fortuna è un tema che, di recente, sembra esser stato colto e capito dal governo.

D. Tocchiamo allora un tasto dolente, quello della ricerca e sviluppo…

R. Ovviamente il modello è il tanto citato Fraunhofer tedesco, e la forte collaborazione fra università e aziende al livello distrettuale. Comunque, la forza italiana sta anche nella capacità delle imprese di fare innovazione architetturale, cioè attraverso l’utilizzo e l’assemblaggio in modo creativo di invenzioni e ricerche già esistenti. Io la chiamo anche innovazione frugale, perché possibile attraverso investimenti sostenibili, “frugali” appunto, anche dalle imprese con risorse limitate rispetto alla loro taglia. Certo, a livello pubblico è arcinota l’esigenza di investire di più nella ricerca di base, quella fatta dalle università. Fintanto che non si trovano le risorse economiche per essa, sarebbe già molto riuscire a fare in modo che gli investimenti in essere siano ben indirizzati e sfruttati.

Il logo di Assolombarda
Aldo Fumagalli Romario è stato vicepresidente di Assolombarda e ora fa parte del consiglio generale

D. Ma anche le imprese forse dovrebbero investire di più…

R. In generale, non credo sia vero il luogo comune secondo il quale le imprese italiane investirebbero poco in ricerca e sviluppo. Investono eccome. Ma la ricerca “applicata” che fanno, spesso viene rappresentata in diverse voci di bilancio.

D. Un altro capitolo della politica industriale riguarda il mercato del lavoro.

R. Sul Jobs Act il mio giudizio, che si allinea a quello di tutta la Confindustria, è sostanzialmente positivo. Una maggiore flessibilità è sicuramente utile. Anche se in definitiva, la vera crescita economica, e con essa lo sviluppo del mercato del lavoro, viene prodotta dalla creazione di nuovi mercati e nuovi clienti.

D. La tendenza recente in tema di politica industriale è di articolarla in base a specifiche aree produttive, o distretti, o zone. Che cosa ne pensa?

R. È giusto che la politica industriale venga studiata e articolata in base a precise zone geografiche. Ma è importante distinguere il tema dei distretti da quello dei poli industriali, che rappresentano problematiche diverse. I distretti sono zone geografiche nelle quali si è accumulato un significativo “saper fare” che li ha resi competitivi al livello internazionale nel settore di riferimento. I distretti devono essere supportati da investimenti in ricerca e sviluppo e da politiche che li aiutino a mettersi in sinergia fra di loro e con i fornitori di servizi, aiutando gli uni e gli altri a produrre maggior valore economico. Il tema dei poli manifatturieri, che in Italia è complesso e importante (ce ne sono oltre un centinaio) è completamente diverso. Molti poli manifatturieri non sono più competitivi o non funzionano più, ma potrebbero essere efficacemente riconvertiti, come dimostra il caso Hoechst di cui ho parlato prima. C’è poi il tema della bonifica. In Italia ci sono 57 siti industriali da bonificare, e per risolvere il problema si è fatto pochissimo. Si dovrebbero attivare politiche intelligenti di bonifica, utilizzando anche i fondi europei che già sono a disposizione. Questo porterebbe anche a una ottimizzazione dell’utilizzo del suolo. Visto che, a mio avviso, politica industriale significa ragionare in termini di utilità per i territori coinvolti, bisognerebbe poi stabilire livelli di bonifica commisurati all’utilizzo che si vuol fare dei territori in oggetto.

Altoforno dell'Ilva di Taranto
Altoforno dell’Ilva di Taranto

D. Parlare di bonifica ci porta a occuparci del tema Ilva.

R. La questione Ilva è il simbolo per eccellenza dell’inadeguatezza di una politica industriale italiana. Il problema dell’Ilva di Taranto non è solo italiano, ma anche europeo, visto che stiamo parlando di una della più grandi acciaierie continentali. Stiamo assistendo a una delle maggiori distruzioni di valore industriale della storia recente. In buona sostanza, l’azienda (e soprattutto tutta la filiera che ne deriva, che è ancora più importante) rischia di morire perché da un lato vi è un’azione della magistratura che se è giusto che persegua eventuali responsabilità penali individuali non dovrebbe però mettere in grave crisi la sopravvivenza stessa della attività produttiva, e dall’altro i decisori non riescono a identificare in tempi utili le soluzioni per mettere a disposizione le risorse necessarie per bonificare il territorio e per consentire la marcia continua e sostenibile degli impianti produttivi.

