Antonio Gozzi e i segreti dell’acciaio

Antonio Gozzi, presidente di Federacciai e presidente e amministratore delegato di Duferco Italia Holding. Secondo Gozzi, la premier Giorgia Meloni ha fatto bene con il Piano Mattei (partenariato economico, energetico e sociale tra l’Italia e gli Stati Africani): è un modo per abbassare il baricentro degli equilibri decisionali europei. Oggi, infatti, questi sono troppo sbilanciati a Nord, verso Paesi che puntano alla deindustrializzazione del Vecchio Continente, sotto il peso della finanza speculativa e dell’estremismo green.

di Filippo Astone♦ Il numero uno della Duferco e Presidente di Federacciai parla a tutto campo dell’industria siderurgica in Italia e nel Mondo, della sua importanza per il Paese, delle prospettive future, dell’ Ilva e delle problematiche ambientali

La lunga intervista che segue è contenuta nel secondo capitolo dell’ ultimo libro del Direttore di Industria Italiana Industriamo l’ Italia! Viaggio nell’ economia reale che cambia, Magenes editore.







Il libro di Filippo Astone
Il libro di Filippo Astone

L’industria dell’acciaio

Parlare di politica industriale significa affrontare il tema dell’acciaio. Senza siderurgia, infatti, non è possibile alcun tipo di industria. L’acciaio è talmente presente nelle nostre vite, che non ci accorgiamo quasi della sua esistenza, come se fosse aria o acqua. Sono composti di acciaio, di vario spessore e densità, per esempio, le automobili, i vagoni ferroviari, i frigoriferi, i forni e gli elettrodomestici, nonché tutti i pezzi meccanici che permettono alla manifattura italiana di essere la seconda in Europa, e una delle migliori del mondo. Ma sono fatti in gran parte di acciaio pure i ponti, le ferrovie e, in misura determinante, quasi tutti i tipi di costruzione.

Proprio perché senza siderurgia non è possibile alcuna industria, la rinascita della manifattura italiana dopo il secondo dopoguerra si è resa possibile grazie a una importante scelta di politica industriale: lo Stato si è messo a produrre acciaio da vendere a basso costo alle industrie nazionali, che grazie a questo potevano in primo luogo esistere, in secondo luogo acquisire la competitività necessaria. L’acciaio è una questione di politica industriale anche perché ha caratteristiche che lo legano fortemente al territorio in cui viene prodotto.

A cominciare dal suo peso elevato, che rende i costi di trasporto proibitivi e i tempi molto lunghi. Per esempio, per spostare un coil di acciaio dalla Russia all’Italia occorrono almeno quattro mesi di tempo. La produzione siderurgica, pertanto, deve essere contigua alla manifattura in cui viene impiegato il prodotto finito. Inoltre, acciaierie e fabbriche contigue hanno un forte impatto sul territorio e l’ambiente in cui insistono, ponendo questioni enormi e difficili in tema di impatto ambientale, scelte urbanistiche, consumo di suolo, sicurezza, salute, manutenzione, occupazione, ricerca e sviluppo in ambito locale, logistica, infrastrutture. Quindi, rendere possibile la costruzione di impianti siderurgici (o addirittura facilitarla) indirizzandone modalità e caratteristiche è una questione prettamente politica. Il libero mercato, da solo, risolve molto poco.

Nonostante tutto ciò, in Italia per lunghissimo tempo è mancata una visione di sistema sulla siderurgia. Il tema è poco sexy, non permette di andare sui giornali e in TV, viene ritenuto scarsamente profittevole dal punto di vista elettorale. Inoltre, in questo momento storico, pochi politici hanno le competenze tecniche e politiche per affrontarlo. I vari governi che si sono alternati negli ultimi vent’anni hanno scelto, semplicemente, di non occuparsi della siderurgia, lasciando le mani libere ai privati (in primis l’Ilva della famiglia Riva) che avevano comprato le ex acciaierie di Stato. E intervenendo (con un grado di incisività sul quale si potrebbe discutere a lungo…) solo quando si verificavano delle “emergenze”. Si è voluto credere, o far finta di credere, che il mercato potesse, forse magicamente, fare delle scelte che si sarebbero tradotte in creazione di valore. È andata a finire in tutt’altro modo, e cioè con lo stallo dell’industria siderurgica italiana, gli enormi problemi di Terni, e la gigantesca crisi ambientale – e soprattutto economica – dell’Ilva di Taranto.

La brutta storia dell’Ilva di Taranto – insieme a quella della Fiat e dell’Alitalia – è la miglior dimostrazione delle conseguenze disastrose della mancata politica industriale italiana.
Ma quali esigenze ha la siderurgia italiana? E quella europea? Quali potrebbero essere le politiche più idonee a supportarla? E nell’ambito di quali trend mondiali? Nelle risposte a queste domande può risiedere il futuro dell’Italia. Una nuova politica industriale, se e quando ci sarà, deve affrontare questo problema.Le domande le abbiamo poste ad Antonio Gozzi, numero uno della Duferco, una delle maggiori aziende siderurgiche italiane e mondiali, nonché presidente di Federacciai, la Confindustria dell’acciaio, e docente di Economia aziendale all’Università di Genova.

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Antonio Gozzi, Presidente Duferco

Duferco e Antonio Gozzi

Duferco è un gruppo da 19 miliardi di euro di giro d’affari (di cui circa 740 milioni in Italia), fondato nel 1979 da Bruno Bolfo, lo zio di Gozzi, che all’epoca aveva alle spalle una carriera di successi internazionali in Italsider, che era una perla delle partecipazioni statali italiane. Bolfo è riuscito a costruire un grande gruppo internazionale aggregando investitori da un lato, e importanti stabilimenti industriali dall’altro. Oggi la Duferco è presente in 50 Paesi e ha circa 5mila dipendenti. È un gruppo europeo con presenze globali, origini e cultura italiana, sede fiscale e finanziaria nel Granducato di Lussemburgo.

Entriamo finalmente nel vivo del tema che vogliamo affrontare con l’aiuto di Gozzi: politica industriale e siderurgia. Con una avvertenza: l’autore non condivide la difesa appassionata che il presidente di Federacciai fa della famiglia Riva in relazione alle note vicende. Se è sacrosanto ritenere che il caso Ilva-Riva sia soprattutto la conseguenza di una pessima gestione dell’industria italiana da parte di una classe politica inadeguata e priva di visione, è altrettanto vero che la famiglia Riva ha forti responsabilità. Spetterà ai giudici stabilire se tali responsabilità sono penali o solo politico-morali. Ma comunque ci sono. E le opinioni riportate qui sono quelle di Gozzi, non quelle dell’autore.

L’intervista

Attraverso questo colloquio-intervista, al di là delle visioni personali di Gozzi, si può leggere un’utile e approfondita analisi di un tema cruciale per la politica industriale, il manifatturiero e l’economia italiana tout court.

Non puo’ esistere un mondo senza acciaio

«Non esiste grande industria al mondo che faccia a meno dell’acciaio nazionale. E in quasi tutto il mondo, l’industria siderurgica gode di forme di supporto pubblico, che rispondono a una precisa visione, cioè a una politica industriale», ci dice Gozzi. «Questo, storicamente è sempre stato vero. Ma lo è ancor di più in un mondo globalizzato. La globalizzazione, nel suo insieme, è a mio avviso un fenomeno positivo, visto che ha incredibilmente aumentato la ricchezza mondiale e ha consentito a milioni di persone, anzi a centinaia di milioni, di uscire dalla povertà. Al tempo stesso, è una continua battaglia, dura e spietata, per la rideterminazione delle ragioni di scambio. In questo confronto, si misurano fra loro neanche più gli Stati, ma sistemi territoriali, come la Cina, la Russia, l’Unione Europea, gli Stati Uniti. I grandi attori siderurgici hanno dietro di sé sistemi territoriali. Inoltre, in questa battaglia durissima, fare le anime belle attaccate a posizioni di principio è perdente, oltreché inutile.»

Situazione critica in fabbrica
Lavorazione dell’ acciaio

A che cosa si riferisce, quando parla di anime belle? Lei è contrario alla salvaguardia dell’ambiente?
«Assolutamente no. Ci mancherebbe altro. Anzi, sono convinto che l’ambiente abbia un valore enorme, assolutamente primario. E che ci debbano essere leggi chiare, facili da interpretare, ed efficaci, per difenderlo e migliorarlo. Io sono solo preoccupato da un certo atteggiamento oltranzista, fautore di posizioni di principio fini a se stesse, che servono solo a farci del male e, a conti fatti, non hanno influenza sulla tutela di questo valore enorme. Le emissioni di CO2, per esempio, sono un fatto globale. L’anidride carbonica emessa si disperde in tutto il globo. Dal punto di vista della riduzione delle emissioni, l’Europa è all’avanguardia mondiale. Ora, mi domando però il senso di forti preoccupazioni di principio per uno 0,1 di emissioni in più, quando magari la Cina disperde nel globo 100 in più. Una cosa è difendere l’ambiente che, ripeto, è sacrosanto. Una cosa diversa è fare i primi della classe facendoci del male.»

Ma come dovrebbe essere una politica industriale in favore dell’acciaio?
«Per i settori di base come l’acciaio, parlare di politica industriale ha senso solo su base europea. Finora si è visto poco, ma noi continuiamo a sperarci e, come Federacciai, a lavorare perché ciò avvenga. Per un continente in crisi di sviluppo, e la cui industria è sottoposta per larghi settori a forti pressioni, ci vuole un accompagnamento nella guerra della globalizzazione. Oggi l’Europa è spaccata in due. Ci sono paesi a forte sensibilità industriale. E paesi che non hanno più industria e pertanto non sono sensibili ai temi della politica industriale. La bilancia penderebbe a favore dei paesi industriali se la Germania si schierasse. Ma la Germania non si schiera per due motivi. Il primo è che le politiche industriali se le fa da sola. Il secondo è che teme che i soldi tedeschi vengano usati per far concorrenza ai tedeschi stessi.»

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Danzica, deposito di materiali ferrosi

E dunque, come se ne esce?
«Forse bisognerebbe lavorare a un fronte pro-industria e sviluppo che riesca, attraverso una coalizione internazionale, a imporre una svolta in tal senso. L’Europa ha enormi potenzialità inespresse. Non ha debito federale, ma solo locale, al livello di Stati. Gli Stati Uniti hanno sia debito federale, sia debito in capo ai singoli Stati. L’Europa no. Con l’emissione di eurobond si potrebbero finanziare importanti opere infrastrutturali (di cui, peraltro, c’è grande necessità) e dare un impulso notevole alla crescita dell’economia.In assenza di politiche industriali adeguate, il rischio forte è l’implosione dell’Europa. Ci vuole una visione comune, tale da risalire la china dello sviluppo economico e della disoccupazione. Siamo andati avanti per troppo tempo con una moneta unica ma economie divergenti. Non è più possibile proseguire così.Ovviamente una politica industriale europea è necessaria. Però anche al livello nazionale, qualcosa si può fare.»

Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi.
Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi.
La siderurgia italiana un settore strategico per il paese

«È fondamentale che continui a esserci un’industria dell’acciaio italiano. Abbiamo la seconda meccanica europea, e viviamo di acciaio. L’assenza di acciaio italiano ci porterebbe alla dipendenza da stranieri, con un enorme costo (e quindi uno svantaggio competitivo) caricato sulle spalle delle nostre imprese. Inoltre, finiremmo col dipendere da filiere straniere. Approvo tutto quello che finora ha fatto il governo Renzi. I provvedimenti in tema di lavoro sono molto positivi, dagli sgravi fiscali al nuovo contratto a tempo indeterminato e tutele crescenti. Però c’è ancora molto da fare. Al livello nazionale, le migliori politiche industriali, anche per l’acciaio, dovrebbero far leva su almeno tre pilastri. »

«Il primo è il rilancio della domanda interna, assolutamente indispensabile per sostenere qualsiasi attività, manifatturiera e non. Secondo, un fisco finalmente normale, che favorisca gli investimenti esteri. Bisognerebbe introdurre la formula della ruling (i contratti che un grande investitore straniero fa col fisco) anche per l’Italia. Terzo pilastro, maggiore certezza del diritto dal punto di vista delle politiche ambientali, che sono complesse e spesso contraddittorie, con regole molto difficili, o addirittura impossibili da rispettare, dando anche alla magistratura un potere arbitrario, tale da produrre effetti disastrosi, come si è visto nel caso Ilva.»

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Lavorazione nelle acciaierie Duferco

Insomma, la siderurgia italiana è un asset strategico per l’intero Paese e per l’Europa… Ma come sta messa?
«Nella non facile situazione economica del Paese ha complessivamente tenuto. Qualche punto di crisi come la Terni è stato positivamente avviato a soluzione, altri come Piombino e Taranto non possono ancora dirsi superati. Qualche altro punto di crisi è comparso all’orizzonte: il più importante dei quali è certamente il Gruppo Stefana. Le ragioni di questa complessiva tenuta, sia pure in un quadro difficile e di ridimensionamento sono state da noi di Federacciai più volte richiamate.

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Antonio Gozzi, Presidente Federacciai

In primis, il sostegno leale delle proprietà che supportano continuamente e in ogni modo le aziende. Poi, la straordinaria efficienza nella gestione dei costi e degli impianti da parte dei siderurgici italiani; la flessibilità e la capacità di adattamento delle nostre aziende alle diverse condizioni di mercato; il miglioramento continuo di processi e prodotti alla ricerca di maggiore qualità e maggiore valore aggiunto; il ristabilimento delle condizioni di costo dell’energia simili a quelle degli altri grandi paesi industriali europei, dopo anni di grave gap competitivo italiano al riguardo. Ultima nell’elenco ma non certo meno importante, la grande professionalità e dedizione di tutti i lavoratori che rappresentano un punto straordinario della siderurgia italiana.»

Le tendenze mondiali

Sul caso Ilva torneremo nella parte finale della nostra conversazione. Prima, vorrei parlare di che cosa sta succedendo nell’industria mondiale dell’acciaio…
«Ci sono tre macrotrend importanti: sovra-capacità produttiva, intensificazione della battaglia competitiva, caduta del prezzo delle materie prime. Nel mondo, la crescita della produzione degli ultimi 14 anni è stata impressionante, passando dagli 850 milioni di tonnellate del 2003 ai 1750 milioni del 2014. Nonostante questo, la crescita della domanda mondiale di acciaio negli anni recenti ha conosciuto un rallentamento, passando da una media del 7% annuo a un più contenuto 3% annuo. In questo scenario, la forza trainante è rappresentata dalla Cina».

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Impianto siderurgico in Cina

«Metà dell’acciaio mondiale viene prodotto in Cina, circa 750 milioni di tonnellate. Ciò mette nelle mani della Cina anche i settori collegati direttamente all’acciaio, come il minerario e lo shipping. Il Paese ha una sovra-capacità produttiva di 200 milioni di tonnellate, metà delle quali, cioè 100 milioni, viene destinata all’esportazione. Pure la crescita delle esportazioni è stata esplosiva, in pochi anni le quantità sono quintuplicate, passando dai 20 milioni di tonnellate del 2010 ai 100 del 2014 appena citati. È stato il rallentamento della crescita a ridurre la domanda di acciaio, e quindi a creare il fenomeno della sovra-capacità. Il gigante asiatico continua a crescere, ma meno che un tempo. E quindi si costruiscono meno case, fabbriche e grandi opere di quanto si facesse qualche anno fa.»

«Nonostante questo, la scelta di politica industriale cinese è stata di non ridurre la produzione siderurgica. Il rosso di bilancio che questa decisione ha creato a molte aziende, non è stato un problema. Visto che sono controllate dallo Stato, non ci sono azionisti o analisti finanziari a cui rispondere, contano solo le scelte di politica industriale. Le esportazioni cinesi, che sono anche a basso prezzo, creano e creeranno grandi problemi a tutta la siderurgia mondiale, perché riducono i prezzi a livelli difficili, o addirittura impossibili, da sostenere da parte di aziende private. Il settore si destabilizza.»

«Anche se bisogna affrontare tutto questo, il mercato dell’acciaio continuerà comunque a crescere…
Se si guardano con attenzione le previsioni globali da qui a 15-20 anni l’elemento centrale che emerge è la prospettiva di crescita e di sviluppo della parte di un mondo che fino a oggi li ha conosciuti meno.
Da qui al 2030 tra 1 e 2 miliardi di persone entreranno in quella che possiamo definire “classe media”. Tale fenomeno interesserà per la maggior parte l’area Asia-Pacifico soprattutto a seguito della continua, prodigiosa, crescita di Cina e India, ma anche l’America Latina, l’Africa e il Medioriente. Inurbamento di grandi masse di popolazione, costruzione di abitazioni, costruzione di infrastrutture fisiche e immateriali, crescita di consumi di beni per la famiglia e la casa, quali auto, elettrodomestici, elettronica distribuita, abbigliamento, alimentazione, ecc. saranno lo scenario dei prossimi anni. Per questo la siderurgia rimarrà un settore fondamentale al livello mondiale: in continua crescita nelle aree di sviluppo, ridimensionata ma sempre strategica nei paesi già sviluppati. »

Tondini di acciaio
Tondini di acciaio

«In questi ultimi – com’è stato giustamente scritto – la siderurgia, oltre a soddisfare una domanda proveniente dai settori industriali di base tradizionali, contribuisce e contribuirà a rafforzare il posizionamento competitivo del sistema manifatturiero nei settori di frontiera e in quelli più avanzati. La grande questione che abbiamo dinanzi come siderurgici del vecchio mondo è che per contribuire alla competitività dei settori a valle bisogna essere capaci di rimanere competitivi noi. E farlo in un ambiente come quello europeo, spesso anti-industriale, non è facile.»

Le materie prime

Tutto il discorso che Lei ha appena fatto ci fa capire cosa si intende quando si dice che la siderurgia è strettamente dipendente da scelte politiche, e dalle strategie che si sono dati i sistemi territoriali in competizione nella guerra per la globalizzazione. Il tema delle materie prime a costo stracciato complica ulteriormente lo scenario…
«La riduzione del prezzo delle materie prime siderurgiche muta radicalmente lo scenario di riferimento degli operatori, che oggi devono decidere in che modo utilizzare il capitale disponibile per gli investimenti. In passato, le siderurgie nazionali/territoriali si potevano distinguere tra quelle autosufficienti per quanto riguarda le materie prime (e quindi forti di maggior vantaggio competitivo) e quelle che non lo sono. Oggi i bassi prezzi dei minerali rendono meno importante l’autosufficienza. Anzi, quasi irrilevante.Negli ultimi dieci anni, però, quasi tutti i grandi gruppi industriali siderurgici, temendo fortemente il potere oligopolistico dell’offerta e privilegiando la sicurezza degli approvvigionamenti di materie prime, hanno fatto enormi investimenti nell’up-stream, comprando miniere e concessioni minerarie spesso a prezzi elevati. »

«Oggi quegli investimenti, almeno dal punto di vista del costo pieno alla tonnellata della materia prima estratta, sembrano non avere più senso e, nel caso in cui le siderurgie siano diventate esse stesse venditrici di materia prima (per le eccedenze disponibili rispetto ai loro fabbisogni), rischiano di rappresentare un peso insopportabile sui bilanci aziendali. Si modificano anche i rapporti di forza tra le varie siderurgie mondiali. Se, fino a ieri, i siderurgici russi, ucraini, brasiliani e indiani, forti dei vantaggi competitivi naturali rappresentati dalla grande disponibilità a basso costo di materie prime, dettavano legge e apparivano come i “signori della guerra” a scapito di altre siderurgie come quelle europee, americane, giapponesi, coreane e cinesi, tutte prive di materie prime, oggi il quadro sta cambiando. È ovvio che disporre di approvvigionamenti certi di materie prime e avere le miniere vicine agli stabilimenti siderurgici continua a essere un fatto positivo, ma, poiché il vantaggio competitivo è un vantaggio relativo e non assoluto, la caduta del prezzo delle materie prime aiuta quelle siderurgie che sono acquirenti nette di materia prima e che oggi, opportunisticamente, possono sfruttare il vantaggio della caduta verticale dei prezzi.

E tra queste certamente vi è la siderurgia cinese…
La Cina è un Paese relativamente povero di materie prime siderurgiche: l’Iron ore (ndr. Minerale di ferro) disponibile è poco e il carbone è di qualità bassa. Pertanto, la Cina è un importatore netto di materie prime siderurgiche, soprattutto di Iron ore. È chiaro che una caduta dei prezzi riduce lo svantaggio competitivo della siderurgia cinese rispetto a quelle dei “signori della guerra” e sostiene, anche sul lato della riduzione dei costi, la tendenza naturale ad aumentare le esportazioni di acciaio.

Tondini di acciaio
Tondini di acciaio

E per le aziende siderurgiche, tutto questo che cosa comporta?
Il calo del prezzo delle materie prime pone loro questo dilemma: devono continuare gli investimenti nell’upstream, come è stato fatto negli ultimi dieci anni, per garantirsi la sicurezza nell’ approvvigionamento delle materie prime stesse, oppure bisogna spostare gli investimenti nel downstream, per catturare una più grande parte della value chain e, quindi, aumentare il valore aggiunto dei prodotti finiti?I grandi player della siderurgia mondiale non cinesi non sono evidentemente disponibili a morire di “febbre gialla” e stanno aumentando la loro capacità di sopravvivenza in tempi duri. Sono in atto in tutto il mondo movimenti e reazioni che cominciano a configurarsi, nell’insieme, come una vera e propria strategia di risposta, i cui esiti potranno essere valutati soltanto con il tempo.

Cerchiamo di analizzare le principali tendenze.
In primis c’è la spinta verso la concentrazione: i momenti di crisi sono anche quelli nei quali le attività di M&A si intensificano. Chiusure degli stabilimenti più inefficienti, acquisti e razionalizzazioni realizzati dagli operatori più forti, ricerca di combinazioni e sinergie, accordi commerciali e distributivi, ristrutturazioni e taglio drastico dei costi rappresentano una strada obbligata. Va premesso che in altri settori industriali obbligati a una ristrutturazione globale, questa è stata raggiunta attraverso processi di consolidamento. All’interno di questi processi, un certo numero dei player più importanti hanno comprato o acquisito i più piccoli e hanno chiuso gli impianti più inefficienti e ad alti costi. Ciò è avvenuto, per esempio, nei settori della raffinazione petrolifera, dell’automotive, dell’industria del fotovoltaico. In alternativa, dove gli operatori più importanti non sono riusciti a praticare strategie di consolidamento, tutti i produttori hanno continuato a soffrire e a perdere, fino a quando i più deboli hanno iniziato a chiudere perché non più in grado di finanziare le perdite. Questo sembra essere il caso dei settori del trasporto aereo, dell’alluminio e dello shipping (specie per il comparto bulk).

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Le strategie nel mondo per affrontare l’aggressività della Cina

Insomma, o ci si consolida o si muore. E i siderurgici, allora, che cosa fanno?
Nonostante l’alto livello di indebitamento e la situazione non positiva dal punto di vista del cash-flow non aiutino il settore a consolidarsi, qualcosa sta avvenendo in molte aree del mondo. Se si analizza il livello di concentrazione degli operatori (tradizionalmente non altissimo in siderurgia), si nota che esso è aumentato negli ultimi anni in molte aree del mondo.In particolare:
* Negli Usa, i tre operatori principali Nucor, Us Steel e ArcelorMittal insieme rappresentano quasi l’85% del mercato;
* in Brasile, i tre operatori principali Csn, Usiminas e ArcelorMittal raggiungono il 90%;
* in Russia, i quattro operatori principali, Severstal, Novolipesk, Evraz e Magnitogorsk raggiungono il 95%;
* in Giappone, Nippon Steel, Sumimoto e Jfe sono all’88%;
* inCorea, Posco, Hyundai e Don Cook sono al 90%.

Più complicata resta la situazione in Europa dove, nonostante l’importante presenza del più grande produttore mondiale (ArcelorMittal), il livello di concentrazione del settore è più basso, e ciò si deve alla presenza storica di molte siderurgie e al fatto che il settore viene percepito come strategico in svariate economie. In conseguenza di ciò, vi sono interventi pubblici e comportamenti sindacali che ritardano i meccanismi di consolidamento del settore che pure sarebbero necessari.

Comunque, l’impressione che si ha è che le grandi concentrazioni continentali sopra descritte abbiano deciso di non farsi concorrenza transcontinentale e siano concentrate a proteggere i rispettivi mercati domestici dal rischio dell’invasione cinese.
Questa è l’altra tendenza che mi apprestavo a descrivere, e che potremmo chiamare “regionalizzazione”. L’acciaio pesa e, quindi, il suo trasporto in giro per il mondo (il cosiddetto “turismo siderurgico”) è assai costoso e, pertanto, non consigliato. Alcune attività, come quella delle costruzioni, grande acquirente di acciaio, non si possono delocalizzare e quindi, in qualche modo, aiutano una certa regionalizzazione del business dell’acciaio. Ci sono poi le pressioni dei produttori per cercare di ridurre la concorrenza internazionale, specie quella sleale e provocata da pratiche di unfair trade. Anche in conseguenza di ciò, è possibile che nei prossimi anni aumentino i protezionismi e le politiche di difesa commerciale (antidumping e politiche di controllo delle importazioni, basate anche su norme tecniche, di standardizzazione della qualità, di sicurezza, ecc.).

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Lavorazione nelle acciaierie Duferco

La siderurgia statunitense è stata un precursore su questa linea, ottenendo dal governo federale significative politiche di protezione che vanno dal “Buy America” anche per molte qualità di acciaio, ai dazi introdotti per contrastare politiche di dumping praticate soprattutto, ma non solo, da siderurgie cinesi. Brasile, Russia, India e Giappone seguono abbastanza fedelmente una politica di protezione del settore siderurgico, tanto che si stima che oltre il 60% dell’attività siderurgica mondiale sia svolta in paesi che in un modo o nell’altro proteggono il settore.

La situazione in Europa

Ulteriori argomentazioni per sostenere che senza una politica industriale non si va da nessuna parte. E l’Europa, allora, che cosa fa?
Anche in questo caso, la situazione europea è più difficile. Gli interessi commerciali nei confronti della Cina sono molto differenziati tra paese e paese. E anche i due principali produttori di acciaio europei – Germania e Italia – hanno significativi livelli di esportazioni manifatturiere in Cina e, quindi, sono assai prudenti rispetto alle impostazioni di politiche non si dice protezionistiche, ma un po’ meno aperte del tradizionale. Il settore dell’acciaio europeo è fortemente sotto pressione per una drammatica caduta della domanda interna degli ultimi cinque anni, per la conseguente sovra-capacità installata, per i costi elevati di molti stabilimenti, specie con riferimento alle materie prime e all’energia, e per le crescenti pressioni ambientali che rendono sempre più difficile la vita agli stabilimenti a ciclo integrale (Bf/Bof) (si veda il caso dell’Ilva di Taranto) proprio quando, grazie alla caduta del prezzo delle materie prime, questi impianti tornano a essere competitivi.

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Negli ultimi quattro anni, più di 50mila lavoratori siderurgici europei hanno perso il posto di lavoro per chiusure e/o ristrutturazioni senza che i governi o la Commissione europea abbiano adottato significative politiche di sostegno. Solo la coraggiosa iniziativa dell’allora commissario europeo all’industria Antonio Tajani ha obbligato l’Europa a discutere del futuro della siderurgia dopo vent’anni che del settore nessuno parlava, quasi si trattasse di un reperto di un’altra era economica.

Insomma, ancora una volta all’Europa manca una vision di ciò che deve fare in futuro…
Proprio così. L’Europa deve decidere che cosa intende essere nel mondo globalizzato, al di là di retoriche da primi della classe, quando in realtà siamo, almeno dal punto di vista della crescita economica, gli ultimi.

Innovazione e specializzazione nel settore siderurgico

Anche nell’acciaio, come in molti altri settori manifatturieri, viene da pensare che il tema strategico sia quello della specializzazione per mantenere il vantaggio competitivo…
Certo. Le siderurgie più evolute del mondo cercano, infine, di contrastare la minaccia rappresentata dalle crescenti esportazioni cinesi intensificando i processi di innovazione tecnologica e di specializzazione sia di processo sia di prodotto. Tanto nel comparto dei prodotti piani che in quello dei prodotti lunghi vi è stata un’intensificazione recente di tali processi.
Le nuove frontiere sulle quali si cerca di costruire e mantenere il vantaggio competitivo sono le seguenti:
1. Nel campo dell’innovazione di prodotto:
* – acciai sempre più leggeri e ad alte prestazioni meccaniche e resistenziali (specie per il comparto dell’automotive e delle yellow machine),
* – acciai sempre più “puliti” per utilizzi sempre più sofisticati (specie nel comparto della meccanica, della costruzione di macchine e dell’Oil and gas),
* – acciai sempre più “antisismici” (nel comparto delle costruzioni), 2. Nel campo dell’innovazione di processo:
* – processi sempre più energy saving,
* – processi sempre più sostenibili sotto il profilo ambientale,
* – processi che riescano a coniugare altissimi livelli di produttività ed efficienza con elevati gradi di flessibilità. C’è il rischio che si tratti di una fatica di Sisifo, perché la velocità e l’efficienza con la quale le nuove siderurgie, a partire da quella cinese, apprendono anche le pratiche più sofisticate e complesse è impressionante.

La siderurgia italiana sta reagendo bene, a suo avviso?
Abbiamo al riguardo esperienze di eccellenza assoluta nel nostro Paese. Cito il caso di Arvedi e del suo processo endless che costituisce un riferimento al livello mondiale per l’innovazione tecnologica nell’ambito dei processi produttivi, e di Danieli che, nel campo dell’impiantistica siderurgica, tiene testa a colossi mondiali grazie all’accumulo conoscitivo e di know-how propri della community siderurgica italiana.

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L’impianto Ilva a Taranto

Il caso Ilva

E ora parliamo dell’Ilva, che produce metà dell’acciaio italiano. Lei in questi ultimi mesi, come presidente di Federacciai, ha difeso la famiglia Riva e contestato le decisioni della magistratura. Sono prese di posizioni controverse, e comunque molto forti.
Quello dell’acciaio è un settore strategico al livello nazionale. Stiamo parlando di un danno economico quantificabile in miliardi di euro e migliaia di posti di lavoro persi. L’Ilva, inoltre, è stata messa in sicurezza con un grave vulnus per la libertà d’impresa. Quale investitore straniero, mi domando, sarà ora disposto a investire in un Paese dove è possibile bloccare la produzione di un’azienda prima che un qualsiasi grado di giudizio sia stato raggiunto? Non dimentichiamo che a Taranto siamo di fronte soltanto a indagini preliminari.

Ma perché tanta passione nel difendere i Riva?
Lo abbiamo fatto non solo per la tutela dei diritti di una grande famiglia siderurgica italiana come quella dei Riva, argomento sul quale voglio tornare ancora una volta. Lo abbiamo fatto perché pensiamo che la soluzione del problema dell’Ilva di Taranto sia national interest e che l’Italia, e il suo il rimanere nel rango dei grandi paesi industriali, abbia bisogno di questa soluzione. Abbiamo combattuto con forza fin dall’inizio la scelta dei commissariamenti che, come da noi denunciato, si è trasformata in un esproprio senza indennizzo.

Esproprio senza indennizzo. Un vostro punto fermo…
Sì! Un nostro punto fermo. Come ho avuto occasione di sottolineare durante la recente assemblea di Federacciai, l’Ilva quando è stata commissariata aveva un patrimonio netto di 2,4 miliardi di euro. Dopo due anni di gestione commissariale il patrimonio è stato azzerato e l’impresa si è ritrovata in stato d’insolvenza e messa in amministrazione straordinaria nonostante la legge prevedesse la restituzione ai legittimi proprietari. Tale esproprio senza indennizzo è una macchia sulla reputazione internazionale del Paese perché è impossibile far capire a un potenziale investitore estero come sia possibile che in un Paese dell’Ue succeda una cosa del genere, come sia possibile operare una tale violenza prima di un giudizio definitivo, prima della sentenza di un tribunale.

Il reato contestato è grave: disastro ambientale.
A parte il fatto che a mio avviso sarà difficile provarlo in giudizio, almeno fino a che in Italia esisterà uno Stato di diritto che possa definirsi tale; stiamo comunque parlando di un reato che, così come è configurato, non può essere imputato solo all’Ilva. A Taranto, infatti, oltre all’acciaieria, ci sono anche un cementificio, l’arsenale (che è pieno di amianto) e una centrale elettrica. E i tumori al fegato e ai polmoni, che secondo l’analisi epidemiologica sono i più diffusi nell’area, hanno un tempo medio di latenza di 25/30 anni.

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Taranto e il complesso siderurgico Ilva

Cosa significa?
Che è una fotografia che risale ad almeno 25 anni fa, quando l’Ilva era di proprietà dello Stato, non dei Riva.Per non parlare poi del fatto che nemmeno l’Asl e l’Arpa Puglia, gli enti competenti a stabilire un giudizio in merito, hanno mai dimostrato l’esistenza di alcun nesso di causalità diretta tra emissioni dell’Ilva e l’insorgere dei tumori. Ma c’è di più, le posso assicurare che l’impatto ambientale dell’Ilva di Taranto è pienamente in linea con quello di tutte le altre aziende siderurgiche europee a ciclo continuo. Non è certo un caso se i Riva non sono stati accusati per il superamento di limiti alle emissioni ma di disastro ambientale. Per di più l’Autorizzazione integrata ambientale (la nuova Aia) firmata dall’allora ministro dell’ambiente Clini anticipa per l’Ilva il termine per il rispetto di particolari soglie di emissioni che gli altri Stati dell’Unione europea sono tenuti a raggiungere entro il 2016. E per le quali la Germania ha già ottenuto una proroga al 2018. Francamente non credo che all’estero siano meno attenti all’ambiente che da noi…

Lei difende l’operato della famiglia Riva, che a molti sembra indifendibile…
I Riva sono eccellenti imprenditori, che hanno investito nell’Ilva più di quanto ne abbiano ricavato sotto forma di dividendi. Sono stati lasciati soli da uno Stato contradditorio nelle sue normative e privo di una visione strategica. Le incredibili vicissitudini alle quali sono stati sottoposti sono lo specchio della malattia di questo Paese, che sembra far di tutto per respingere gli investimenti e la creazione di ricchezza. Alla fine la verità verrà fuori, e mi darà ragione.

A suo avviso, lo Stato nella situazione Ilva dovrebbe giocare un ruolo di “accompagnamento finanziario”. Può spiegare con maggiori particolari di che cosa si tratta…
Credo che l’ipotesi di accompagnamento finanziario alla soluzione sia indispensabile, perché non vedo capitali privati italiani ed esteri sufficienti oggi a risolvere il problema di Taranto. In Europa esistono società pubbliche che intervengono insieme ai privati in maniera transitoria e che hanno una remunerazione adeguata al capitale investito. Ci sono tante forme possibili.

Come valuta la situazione attuale dell’Ilva?
La situazione di oggi resta preoccupante per carenza di risorse finanziarie e di management, i due fattori sui quali si giocherà il futuro di Taranto. L’azienda continua a produrre poco e male, perde molti soldi, deve realizzare investimenti ingentissimi, continua ad avere la maggior parte degli impianti sotto sequestro. Occorre definire al più presto un piano industriale e finanziario che preveda i tempi dell’intervento dello Stato, chiarisca le sue finalità, ridefinisca la prospettiva di un ritorno dell’azienda in mani private sperando che questo sia ancora possibile. Siamo sempre disponibili a dare, se richiesto, il nostro contributo di idee e di proposte e a farlo in quel quadro sopra richiamato nel quale i problemi vanno affrontati complessivamente all’interno di un piano per la siderurgia italiana e dove la vera o presunta soluzione di un problema non ne deve aprire altri ancora più grandi.

 














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