Governo italiano e Industry 4.0 : quello che funziona e non del piano Calenda

L'indagine di Federmeccanica Industria 4.0

di Filippo Astone ♦ L’effettiva entrata vigore del Piano di Carlo Calenda sulla quarta rivoluzione industriale ci offre l’occasione per fare il punto su un pacchetto che ha alcuni aspetti positivi (defiscalizzazione, sostegno all’ICT made in Italy) ma che resta comunque insufficiente. Si potrebbe volare più alto

In questi primi giorni del 2017 dovrebbe diventare operativo il Piano per l’Industry 4.0 promosso dal Ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda e propugnato con grande entusiasmo politico-mediatico dal governo Renzi, che l’ha annunciato lo scorso 21 settembre. L’esecutivo di Paolo Gentiloni, come è ampiamente noto, si muove lungo le medesime direttrici. E ora – approvata la legge di stabilità e buona parte dei decreti attuativi e degli adempimenti burocratici necessari – siamo finalmente al dunque. Lo stesso Calenda, peraltro, in una intervista al Corriere della Sera pubblicata lo scorso 2 gennaio auspica una seconda fase, con un identico approccio rispetto alla prima.







Ci sarà la seconda fase auspicata da Calenda?

Vedremo. Il passaggio dalla teoria alla pratica ci consente di fare il punto sulla congruenza ed efficacia degli strumenti proposti, soprattutto fiscali, per cavalcare la quarta rivoluzione industriale. Che sono, certo, un passo avanti, ma comunque largamente insufficiente rispetto all’importanza della trasformazione in atto e a paragone delle politiche intraprese da altri Paesi Occidentali avanzati. Forse si poteva volare più alto. Ma non lo si è fatto. Anche se si è ancora in tempo.

Piano nazionale Industria 4.0
Le quattro rivoluzioni industriali nel piano del governo.Questa, come tutte le altre tabelle che pubblichiamo di seguito, sono tratte dalla presentazione ufficiale del piano
Un fenomeno gigantesco.

Ricordiamo che l’Industry 4.0 non è solo qualcosa che riguarda il lavoro e le fabbriche (e sarebbe già molto, visto che l’Italia è il secondo Paese manifatturiero d’Europa e il settimo al mondo) ma un gigantesco fenomeno che impatta la vita, la cultura e politica di tutti, anche di coloro che sembrerebbero averci direttamente poco a che fare. La società globale sta per entrare in un mondo nuovo, quello generato dall’interconnessione globale. L’Industry 4.0 – come ben sanno i lettori di Industria Italiana – potrebbe essere qualcosa di paragonabile all’introduzione dell’elettrificazione nel 18esimo secolo, o all’avvento dell’informatica negli anni Settanta del secolo scorso.

Il piano in estrema sintesi.

Il piano Renzi-Calenda è quasi totalmente fiscale. Prevede un controvalore teorico di 13 miliardi di euro di incentivi fiscali in quattro anni, che a loro volta dovrebbero mobilitare 23 miliardi di investimenti privati (10 in tecnologie più 11,3 in ricerca e sviluppo e 2,6 in venture capitale e start-up). Inoltre, è previsto un mix di finanziamenti e azioni varie per la creazione di sette competence center universitari, scelti fra primari atenei (Politecnico di Milano, Torino e Bari, Scuola Sant’Anna di Pisa, Università di Napoli, Università Venete messe in rete e considerate come un’unico ateneo) che dovrebbero formare studenti e manager. Al momento dell’annuncio del provvedimento, si parlava di 100 milioni di euro; dopo la legge di stabilità, sono diventati 30 in due anni, ovvero quattro milioni di euro ad ateneo.

Piano nazionale Industria 4.0

“La politica industriale la fanno le imprese”.

La filosofia generale è, come ha detto Calenda, che «la politica industriale la fanno le imprese». Il Governo opera in modo “orizzontale”: non fa scelte di settori e argomenti, non predilige nessuno, lascia fare e offre abbondanti incentivi fiscali a chi fa. Questo è quanto. Tirando le somme, il totale degli investimenti, cioè 36 miliardi teorici, dovrebbe costruire valore aggiuntivo per l’economia italiana per cifre enormi, cioé fra i 100 e i 200 miliardi di euro, se non di più. Se il “volano”, come lo chiamano al Governo, funzionasse davvero con questi ordini di grandezza, rappresenterebbe la soluzione a gran parte dei problemi dell’economia italiana: le nostre aziende volerebbero nel mondo, e la nostra disoccupazione da record (negli ultimi anni superiore all’11%) si ridurrebbe almeno del 60%. Un miracolo.

Quello che funziona: riduzione dell’imposizione fiscale e supporto all’ICT

Iniziamo l’esposizione dicendo subito quello che funziona del Piano. La prima cosa positiva sta nell’essere un primo passo, che non è poco visto che in molti temevano che il Governo non avrebbe fatto proprio nulla. E’ insufficiente, è incompleto, è comunque poco, ma, come si dice “piuttosto che niente, è meglio piuttosto”. Il provvedimento in sé non è negativo, qualche effetto lo produrrà, e sarà benefico. Inoltre, ha il merito, e questa è la seconda caratteristica interessante di riportare l’attenzione generale sulle sorti del settore manifatturiero, che sembrava scomparso dal dibattito politico-mediatico, e che ora è ritornato a far parlare di sé. Il 60% del PIL italiano è generato, direttamente e indirettamente, dalle attività di produzione, sulle quali, da almeno 30 anni, era calato un cono d’ombra; ora, finalmente, è un po’ meno ampio.

Piano nazionale Industria 4.0

La terza caratteristica interessante sta nella riduzione dell’imposizione fiscale alle aziende, che in Italia soffrono particolarmente per un fisco assai pesante. Magari il Piano Renzi-Calenda-Gentiloni non farà decollare l’Industry 4.0 come si vorrebbe, ma comunque era necessario abbassare le imposte e, con il pretesto della quarta rivoluzione industriale, lo si è fatto. Quarta, ma non certo meno importante caratteristica, il grande supporto che il Piano dà all’Information Technology italiana, che quest’anno chiude con il modesto incremento ( vedi Industria Italiana  ) dell’1,3%, dopo un ulteriore modesto incremento e ben sette anni di buio.

Quinta caratteristica appezzabile : il metodo. Molto interessante, e da ripetere, la prassi che è stata adottata, e che vede il coinvolgimento, nella formulazione del Piano, atenei, centri di ricerca e associazioni imprenditoriali, in primis Confindustria, anche nelle sue diramazioni locali. Questo metodo consente non solo di arrivare a risultati più concreti, perché si ascoltano le esigenze della base imprenditoriale, ma anche di fare in modo che il Piano sia davvero attuato, facendo sentire protagoniste le imprese, attraverso le loro associazioni. Sarebbe stato altrettanto importante il coinvolgimento del sindacato, ma forse non lo si è voluto fare, perché, come vedremo, in tutto questo Piano le esigenze del lavoro hanno avuto ben poco spazio.

Piano nazionale Industria 4.0

Una cosa è certa: l’ICT italiano ne beneficerà

Il mercato ICT italiano vale oltre 60 miliardi di euro, dà lavoro a 75 mila imprese e a circa mezzo milione di persone. Se ci sono dei dubbi sulla reale efficacia del Piano quanto a Industry 4.0, non ce ne sono sui benefici che potrà dare a questo comparto fondamentale non solo per l’economia, ma per l’Innovazione che irradia su tutto il sistema. Questo dato di fatto, da solo, è fondamentale, e il Governo, indubbiamente, ne porta il merito.

Il principale difetto del Piano: non scegliere, non avere una visione complessiva. Insomma, non fare vera politica industriale!

Il principale difetto del Piano sta proprio nella sua filosofia: non scegliere, non avere una visione di quale Paese futuro si vuole costruire fra cinque, dieci, quindici anni. L’idea che la politica industriale la facciano le imprese è intrinsecamente sbagliata. Ciascuna azienda pensa, da sola, all’ultima riga del proprio conto economico, ed è giusto e sano che sia così. La politica industriale la fanno gli Stati e le Regioni. E la fanno scegliendo, come ci dimostrano i casi di successo dell’America di Barack Obama e della Germania di Angela Merkel e dei suoi predecessori. Scegliere, però, non significa assolutamente esercitare una forma di dirigismo, decidere (per parafrasare Franco Debenedetti e il suo pamphlet «Scegliere i vincitori, salvare i perdenti») chi vince e chi perde, ma “accompagnare”.

Gli Stati più moderni esercitano questo accompagnamento in tre modi.

Il primo, con il mettere a disposizione delle aziende know-how elaborato in sede pubblica (perché la ricerca di base, diversa da quella applicativa, ha tempi lunghi e ritorni incerti, dunque può essere sostenuta solo dai “capitali pazienti” del pubblico ) da università e istituzioni apposite. La Germania è lo Stato più competitivo e ricco d’Europa anche perché, da decenni, offre alle imprese l’assistenza rappresentata dalla rete delle Fraunhofer (ricerca pre-competitiva, per trasformare in innovazione aziendale i frutti di altre ricerche) e dei Max Planck Institute (ricerca di base). E la politica industriale di Barack Obama, alla base della recente rinascita economica e manifatturiera degli Stati Uniti, si basa sull’esempio tedesco. ( su questo cfr. l’articolo del Manufacturing Group del Politecnico di Milano, su Industria Italiana  “La Quarta Rivoluzione Industriale nel mondo”)

Visita di Angela Merkel in una fabbrica digitale Siemens
Il governo tedesco persegue una politica industriale efficace. Qui il cancelliere Angela Merkel in visita a uno stabilimento Siemens

Il secondo è di creare istituzioni finanziarie capillari sul territorio e incisive nell’affiancare le imprese che innovano e aprono nuovi mercati. Il terzo è di coordinare, anche e forse soprattutto a livello territoriale, l’azione di imprese e distretti verso determinati fini. Nel Piano non vi è alcuna traccia di queste cose. Anche perché, alla base, non c’è alcuna idea del Paese che si vuole. In generale, il ruolo dello Stato che accompagna e investe nella ricerca che poi viene messa a disposizione delle imprese, è fondamentale e ineludibile. Lo ha dimostrato Mariana Mazzucato in un bellissimo libro, “Lo Stato Innovatore”, pubblicato in Italia da Laterza nel 2014.  In questo documentatissimo saggio, la Mazzucato dimostra come tutte le recenti innovazioni alla base del successo economico americano (dalle varie tecnologie che danno vita ai prodotti Apple fino allo Shale gas) siano nate in ambito pubblico.

Piano nazionale Industria 4.0Troppo poco rispetto al gigantesco cambiamento che ci aspetta.

In generale, il Piano è di corto respiro rispetto al grande cambiamento economico, sociale e cognitivo che si propone di affrontare. La Quarta Rivoluzione industriale significa 20 miliardi di oggetti interconnessi nel 2020, significa abolizione delle scorte e just in time come imperativi categorici, significa una automazione totale che quasi abolirà le mansioni ripetitive e manuali in tutte le fabbriche, significa la necessità di un forte aumento delle competenze di chi svolge qualsiasi lavoro, significa 7 milioni di disoccupati in Europa entro il 2020 ( dati World Economic Forum), significa che qualsiasi azienda potrà perdere in breve tempo il vantaggio competitivo a fronte di un concorrente comparso all’improvviso, e… L’elenco potrebbe continuare a lungo.

L’Italia che fa di fronte a tutto questo? Un provvedimento fiscale, senza aumentare di molto gli investimenti per la ricerca e sviluppo, senza una visione complessiva, senza sapere dove andare. L’obiezione più frequente a questa affermazione è che non ci sono risorse a disposizione, perché le casse dello Stato sono vuote e perché l’Europa, col fiscal compact, congela ogni iniziativa. Dunque era possibile solo la “robina” e dobbiamo accontentarci di quella. Che ci siano tutti questi limiti agli investimenti pubblici è fuor di dubbio. Però, quando si sono voluti trovare 10,5 miliardi all’anno per finanziare i famosi 80 euro, la strada per arrivarci è stata individuata. E quando si sono volute finanziare le rinnovabili (16 miliardi di euro dalle tasche degli italiani, per una quindicina di anni….) è comparsa la soluzione di prenderli dalle bollette della luce. Analoga creatività non si poteva esercitare anche per far fronte al più grande cambiamento che ci aspetta?

Il vero scatto in avanti: aumentare sensibilmente gli investimenti in ricerca e sviluppo.

L’Italia è afflitta dal problema della scarsa produttività del lavoro, che si spiega soprattutto con i bassissimi investimenti in ricerca e sviluppo. Questo dato di fatto è ancora più grave nel momento in cui si fronteggia la sfida dell’Industry 4.0, che richiede politiche industriali basate soprattutto sulla conoscenza, che rappresenta il vantaggio competitivo più importante. Il vero scatto in avanti sarebbe stato un deciso aumento degli investimenti in R&S, che da noi sono ridicoli rispetto ai Paesi concorrenti. Una rapida carrellata delle cifre rende benissimo l’idea. La Germania, non caso Paese leader in Europa, investe il 2,92% del PIL. E gli Usa la seguono di poco, con il 2,76%. Cifre ancora inferiori rispetto al 3,93 di Israele. La Francia investe il 2,26%. La Gran Bretagna l’1,76%. E l’Italia? L’1,27% del PIL. Meno perfino della Spagna, che investe l’1,3%.

Piano nazionale Industria 4.0

Si rischia di agevolare la minoranza che ha già deciso di investire in innovazione e nuove tecnologie, senza fare niente per gli altri.I corposi incentivi fiscali del Piano rischiano di andare a favore di chi ha già deciso di investire in tecnologie innovative. Cioé di una minoranza ristretta di imprese. Le altre, nonostante i vantaggi fiscali, potrebbero decidere di non investire comunque, perché prive dei fondi (sembrerà banale ricordarlo, ma prima che un investimento venga defiscalizzato, deve essere effettuato, e ci vogliono soldi veri) o della consapevolezza della loro importanza. Da questo punto di vista, il panorama delle imprese italiane è stato radiografato dalla nota 16.5 del Centro Studi di Confindustria, pubblicata lo scorso 23 dicembre. La nota esamina le aziende italiane con più di 10 addetti, rielaborando dati Istat del 2010-2012. Emerge che solo il 7,4% delle imprese ha fatto investimenti sia in R&S e sia, contemporaneamente, in nuovi macchinari. Un ulteriore 38% ha compiuto investimenti solo in nuovi macchinari.

E il restante 54,6% che ha fatto? Qui viene il bello: niente o poco più di niente. Questa maggioranza di non innovatori, secondo i dati Istat, sarebbe addirittura cresciuta nel 2012-2014. Eppure, i nuovi prodotti messi sul mercato dai pochi che investono sia in R&S e sia in macchinari hanno generato nuovo fatturato per una percentuale attorno al 14%. Ora, la grande domanda è: gli incentivi fiscali avranno il potere di spingere la grande maggioranza di imprese italiane non-innovative a decollare? Gli imprenditori privi di soldi e di consapevolezza, potranno cambiare orientamento grazie a questo?

Manca il “sostegno al progetto”

Le misure del Piano sono orientate ai singoli beni, ma una trasformazione aziendale verso l’Industry 4.0 richiede una progettualità complessa. Trasformare significa mettere mano alle funzioni, ai processi, significa accedere alle consulenze strategiche, tutte elementi che non sono affatto beni materiali. E che nel Piano non sono previste.

Si parla poco di lavoro.

L’Industry 4.0 avrà effetti enormi sulle dinamiche occupazionali. Nei prossimi anni, centinaia di migliaia di lavoratori verranno espulsi dai processi produttivi, con scarse o nulle possibilità di reimpiego (vedi  sempre i dati del World Economic Forum). Altri ancora, quelli che rimarranno, affronteranno percorsi di riqualificazione complessi e difficili. E per i nuovi, saranno richieste competenze in buona parte diverse da quelle formate con l’attuale sistema universitario. Secondo stime di Assinform (analoghe a quelle fatte da altre istituzioni ed enti di ricerca) il 40% dei lavori che si faranno nel mondo nei prossimi anni, oggi non esistono. Tutto questo richiede politiche di sostegno al reddito e politiche attive per la formazione e riqualificazione dei lavoratori. Nel Piano c’è poco o nulla di tutto ciò.

Operatore con robot in fabbrica
Operatore con robot in fabbrica
Briciole per la formazione e la ricerca universitaria

Il Piano promette risorse importanti per la formazione. La cifra teorica è di 700 milioni di euro, ottenuta sommando 355 milioni di euro per l’implementazione del piano nazionale Scuola digitale e dell’alternanza Scuola-lavoro sui percorsi coerenti col progetto; i 70 milioni di euro destinati alla formazione specialistica; i 170 milioni previsti per il potenziamento dei cluster tecnologici e infine i 100 milioni per i competence center. Rispetto all’entità del problema, si tratta di cifre molto contenute, e tutte da confermare.

I primi segnali sono tutt’altro che incoraggianti. La Legge di stabilità 2017 ha stanziato per i competence center universitari dell’Industry 4.0 la cifra di 30 milioni di euro invece dei 100 annunciati con tanto di squillo di trombe da Renzi e Calenda. Ora se già 100 milioni erano pochi (circa 12.5 milioni per ogni competence center, che sono briciole rispetto all’enormità del compito), 30 milioni sono poco più di niente. Vuol dire 4.5 milioni per università. Cifre molto contenute rispetto a quelle stanziate in Paesi come Stati Uniti, Germania, Francia. Briciole insomma. Briciole che fanno pensare agli 80 euro elargiti ad alcuni lavoratori con le defiscalizzazioni varate dal 2015, che non hanno avuto alcun effetto sostanziale sulla domanda interna….E anche qui c’è una grande domanda: affrontiamo la sfida mondiale con queste risorse?

Piano nazionale Industria 4.0

L’empasse sulla politica industriale da parte di politica ma anche imprenditori e classe dirigente.

La politica industriale, come è largamente raccontato nel mio libro “Industriamo l’Italia“, pubblicato da Magenes nell’ottobre scorso, non è dirigismo, non si fa con i sussidi, e forse nemmeno con gli incentivi. E’ un insieme di provvedimenti di accompagnamento verso direzioni stabilite (e quindi presuppone, appunto, una direzione) condotti attraverso ricerca e sviluppo in ambito pubblico, istituzioni finanziarie create ad hoc, azioni politiche di coordinamento, anche (e forse soprattutto) a livello locale. Così si fa in Germania, negli Stati Uniti, in Francia, in Giappone e in alcuni Paesi in via di Sviluppo.

Uno dei problemi fondamentali, in Italia, è che le classi dirigenti (politici, ma anche economisti e imprenditori) non sanno che si tratta di questo. Semplicemente non lo sanno, non lo concepiscono, lo ignorano. E sono talmente preda del pregiudizio secondo il quale politica industriale = dirigismo e/o sussidi e/o burocrazia inetta, che non riescono nemmeno ad ascoltare un discorso sul tema. Questo atteggiamento sussiste, purtroppo, anche nei politici e imprenditori con la vista più aperta. Il vero impasse è questo. E non si vede via d’uscita, salvo un miracolo.

Carlo Calenda, ministro allo Sviluppo
Carlo Calenda, ministro allo Sviluppo

Calenda: prenderci tutti gli spazi che i mercati consentono.

L’intervista di Carlo Calenda al Corriere, che abbiamo citato all’inizio dell’ articolo, è ricca di spunti che meritano di essere sottolineati. «Noi dovremmo prenderci tutti gli spazi di bilancio che i mercati, e non la Commissione Europea, ci consentono per mettere in atto un piano straordinario di rilancio economico e sociale che abbia al centro un massiccio piano di investimenti pubblici e privati», dice per esempio Calenda. «L’anno giusto è il 2018, dunque la prossima legge di bilancio». Dopo anni in cui si è sentita ripetere solo la scusa che non ci sono soldi, questa affermazione rappresenta un passo avanti di enorme portata.

Da sottolineare anche l’idea che si debba favorire l’industria. Alla domanda su che cosa si debba privilegiare, Calenda risponde: «L’industria, dando supporto solo a chi investe in innovazione e internazionalizzazione con strumenti automatici che eliminino l’intermediazione politica e burocratica, come abbiamo fatto con il piano Industria 4.0. Analogo lavoro va fatto nei settori del turismo, della cultura, dove moltissimo è già stato realizzato, e delle scienze della vita, dove l’Italia ha la possibilità di prendere una quota rilevante del settore a maggior valore aggiunto e in maggior crescita nel mondo. Un piano industriale articolato basato su queste fondamenta va dettagliato rapidamente».

Ottimo ma….

Parola sante quelle di Calenda, che però non entra nel merito di come dovrebbe essere articolato il “piano industriale” di cui parla. Tutto però lascia pensare che l’idea sia quella di agire ancora con defiscalizzazioni e incentivi automatici. Senza cercare di ispirarci ai modelli di successo sperimentati in Germania e negli Stati Uniti. Cioé senza volare alto. Sarebbe un vero peccato.

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I contenuti del piano governativo pro-industry 4.0

Ecco di che cosa parliamo quando parliamo del Piano governativo Industry 4.0. Lo facciamo con l’aiuto di un ottimo articolo pubblicato da Rethink, che abbiamo rielaborato a modo nostro.

 Rifinanziamento e potenziamento della legge Sabatini

Perno centrale del Piano, confermato anche dalla nuova Legge di Stabilità è la proroga della Legge Sabatini che già per il triennio 2013-2016 si era prefissata l’obiettivo di accelerare il processo di digitalizzazione delle PMI grazie all’erogazione di finanziamenti agevolati. Nel 2017 la nuova Sabatini sarà rifinanziata, mettendo a disposizione circa 13 miliardi di euro di risorse pubbliche la cui erogazione è prevista tra il 2018 e il 2024. Parliamo quindi di poco più di due miliardi all’anno.

La misura consiste in:

– un finanziamento bancario d’importo compreso fra 20 mila e i 2 milioni di euro per investimenti in macchinari, impianti, beni strumentali e attrezzature nuovi di fabbrica (compreso leasing finanziario, tecnologie digitali, hardware e software;)

– un contributo economico a copertura degli interessi, pari all’ammontare degli interessi, calcolati su un piano di ammortamento convenzionale con rate semestrali, al tasso del 2,75% annuo per cinque anni;

– una copertura sul finanziamento fino all’80% del suo ammontare attraverso il Fondo di garanzia per le PMI.

Piano nazionale Industria 4.0

Altri provvedimenti fiscali

Un ulteriore ammontare di circa 10 miliardi verrà preparato dallo Stato nelle seguenti modalità:

– rafforzamento della detassazione del salario di produttività (1,3 miliardi tra il 2017 e il 2020). Il progetto prevede l’innalzamento della soglia di reddito di produttività agevolabile, dagli attuali 2.000 euro (2.500 euro nel caso di coinvolgimento dei lavoratori nella gestione aziendale), a 3.000 – 4.000 euro, e di estendere l’agevolazione anche a quadri e dirigenti di medio livello, ampliando il limite di reddito a 70.000-80.000 euro annui (dagli attuali 50.000 euro);

– diffusione della banda ultralarga tra imprese (oltre 6,7 miliardi). L’obiettivo del Governo, entro il 2020, è di dare la possibilità a tutte le aziende italiane di avere accesso a Internet con una velocità di almeno 30megabit al secondo e di estendere la connettività a 100 megabit – o velocità di connessione superiore – ad almeno il 50% delle aziende presenti sul territorio nazionale;

– rifinanziamento del fondo garanzia PMI (900 milioni) per continuare ad affiancare le imprese e i professionisti che hanno difficoltà ad accedere al credito bancario;

– creazione e sviluppo di catene digitali per il rafforzamento del Made In Italy (100 milioni);

– Investimento su centri tecnologici, workshop e sviluppo di accordi commerciali con Retailers e soprattutto E-tailers di beni di consumo nei principali mercati di riferimento (USA e Cina).

Finanza a supporto di start-up e PMI innovative

A fianco degli interventi dove la componente pubblica è decisamente prevalente – seppure nella forma dell’incentivo fiscale – il Governo intende promuovere lo sviluppo attraverso lo sforzo congiunto di start up, PMI innovative e investitori privati, con le seguenti misure:

– detrazioni fiscali al 30% per investimenti in PMI innovative e start-up fino a un limite massimo di un milione di euro;

– previsto l’intervento di società sponsor per assorbire le perdite delle start-up nei primi 4 anni;

Piano nazionale Industria 4.0

Ricerca e Sviluppo in ambito privato

L’innalzamento del credito d’imposta dal 25% al 50% su spese in ricerca e sviluppo (inclusi gli investimenti in capitale umano) superiori alla media dell’ultimo triennio. Questo intervento dovrebbe permettere di ridurre il gap con il resto d’Europa dato che ad oggi l’Italia investe in R&S l’1,3% del PIL contro una media europea del 2,3%;

– agevolazioni fiscali con detassazioni capital gain su investimenti a medio/lungo termine. Finanziamento agevolato a tasso zero fino al 70% delle spese ammissibili (80% per le start-up costituite da donne e/o under 36). Per le società collocate nel sud dell’Italia è inoltre previsto un contributo a fondo perduto per un importo pari al massimo al 20% del progetto per attivitàdi R&S su specifiche tematiche e tecnologie previste da Horizon 2020 (il programma europeo di ricerca e sviluppo);

– creazione di fondi di investimento dedicati all’industrializzazione di idee e brevetti ad alto contenuto tecnologico;

– programma “acceleratori di impresa” per finanziare la nascita di nuove imprese con focus Industry 4.0.

Competence center universitari

Per la creazione di sette competence center universitari (Politecnici di Milano, Torino e Bari, università di Napoli e Bologna, Sant’Anna di Pisa, Università Venete consorziate) era stato annunciato un finanziamento di 100 milioni di euro. In sede di legge di Stabilità sono stati decisi 30 milioni di euro per due anni. Vero è che le cifre promesse sono su base quadriennale, quindi resta la speranze che ci siano altri 30 milioni per il 2019-2020, ma tutto dipenderà dal Governo e dalla maggioranza politica che ci saranno all’epoca.

Ecco comunque le caratteristiche auspicate e promesse dal Governo nelle sue slides:
• Pochi e selezionati Competence Center nazionali
• Forte coinvolgimento di poli universitari di eccellenza e grandi player privati
• Contribuzione di stakeholder chiave (e.g. centri di ricerca, start-up,..)
• Polarizzazione dei centri su ambiti tecnologici specifici e complementari
• Modello giuridico e competenze manageriali adeguate Mission:
• Formazione e awareness su I4.0
• Live demo su nuove tecnologie e accesso a best practice in ambito I4.0
• Advisory tecnologica per PMI su I4.0
• Lancio ed accelerazione di progetti innovativi e di sviluppo tecnologico
• Supporto alla sperimentazione e produzione “in vivo” di nuove tecnologie I4.0
• Coordinamento con centri di competenza europei

Piano nazionale Industria 4.0

Digital Innovation Hub

I Digital Innovation Hub dovrebbero essere dei punti di raccordo fra le esigenze delle imprese in ambito tecnologico e le università/centri di ricerca, con un ruolo importante riconosciuto alle associazioni imprenditoriale. Per sapere se avranno reale consistenza ed efficacia, bisogna ancora attendere del tempo. Ecco le caratteristiche, come indicate dal Piano del Governo.

-Selezionati DIH pivotando su sedi Confindustria e R.E.TE. Imprese Italia sul territorio

-Ponte tra imprese, ricerca e finanza

Mission: • Sensibilizzazione delle imprese su opportunità esistenti in ambito I4.0 • Supporto nelle attività di pianificazione di investimenti innovativi • Indirizzamento verso Competence Center I4.0 • Supporto per l’accesso a strumenti di finanziamento pubblico e privato • Servizio di mentoring alle imprese • Interazione con DIH europei.

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