D. Un altro elemento importante della politica industriale dovrebbe riguardare la finanza per alimentare lo sviluppo delle aziende.

R. Strutturalmente, l’Italia è fatta di piccole e medie aziende, che ricorrono quasi totalmente al canale bancario. Andrebbe sostenuta la nascita di diversi canali, come i fondi o la quotazione in Borsa, o le emissioni di obbligazioni per le Pmi, e un maggiore utilizzo dei Fondi di garanzia. Qualcosa è stato fatto, come i minibond introdotti dal decreto Sviluppo del governo Monti. Ma molto resta ancora da fare.

D. Di scarsa sensibilità italiana per i temi di politica industriale si è detto. Eppure, si può individuare qualcosa che funzioni bene? Qualche aspetto positivo?

R. Sì, certo. Non va dimenticato che anche l’internazionalizzazione è un capitolo importante delle politiche industriali. E sulle politiche per l’internazionalizzazione in Italia è stato fatto molto di buono, anche se resta da svolgere ancora molto lavoro. Le aziende che si internazionalizzano hanno due necessità fondamentali: reperire risorse finanziarie a un costo accettabile, e avere un partner istituzionale che le aiuti a interfacciarsi con le istituzioni e le altre imprese straniere.

Export: container nel porto di Genova
Export: container nel porto di Genova

D. Lei si sta riferendo alla Simest, nata nel 1991 per supportare gli imprenditori italiani a espandersi su nuovi mercati. È una società per azioni controllata da Cassa depositi e prestiti con una presenza azionaria privata, banche e sistema imprenditoriale. Simest fornisce assistenza alle imprese italiane nel processo di internazionalizzazione e al loro fianco?

R. Sì mi riferisco a Simest, che aggiungo può partecipare fino al 49% anche al capitale sociale di imprese italiane o imprese controllate nell’Ue che sviluppino investimenti produttivi e di innovazione e ricerca. Lo fa a condizioni di mercato e senza agevolazioni garantendo all’imprenditore un servizio efficiente e rapido. In pratica opera anche come un venture capital, ed è stata assolutamente determinante per l’internazionalizzazione di alcune aziende italiane. Anche la Sace è un eccellente strumento di politica industriale. Controllata al 100% da Cassa depositi e prestiti, offre una gamma di strumenti per l’assicurazione del credito, la protezione degli investimenti, l’erogazione di cauzioni, garanzie finanziarie e factoring. E il bello è che riesce perfino a chiudere i suoi bilanci con un utile netto molto alto. Pure la legge Sabatini, recentemente riproposta, è stata un valido strumento di politica industriale. Prevede un forte contributo dello Stato, in conto interessi, per l’acquisto di beni strumentali all’impresa. Ultime ma non meno importanti, l’Ice e le ambasciate sono uno strumento troppo spesso criticato, ma negli ultimi tempi si sono riposizionate bene, anche se c’è ancora molto lavoro da fare.

D. Arriviamo a parlare del rapporto fra rappresentanza e politica industriale. Lei pratica il mondo di Confindustria da una vita, come valuta il peso della rappresentanza al fine di delineare politiche industriali efficaci?

R. Il ruolo della rappresentanza è assolutamente decisivo. Certo, le associazioni datoriali possono essere viste come portatrici di interessi particolari e specifici. E in parte lo sono. Tuttavia, hanno un know-how talmente forte che è un peccato non usare. Anzi, andrebbe valorizzato. Le associazioni sanno bene in cosa consistano le esigenze delle imprese. E, pertanto, possono portare un valore aggiunto molto rilevante per qualsiasi politica industriale. Ciò non toglie che, poi, la politica decide. Il fatto di ascoltare non toglie nulla all’autonomia di chi deve decidere. Inoltre, la condivisione delle scelte aiuta a farle accettare e poi a farle eseguire. Non si tratta di riproporre la concertazione che ormai ha fatto il suo tempo e che ormai nemmeno le parti sociali vogliono più. Sto solo parlando di un modo intelligente di fare politica industriale.

D. Insomma, ci sono speranze…

R. Se non fossi ottimista, non farei l’imprenditore. Quelli come noi, lo sono per definizione.


industriamo-litalia-copertinaIntervista tratta dal libro Industriamo l’Italia!
Viaggio nell’economia reale che cambia,
di Filippo Astone (Magenes Editore)














Articolo precedenteSummit a Milano sullo smart working e telelavoro
Articolo successivoA Milano in arrivo il summit della manifattura 4.0






LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui